martedì 29 marzo 2011

LA FAVOLA DI NATALE - GIOVANNI GUARESCHI



















Seconda guerra mondiale.


Quando l'Italia firmò l'armistizio con le truppe Alleate, Giovanni Guareschi si trovava in caserma ad Alessandria.
Rifiutò di passare alla Repubblica di Salò e al Reich. Venne quindi arrestato e inviato nei campi di prigionia di Czestochowa e Benjaminovo in Polonia e poi in Germania a Wietzendorf e Sandbostel per due anni, assieme ad altri soldati italiani: gli IMI (Internati Militari Italiani).
In seguito descrisse questo periodo in Diario clandestino
A Sandbostel, nello Stalag X B, nell'inverno del 1944 compose La Favola di Natale, racconto musicato di un sogno di libertà.
Scritta per allietare i compagni durante il loro secondo Natale da prigionieri, La favola di Natale è ispirata da tre Muse che si chiamano Freddo, Fame, Nostalgia.
"Non è una delle solite favole che rallegrano da secoli e secoli la prima giovinezza degli uomini, ma è stata scritta da uomini maturi e ad essi è stata raccontata nel Natale del 1944. E ciò avvenne in un campo di prigionia sperduto in una deserta landa del Nord"
Albertino è un ragazzino che ha imparato a memoria una poesia da recitare a suo padre per la vigilia di Natale, ma il padre, prigioniero di guerra, non è a casa ed il bambino recita la poesia alla sedia vuota.
La finestra si apre all'improvviso ed i versi si trasformano in un uccellino che vola via nel vento.
Allora Albertino decide di andare in cerca di suo padre insieme al cane Flick, anche se i due non hanno mai viaggiato prima tranne che per andare dalla nonna, che abita nello stesso isolato.
Albertino e il cagnolino Flick attraversano insieme la terra della Pace diretti verso la terra della Guerra e incontrano lungo la via molti personaggi, finché non raggiungono la Foresta degli Incontri: una specie di terra di nessuno, dove finalmente si trovano davanti il padre di Albertino, che ha viaggiato in sogno per passare una notte speciale insieme al figlio.

"Era lui.

Era il babbo.

Era il babbo che, nella notte di Natale, era fuggito dal suo brutto recinto

e ora camminava in fretta verso la sua casa".










Arturo Coppola, compagno di prigionia di Guareschi musicò la favola e diresse l'orchestra ed il coro dei prigionieri per la rappresentazione "magica" che ebbe luogo nel campo di concentramento la sera del 24 dicembre 1944.

























Racconta Guareschi nell'introduzione scritta dopo la guerra:

"Questa favola io la scrissi rannicchiato nella cuccetta inferiore di un 'castello' biposto, e sopra la mia testa c'era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d'angora. [...] I violinisti non riuscivano a muovere le dita per il gran freddo; per l'umidità i violini si scollavano, perdevano il manico. Le voci faticavano ad uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo.

Ma la sera della vigilia, nella squallida baracca del "teatro", zeppa di gente malinconica, io lessi la favola e l'orchestra, il coro e i cantanti la commentarono egregiamente, e il "rumorista" diede vita ai passaggi più movimentati."

Ancora due disegni tratti dalla Favola:

La nonna di Albertino gli spiega che ogni notte visita il sogno il suo papà


Dopo l'avvventura natalizia, il papà deve tornare al campo.

"Papà, perchè non mi prendi con te?"
"Neppure in sogno i bambini debbono entrare laggiù. Promettimi che non verrai mai."
"Te lo prometto, papà".

La Favola di Natale è la bella, semplice storia di un viaggio miracoloso reso possibile dall'amore di un bambino per il suo papà e di una vecchia donna per il suo "piccolo".
Un racconto delicato pieno di ironia e speranza, una favola fatta di coraggio ed amore nonostante la disperazione del campo di concentramento.
Contiene anche, e Guareschi lo dice esplicitamente, un contenuto polemico che si comprende immediatamente guardando le illustrazioni, ma "la vicenda interessava i prigionieri forse ancora più del contenuto polemico della fiaba stessa".

Il campo di Beniaminow in un disegno di Guareschi

 

Settembre 1943, due giovani donne


















Settembre 1943. Manca più di un anno e mezzo alla Liberazione: saranno i 20 mesi più duri della storia italiana. Tutto si sfalda (per prime le istituzioni) e le famiglie italiane – abbandonate a se stesse – già soffrono il terrore dei bombardamenti aerei, il mercato nero, la miseria... ma sono ancora ignare del peggio che incombe.


Due giovani donne, ventottenni, amiche d’infanzia, entrambe sposate con prole, prendono il coraggio tra le mani e iniziano un viaggio che sembra tuttora (sessantasette anni dopo) una temeraria odissea. Partono insieme, impaurite quanto determinate, dalla stazione di Padova, bombardata due giorni prima. Destinazione: Caserma Cantore a Tolmezzo, Carnia friulana; poco lontano dal confine con il terzo Reich. Lì sono accasermati i loro giovani mariti: amici d’infanzia anche loro.
Le due amiche partono “contro” le rispettive famiglie, risolutamente contrarie ad un viaggio - in piena guerra - di due giovani donne “sole” (non accompagnate dal marito) che lasciano a casa figli piccolissimi. Nella loro fervida ma determinata immaginazione, vorrebbero tirare fuori dalla caserma e riportare a casa i loro mariti. Liberarli! mentre lo Stato sembra non esistere più – prima che i tedeschi li deportino in Germania, schiavi per i lavori più umili e pesanti. Quelle brutte notizie circolano in fretta, nonostante la censura dello stato di guerra…
Insomma, due Primule rosse padovane in gonnella, risolute quanto inesperte, che vogliono dare una raddrizzata alla loro storia personale e familiare, ancor prima che l’Italia insorgente dei partigiani cominci a raddrizzare la Storia con la s maiuscola…
La loro missione impossibile riesce. Dopo svariati cambi di treno, innumerevoli controlli di documenti, un bombardamento della stazione di Udine (cui sfuggono miracolosamente incolumi), l’8 settembre - terzo giorno di viaggio - arrivano a Tolmezzo. Trovano inopinatamente i loro mariti, già sfuggiti alle grinfie dei deportatori tedeschi, in abiti borghesi, in attesa di un’occasione propizia per abbandonare Tolmezzo accerchiata. Ma sono anche sbigottiti, increduli, di fronte a quel coraggio più maschile che femminile. Forse, considerata la mentalità dell’epoca, sono anche due maschi un po’ contrariati… Tuttavia (mi piace pensare) sono orgogliosi di queste Primule rosse in gonnella, arrivate fin lì “per salvarli”.
Uno di quei giovani soldati in fuga da Tolmezzo l’8 settembre del ‘43 era il mio babbo: Candido, morto sei mesi fa alla veneranda età di 95 anni.
Una di quelle Primule rosse – avventate e coraggiose – era la mia mamma, Ninetta (all’anagrafe Guerrina Umigiaga), morta ieri sera tra le mie braccia, alla veneranda età di 95 anni.
Dopo ottant’anni vissuti insieme, erano già troppi questi sei mesi “da soli” (lei di qua del fronte, lui di là..). Stavolta è venuto lui a salvarla, a liberarla!, in una di quelle caserme ipertecnologiche – un po’ scarse di anima e di umanità – che sono i nostri ospedali.

Addio Mamma. Ciao Papà. Vi voglio bene! Ricordatevi di me…

Adelante!

domenica 27 marzo 2011

Caccia all'ex nazista Heim il "dottor morte" potrebbe essere ancora vivo


Continua la caccia all'ex nazista Heim il "dottor morte" potrebbe essere ancora vivo.
La famiglia dell'ex SS sostiene che sia morto nel '92 ma il Centro Wiesenthal non lo ha mai creduto e continua a cercarlo. Alcune lettere inviate dall'Egitto a un medico ebreo riaprirebbero la questione.
Continua la caccia all'ex nazista Heim il "dottor morte" potrebbe essere ancora vivo Efraim Zuroff, del Centro Wiesenthal, con una fotografia del nazista ricercato Heim.

ROMA - Non è ancora chiusa la vicenda di Aribert Heim, il criminale nazista noto come "dottor Morte". La famiglia sostiene che sia morto di cancro nel '92, ma nuovi indizi fanno invece pensare che potrebbe essere ancora vivo. L'ex esponente delle Waffen SS e medico nei campi di concentramento nazisti a Buchenwald e Mathausen, che a questo punto avrebbe 95 anni, avrebbe scritto almeno 21 lettere dall'Egitto a un dottore ebreo, Robert Braun, cercando di spiegare la sua posizione e negando di aver partecipato a esperimenti sui prigionieri perché, come medico, si sentiva legato al giuramento di Ippcrate. Un tentativo, a quanto sembra, per cancellare la macchia infamante di quell'appellativo - "dottor Morte" - attribuitogli per la sua crudeltà. Molti testimoni lo hanno infatti accusato di aver fatto operazioni senza anestesia, di aver asportato organi a pazienti sani, di aver sperimentato veleni e farmaci sui prigionieri e altre atroci infamie.
Dopo la caduta del nazismo, cambiato nome, l'austriaco Aribert Heim lavorò a lungo come ginecologo a Baden Baden. Nei primi anni Sessanta, vistosi smascherato, fuggì dalla Germania per rifugiarsi in America Latina, quindi in Egitto. Latitante dal '62, Heim è ricercato dalla giustizia tedesca, austriaca e israeliana per l'uccisione di migliaia di deportati. Sulla sua testa pende una taglia di oltre 300mila euro, offerti a chiunque ne faciliti la cattura dai governi di Austria e Germania, insieme al Centro Wiesenthal 1, che non ha mai smesso di cercarlo.
Efraim Zuroff, direttore del centro, dice che "il caso è ancora aperto" perché non "esistono prove scientifico-legali" del decesso del dottor Morte e alcune delle lettere inviate al dottor Braun sembrerebbero successive al '92. In base a nuove informazioni raccolte, nel 2006 il centro Wiesenthal pensò di averlo individuato in Cile 2, ma il viaggio non portò a nulla. Agli inizi del 2009 una televisione tedesca tornò a parlare di Heim affermando che il criminale nazista era morto di cancro in Egitto nel 1992, come riferito dal figlio, da alcuni conoscenti e da una copia del certificato di morte.

Gli USA rifugio dei nazisti ma non solo...


In questi giorni è tornata alla ribalta da un rapporto dell'OSI (Office of special investigation) americano venuto in possesso del New York Times, quella che per molti sarebbe una scioccante verità: gli USA sul finire della guerra e negli anni immediatamente successivi, diedero accoglienza a molti collaboratori del Terzo Reich‎ tra cui in prevalenza scienziati e ricercatori militari, ma anche a criminali del calibro di Otto Von Bolschwing, il braccio destro di Adolph Eichmann che durante la guerra si è tanto adoperato nello sterminio di massa delle "razze inferiori". Le verità scioccanti del rapporto dell'OSI bene o male finiscono qui e a parte un po' di indignazione generale che il tempo farà senza dubbio mitigare fino a scomparire, non emerge nessun retroscena veramente sconvolgente in grado di arricchire o addirittura far riscrivere i libri di storia che parlano di quegli anni bui.

C'è però motivo di credere che in realtà i nazisti sempre sul finire della guerra abbiano avuto accordi con gli alleati per il trasferimento di risorse e tecnologie indispensabili per la costruzione della bomba atomica in cambio di una garanzia di impunità! Il testo che pubblico ora è parte della mia tesi che feci per l'esame di Stato anni fa:

Nel 1945 gli USA bombardarono il Giappone con due bombe atomiche, dopo aver effettuato la prima esplosione ad Alamogordo nel New Mexico (16 luglio 1945). Quello che pochi sanno è da dove arrivava l'uranio utilizzato per le due esplosioni di Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945). Intanto occorre precisare che si lanciarono due bombe sul Giappone, invece di una, per dimostrare che la prima non era l'unica e ultima bomba atomica posseduta dagli USA. E poi, e questa è la vera notizia, bisogna sapere che alcuni componenti fondamentali delle due bombe arrivarono dalla... Germania, da un carico che si vuole in origine destinato ad uno scambio di materiali bellici tra Hitler ed Hirohito, l'imperatore del Giappone. La versione comunemente accreditata dice che le prime tre bombe atomiche vennero prodotte dagli USA con un costo di due miliardi di dollari e cinque anni di lavoro di un'armata di scienziati di alto livello, con l'aiuto della Gran Bretagna. E' vero che gli USA avevano avuto successo nell'arricchimento dell'uranio - il componente principale della bomba atomica - ma le prove scoperte indicano chiaramente che a causa della fretta e dei ritardi tecnologici, solo grazie alla sorprendente opportunità di poter ottenere dalla Germania i componenti necessari, che erano scarsi negli USA, fu possibile per il Progetto Manhattan di completare le sue bombe in tempo per il bombardamento sul Giappone previsto per la fine dell'agosto 1945.

Stupefacente è che questi materiali non vennero catturati durante una fortunata azione di guerra, bensì erano una contropartita di una transazione segreta tra la Germania e gli USA: l'accordo prevedeva che i nazisti ricevessero una garanzia d'impunità, ancorché vivendo nascosti per decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo essere fuggiti dall'Europa. Vi sono documenti degli Archivi di Stato degli USA a dimostrazione di questa tesi che gettano luce anche sulla politica di alcuni presidenti statunitensi nei decenni successivi all'armistizio. Si tratta proprio di effettuare una revisione storica di enorme portata, alla luce dei dati e dei documenti acquisiti, che chiarirà molti aspetti altrimenti destinati a rimanere oscuri. Tra questi documenti vi è la lista dei materiali immagazzinati all'interno del sommergibile tedesco (Unterseeboot) U-234 XB, tra i quali troviamo 560 kg di ossido di uranio in dieci contenitori ed altre tecnologie belliche naziste che all'epoca erano allo stato dell'arte. Ad esempio, due aerei jet da caccia Messerschmidt 262 completamente smontati (il Messerschmidt fu il primo aviogetto e venne utilizzato durante la seconda guerra mondiale).


Il sommergibile venne trasferito a Portsmouth, nel New Hampshire, il 19 maggio 1945. Alcuni giornalisti ne furono testimoni. Infine c'è una fotografia presa da un fotoreporter di un giornale locale, quando l'U-234 era all'ancora, che mostra un misterioso prigioniero civile molto somigliante a Heinrich Mueller. Questi sbarcò dalla navetta che era usata per sbarcare il personale dall'U-234. L'uomo nella foto è proprio l'ex capo della Gestapo che sbarca sul territorio americano. La sua missione consisteva nell'assicurarsi della consegna del materiale per le bombe atomiche e di altro materiale che era stato concordato con gli USA, in cambio dell'immunità e della protezione per i nazisti che l'hanno ricevuta per decenni fino ad oggi.  Il 20 novembre 1947, il sommergibile U-234 venne affondato con un siluro dalla USS Greenfish durante degli addestramenti, a circa 40 miglia a nord-est di Cape Cod sulla costa orientale USA.

Sarebbe lungo qui elencare tutta la documentazione che prova senza ombra di dubbio che: 1) senza l’uranio del sommergibile non sarebbe stato possibile fabbricare la bomba all’uranio di Hiroshima; 2) senza la benzil cellulosa, usata come moderatore, non sarebbe stato possibile sintetizzare il plutonio; 3) senza l’aiuto dello scienziato Schickle che era a bordo del sommergibile, il suo contraltare americano nel progetto Manhattan, Louis Alvarez, non sarebbe riuscito a progettare in tempo l’innesco ad implosione per la bomba al plutonio di Nagasaki! Altri due scienziati, ingegneri aeronautici che erano a bordo del sommergibile, vennero riciclati all’interno dell’industrie Fairchild da cui uscirà negli anni cinquanta il famoso aviogetto F-105 usato nella guerra del Vietnam.

sabato 26 marzo 2011

In tutti i licei della Francia

In Francia oggi inizia il nuova anno scolastico. Nei licei di Francia verrà letta, per volontà del presidente della Repubblica, Sarkozy, la lettera scritta dal diciassettenne Guy Môquet ai suoi genitori, prima di essere fucilato dai nazisti nell’ottobre 1941.

Far leggere all’inizio di ogni anno scolastico questa lettera, è stata la sua “prima decisione” da presidente della Repubblica. Il 16 maggio 2007, giorno del suo insediamento all’Eliseo, Sarkozy, si è recato al Monumento de la Cascade, al Bois de Boulogne, per rendere omaggio ai 35 giovani resistenti fucilati dai nazisti, alla vigilia dell’insurrezione di Parigi nell’agosto del 1944.

Partiti il 16 agosto 1944 alla ricerca di armi per l’insurrezione di Parigi, caddero in un agguato teso da un agente francese della Gestapo. Furono fucilati nella notte tra il 16 e il 17 agosto da soldati della Wehrmacht ai piedi della cascata nel Bois de Boulogne. I corpi mutilati dai proiettili e dalle granate furono portati il giorno dopo in un garage trasformato in una camera ardente. Di età compresa tra i 17 e i 22 anni, la maggior parte dei fucilati apparteneva alle FFI (Forces Française de l’Interieur) e ai FTP (Francs-Tireurs et Partisanns). Gli altri erano membri dei Jeunes Chrétiens combattants o dell’Organisation Civile e Militare de la Junesse.

Nel suo discorso presso il Monumento de la Cascade, al Bois de Boulogne, il presidente della Repubblica così si è espresso: “Ho voluto fare qui la mia prima commemorazione da presidente della Repubblica, perché credo che sia essenziale spiegare ai nostri figli quello che è un giovane francese, e mostrare loro, attraverso il sacrificio di qualcuno di questi anonimi eroi dei quali i libri di storia non parlano, quella che è la grandeur di un uomo che si dona ad una causa più grande di lui. Voglio, con questo gesto, che i nostri figli si rendano conto dell’orrore della guerra e a quale estrema barbarie può condurre i popoli anche i più civilizzati”.

Durante la cerimonia in onore dei 35 partigiani fucilati, è stata letta la seguente lettera che Guy Môquet ha scritto ai suoi genitori prima di essere fucilato:

"Ma petite maman chérie, mon tout petit frère adoré, mon petit papa aimé, Je vais mourir ! Ce que je vous demande, toi, en particulier ma petite maman, c'est d'être courageuse. Je le suis et je veux l'être autant que ceux qui sont passés avant moi. Certes, j'aurais voulu vivre. Mais ce que je souhaite de tout mon cœur, c'est que ma mort serve à quelque chose. Je n'ai pas eu le temps d'embrasser Jean. J'ai embrassé mes deux frères Roger et Rino. Quant au véritable je ne peux le faire hélas ! J'espère que toutes mes affaires te seront renvoyées elles pourront servir à Serge, qui je l'escompte sera fier de les porter un jour. A toi petit papa, si je t'ai fait ainsi qu'à ma petite maman, bien des peines, je te salue une dernière fois. Sache que j'ai fait de mon mieux pour suivre la voie que tu m'as tracée.Un dernier adieu à tous mes amis, à mon frère que j'aime beaucoup. Qu'il étudie bien pour être plus tard un homme. 17 ans 1/2, ma vie a été courte, je n'ai aucun regret, si ce n'est de vous quitter tous. Je vais mourir avec Tintin, Michels. Maman, ce que je te demande, ce que je veux que tu me promettes, c'est d'être courageuse et de surmonter ta peine.

Votre Guy qui vous aime.

Dernières pensées : Vous tous qui restez, soyez dignes de nous, les 27 qui allons mourir !"

(traduzione)
«Mia cara piccola mamma, mio fratellino adorato, mio amato piccolo papà, Vado a morire! Quello che vi domando, a te in particolare mamma, di essere coraggiosi. Io lo sono e voglio esserlo come coloro che sono passati prima di me. Certo avrei voluto vivere. Ma quello che io mi auguro con tutto il mio cuor, è che la mia morte serva a qualche cosa. Non ho avuto il tempo di abbracciare Jean. Ho abbracciato i miei due fratelli Roger e Rino. Veramente non l’ho potuto fare purtroppo. Spero che tutti i miei indumenti ti saranno restituiti potranno servire a Serge, che sono sicuro sarà fiero di indossarli un giorno. A te papà, se ti ho dato, come alla mia piccola mamma, dei dispiaceri, ti saluto una ultima volta. Sappi che ho fatto del mio meglio per seguire la via che tu mi hai indicato. Un ultimo addio a tutti i miei amici, a mio fratello che io amo molto. Che studi bene per essere più tardi un uomo.

17 anni e mezzo, la mia vita è stata breve, non ho alcun rimpianto se non quello di lasciarvi tutti. Vado a morire con Titin, Michel. Mamma, quello che ti chiedo, quello che ti chiedo, quello che voglio che tu mi prometta, è di essere coraggiosa e di superare il tuo dolore. Non posso trattenermi oltre. Vi lascio tutti, tutte, tu mamma, Serge, papà, abbracciandovi con tutto il mio cuore di bambino. Coraggio!

Il vostro Guy che vi ama.

Ultimi pensieri: voi tutti che restate, siate degni di noi, i 27 che andiamo a morire!»



Chi era Guy Môquet?

Era figlio di un deputato comunista, Prosper. Essendo stato sciolto il partito comunista da Daladier nel mese di settembre 1939, Prosper Môquet viene arrestato il 10 ottobre 1939; decaduto dal suo mandato di deputato nel febbraio 1940, è deportato in Algeria.

Guy era studente del liceo Carnot di Parigi e un fervente militante della gioventù comunista.

Dopo l’occupazione tedesca di Parigi e l’instaurazione del governo di Vichy, Guy dimostra una grande passione di militante attaccando nel suo quartiere manifesti che denunciano il nuovo governo e chiedono la liberazione degli internati. È arrestato a 16 anni il 13 ottobre 1940, a una fermata del metro, da poliziotti francesi che ricercavano dei militanti comunisti. Lo torturano perché riveli i nomi degli amici di suo padre.

Imprigionato, è trasferito in vari campi, dove sono rinchiusi altri militanti comunisti. Il 20 ottobre 1941 il comandante delle truppe di occupazione della Loire-inferieure viene ucciso a Nantes da tre giovani comunisti. Il ministro degli Interni del governo Pétain sceglie 50 comunisti nelle carceri, tra cui Guy Môquet che è il più giovane, da fucilare per rappresaglia.







ALESSANDRO CANESTRARI

Alessandro Canestrari, nato a Udine nel 1915, residente a Verona.




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

La testimonianza

Mi chiamo Alessandro Canestrari, nacqui a Marano Lagunare in provincia di Udine il 10 agosto del 1915. Mio padre era un ufficiale di Posta, mia madre fu l'unica ferita dal bombardamento aereo nei primi anni del 1900 subito dopo la dichiarazione di guerra.

Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944, perché ero il comandante del battaglione Trainago che fondai; inoltre avevano il sospetto che fossi l'artefice dell'atto di sabotaggio nei confronti del Municipio, in quanto, con un gruppo di altri partigiani lo bruciammo per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE - perché facevo parte anche della RYE - era perché lì, c'era un gruppo di tedeschi di una grossa divisione.

Allora i fascisti - le Brigate Nere, soprattutto l'UPI (Ufficio Politico Investigativo), la cui sede era presso l'ex caserma del Teatro Romano, dove fui prigioniero - ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato... Approfittai del fatto che avevo un fratello missionario comboniano e finii per due, tre giorni nella casa madre di Verona, nascosto dai padri comboniani. Sennonché, quando vennero a casa le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, staffetta partigiana.

Mia sorella aveva una gamba rigida per un'operazione subita a quattro anni. Quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto, non vi dico il mio stato d'animo... Avevo rimorso... Mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava... Questa faccenda di mia sorella... Quindi vagai un po' a Verona di nascosto; poi, una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del bambino - mia moglie era giovanissima - tornai a casa. La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono.

Mi portarono alle Brigate Nere, nella scuola Sanmicheli di Verona e il giorno dopo mi portarono al Giardino Giusti dove c'era il famoso criminale, il capitano Gradinigo delle Brigate Nere. Era il giorno 23 dicembre del '44... Mi disse Gradinigo "Questo è il più bel regalo di Natale!" e mi diede una dose di bastonate.

Da lì mi portarono alla sede dell'UPI dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato. Dall'UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi una settimana, quindici giorni. Dal Forte San Leonardo mi rivollero le SS e finii al palazzo dell'INA. Lì ci fu l'interrogatorio che... L'ho vista brutta... L'interrogatorio durò sette ore. Inavvertitamente, parlando, misi le mani sulla scrivania, il tenente tedesco con la stecca mi diede un colpo e mi disse "Educationen, Educationen!". Morale della favola: mi condannarono a morte.

Da Verona per raggiungere il campo sono partito con Perotti... Eravamo in un solo camion, stipatissimo... C'era anche il professor Perotti... C'erano tre SS sedute dietro, due sedute avanti col mitra puntato verso di noi.

Siamo arrivati al campo di Bolzano. Ci fecero denudare... Naturalmente eravamo pieni di parassiti... Scherzando, dicevo che c'erano pidocchi di varie qualità: alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri... Eravamo pieni di parassiti. Ci denudarono, ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero la tuta bianca. Non avevamo quella a strisce dei campi di concentramento nazisti ma la tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola: il mio numero era 9586. Non ti chiamavano più per cognome, ti chiamavano col numero di matricola e quando non rispondevi ti davano un calcio di moschetto nei reni.

Nel periodo in cui siamo rimasti a Bolzano, nel Lager di Bolzano. C'erano anche dei religiosi deportati, c'era un certo Ghera, il frate di Baranna. Voi dovreste parlarne, perché l'arresto di Padre Corrado, dei frati che erano lì nel convento di via Baranna, è avvenuto perché avevano dato asilo a ebrei, a partigiani e perché assistevano gli antifascisti. Ne deportarono cinque o sei, mica lui solo; adesso ricordo Padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona. C'erano anche tantissime donne, ce ne erano di bellissime... Io credo che fossero duecento o trecento dentro i fili spinati. Poi c'erano anche degli ebrei... Alcuni ragazzetti ebrei presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti io con i miei occhi.

In fondo al campo c'erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati... Direi che ogni giorno abbiamo sentito grida di dolore e di disperazione.

Durante la Pasqua del '45 venne Monsignor Piola a celebrare la messa, e lì fummo assolti in articolo mortis. Ci chiese "Chi vuol fare la comunione, alzi la mano!", poi lui pronunciò la formula "Avvalendomi della facoltà di Santa Romana Chiesa, ego vos absolvo a peccatis vostris"... Ci diede l'assoluzione e facemmo la comunione.

Monsignor Piola poi è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio, perché c'era l'ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici, tant'è vero che io, facendo parte del comitato di liberazione, come ex ufficiale dell'esercito, ero incaricato di organizzare una certa difesa qualora avessero proceduto all'ordine di Hitler. Invece venne in tempo Monsignor Piola, almeno ci dissero questo, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri.

Noi partimmo in fretta... Talmente in fretta... Eravamo circa quattromila persone, sfondammo la sbarra di legno del campo... Tutti fuori... Eravamo liberi.

ERR project, un nuovo database con più di 20.000 opere trafugate dai nazisti


Avete mai sentito parlare della Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR)? Ebbene fortunatamente la maggior parte di noi non l’ha mai vista in azione, già perchè la ERR era una speciale Task Force istituita dai Nazisti durante la seconda guerra mondiale per saccheggiare le opere d’arte dei paesi occupati. Ad esser precisi l’ERR fu creata il 17 luglio del 1940 da Alfred Rosenberg,un alto membro del Partito nazista nonchè uno dei massimi esponenti di tale ributtante ideologia. Insomma oltre ad aver distrutto milioni di vite ed aver provocato una frattura insanabile nella memoria dei sopravvissuti ai lager, Adolf Hitler è riuscito anche a smembrare intere collezioni d’arte e demolire così il patrimonio culturale di intere nazioni.
Ancor oggi le barbarie perpetrate dai Nazisti rappresentano una ferita ancora aperta e centinaia di migliaia di opere d’arte sono andate perse o distrutte. Fortunatamente però le moderne tecnologie ci vengono un poco incontro e grazie ad esse è possibile quantomeno tracciare i movimenti di quelle meraviglie smarrite. In questi ultimi tempi è nato un interessante database chiamato ERRproject che porta online le famigerate schede usate dai Nazisti per catalogare il loro bottino. Il dato dell’enorme furto è quantomai sbalorditivo. In Francia ed in Belgio infatti la ERR ha trafugato la bellezza di oltre 20.000 oggetti di interesse artistico tra cui alcuni capolavori di Salvador Dali, Pablo Picasso, Henri Matisse ed Edouard Manet, tanto per citare alcuni nomi.

Donne contro

Il contributo delle donne italiane alla liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione nazista.



Appartenenti ai Gruppi Difesa della donna: 70.000
Donne partigiane: 35.000
Arrestate, torturate, condannate 4.653
Fucilate, impiccate o cadute: 623
Deferite, tra il 1926 e il 1943, al Tribunale Speciale Fascista Per La Difesa Dello Stato: 748
Inviate al confino: 145
17 furono le donne decorate con Medaglia d’oro al Valor Militare.

I “Gruppi Difesa della donna” furono una struttura attivissima nella guerra di Liberazione.

Il primo di questi organismi fu costituito a Milano nel novembre del 1943 da alcune esponenti di spicco dei Partiti che affluirono nel Comitato di Liberazione Nazionale, dopo la firma dell'armistizio, mentre i tedeschi assediavano le campagne e le città del Nord Italia, compiendo efferati rastrellamenti di civili, impegnati nella lotta contro il fascismo.

I Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà, da Milano, si estesero su tutto il territorio italiano ancora occupato, perseguendo l'obiettivo di mobilitare, attraverso un'organizzazione capillare e clandestina, donne di età e condizioni sociali differenti, per far fronte a tutte le necessità, derivate dalla recrudescenza della guerra.

Tali gruppi operativi femminili si segnalarono, durante la Resistenza, attraverso la raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperarono per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini, opuscoli ed anche armi.

I Gruppi di Difesa della Donna erano quindi un'organizzazione unitaria "aperta a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che volevano partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione". I Gruppi di Difesa della Donna, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle campagne, si proponevano la resistenza alle violenze tedesche , il sabotaggio alla produzione di guerra, il rifiuto di consegnare i viveri agli ammassi. I Gruppi di difesa della donna parteciparono alla organizzazione dei Comitati di liberazione periferici, e a quelli di agitazione nelle fabbriche; organizzarono scioperi contro fascisti e tedeschi e assicurarono l'assistenza alle famiglie dei carcerati, dei deportati e dei caduti.

I Gruppi di Difesa della Donna vennero ufficialmente riconosciuti dal Comitato di Liberazione dell'Alta Italia in un documento del 1944 nel quale si afferma: “Il Comitato di liberazione per l’Alta Italia, riconoscendo nei Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà un’organizzazione unitaria di massa che agisce nel quadro delle proprie direttive, ne approva l’orientamento politico e i criteri di organizzazione, apprezza i risultati sin ora ottenuti nel campo della mobilitazione delle donne per la lotta di liberazione nazionale e la riconosce come organizzazione aderente al Comitato di Liberazione Nazionale”.

Un padre della Repubblica come Ferruccio Parri dichiarò che «le donne furono la resistenza dei resistenti».

Cinema nazista e eutanasia

Fin dalla Metà degli anni ’30 , due anni dopo la presa del potere di Hitler, il cinema Nazista iniziò effettivamente a occuparsi di “chi ci dovesse liberare” secondo i progetti eugenetici . Le prime vittime del cinema di propaganda furono , da questo punto di vista , i disabili e tutte le persone malate di mente , ritardate o menomate .

Da questo punto di vista , il cinema Nazista Iniziò a produrre una serie lunga di film didattici che mostravano non solo i problemi di queste persone, ma anche la necessità di procedere a sterilizzazione , quando non a una eutanasia Obbligatoria . Il tutto sotto motivazioni Morali o Economiche .

Si tratta in questa prima fase , dei cosiddetti “Euthanasie film” , ovvero i film Nazisti in favore dell’Eutanasia girati prima e durante l’operazione T4 (tietergassen 4) .

L' ”Aktion T4” era il programma nazista di eugenetica, che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone, affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. Si stima che l'attuazione del programma “T4” abbia portato all'uccisione di un totale di persone compreso tra le 60.000 e le 100.000.

Tali film , mostravano il costo di mantenimento degli istituti medici, preposti alla cura dei malati incurabili, e si affermava che il denaro risparmiato poteva essere speso con più profitto per il «progresso» del popolo tedesco «sano e forte ». In particolare, furono i film propagandistici a preparare e convincere spesso l'opinione pubblica della necessità di tali uccisioni di massa. Tra i numerosi cortometraggi, prodotti in relazione alla cosiddetta "eutanasia", vale la pena ricordarne tre:

“Das Erbe” (L'eredità, 1935) - Un film didattico e scientifico, che rappresentava le implicazioni mediche e sociali delle tare ereditarie e che rappresentava l'idea nazista di darwinismo e di «sopravvivenza del più forte».

“Opfer der Vergangenheit” (Vittima del passato, 1937) - Il film metteva a confronto il popolo «sano» con scene tratte dalle corsie degli istituti psichiatrici, popolate di esseri «deformi» e «degenerati» e conclude che ciò era dovuto ad una violazione delle regole della selezione naturale, a cui si sarebbe dovuto porre rimedio ripristinandole con «metodi umani». La prima del film si tenne a Berlino, introdotta dal leader dei medici del Reich, Wagner, e successivamente proiettato a lungo in 5300 centri cinematografici, dislocati in tutta la Germania.

“Ich Klage an” (Io accuso, 1941) - Prodotto e girato con maestria quando già il programma “T4” era avviato su suggerimento di Karl Brandt, uno dei principali responsabili del progetto, per giustificare le misure intraprese e mettere a tacere le critiche che, nonostante il lavoro propagandistico fatto, erano ancora numerose. Il film si ispirava al romanzo “Sendung und Gewissen” (Missione e coscienza) del medico e scrittore Helmut Hunger, altro elemento chiave dell' “Aktion T4”. Mentre i nazisti operavano le uccisioni contro la volontà dei pazienti e dei parenti, il film mostra, distorcendo la realtà, un medico che uccide la moglie, malata di sclerosi multipla, che lo supplica di porre termine alle sue sofferenze. Processato, il medico viene assolto dalla giuria, che si interroga sulla domanda fatta dallo stesso accusato: «Vorreste voi, se invalidi, continuare a vegetare per sempre?».

Dei tre film, il più noto , ma anche il più ambiguo , è sicuramente “Ich klage an” . Presentato al festival del cinema di Venezia nel 1941 , vinse il primo premio come migliore film straniero . Il finale è tuttavia abbastanza ambiguo : il pubblico è infatti posto davanti a un problema , non alla soluzione . Non è un caso , forse , che il film sia uscito nell’agosto 1941, proprio nel mese che coincise con una temporanea sospensione del programma Nazista di Eutanasia, causa le pressanti proteste delle chiese cattolica e protestante Tedesca , e a seguito delle pubbliche omelie di condanna del vescovo di Berlino , Monsignor Von Galen.

venerdì 25 marzo 2011

SCOPERTI!

Il 4 agosto 1944 è una bella, calda giornata estiva. Al quartiere generale della “Sicherheitsdienst” (la polizia tedesca) di Amsterdam quel mattino arriva una soffiata sul nascondiglio dei clandestini. Julius Dettman, l’ufficiale della SD che ha ricevuto la telefonata, ordina al sottufficiale delle SS Karl Silberbauer di recarsi in Prinsengracht. Quattro nazisti olandesi vanno con lui per affiancarlo.
Silberbauer e alcuni dei suoi uomini entrano nel magazzino dell’azienda al pianterreno e chiedono informazioni al magazziniere Willem van Maaren che, in silenzio, indica con un dito il piano superiore. Essi entrano nell’edificio, si dirigono immediatamente verso l’ufficio. Victor Kugler deve condurli al nascondiglio. I clandestini sono stati traditi...





Qualcuno ha tradito i clandestini












"State seduti". Gli impiegati sono al lavoro al primo piano quando, all’improvviso, qualcuno apre la porta. Miep Gies racconterà successivamente: “Entrò un ometto basso con la pistola in pugno puntata contro di me e disse: 'State seduti. E nessuno si muova'.” Victor Kugler, che era nell’ufficio accanto, sente un gran baccano e va a vedere cosa sta succedendo. Victor Kugler: “Vidi quattro poliziotti, uno di loro aveva la divisa della Gestapo.” Un agente punta la pistola contro Kugler e gli fa cenno di far strada. Vanno verso la libreria girevole e la aprono. Con la pistola spianata i poliziotti entrano nell’Alloggio segreto.








La libreria che nasconde l’accesso alla casa


 
 
 
 
 
 
 
 
Il 4 agosto 1944 è una bella, calda giornata estiva. Al quartiere generale della “Sicherheitsdienst” (la polizia tedesca) di Amsterdam quel mattino arriva una soffiata sul nascondiglio dei clandestini. Julius Dettman, l’ufficiale della SD che ha ricevuto la telefonata, ordina al sottufficiale delle SS Karl Silberbauer di recarsi in Prinsengracht. Quattro nazisti olandesi vanno con lui per affiancarlo.
Silberbauer e alcuni dei suoi uomini entrano nel magazzino dell’azienda al pianterreno e chiedono informazioni al magazziniere Willem van Maaren che, in silenzio, indica con un dito il piano superiore. Essi entrano nell’edificio, si dirigono immediatamente verso l’ufficio. Victor Kugler deve condurli al nascondiglio. I clandestini sono stati traditi...

Qualcuno ha tradito i clandestini.

"State seduti". Gli impiegati sono al lavoro al primo piano quando, all’improvviso, qualcuno apre la porta. Miep Gies racconterà successivamente: “Entrò un ometto basso con la pistola in pugno puntata contro di me e disse: 'State seduti. E nessuno si muova'.” Victor Kugler, che era nell’ufficio accanto, sente un gran baccano e va a vedere cosa sta succedendo. Victor Kugler: “Vidi quattro poliziotti, uno di loro aveva la divisa della Gestapo.” Un agente punta la pistola contro Kugler e gli fa cenno di far strada. Vanno verso la libreria girevole e la aprono. Con la pistola spianata i poliziotti entrano nell’Alloggio segreto.

Colti di sorpresa. I clandestini sono colti totalmente di sorpresa. Da più di due anni vivono nell’angoscia costante di essere scoperti e ora il loro incubo è diventato realtà. Otto Frank racconta dopo la guerra: “Erano circa le dieci e mezzo. Ero di sopra dai Van Pels, nella stanza di Peter e lo aiutavo con i compiti. Improvvisamente qualcuno salì di corsa le scale. I gradini scricchiolavano, io mi alzai di scatto perché era ancora mattina e tutti dovevano essere silenziosi. In quel momento la porta si aprì e ci trovammo di fronte un uomo con la pistola in pugno, puntata contro di noi. Dabbasso erano stati raggruppati gli altri. Mia moglie, le bambine e i Van Pels erano in piedi con le mani in alto.” Subito dopo anche Fritz Pfeffer viene condotto in questa stanza.


Oggetti di valore. I clandestini devono consegnare gli oggetti di valore. Silberbauer prende la cartella nella quale Anne conserva i suoi diari e ne scrolla via il contenuto per riempirla con gli oggetti di valore. Le carte che compongono il diario di Anne cadono sul pavimento di legno. Otto Frank: “A quel punto disse: preparatevi. Fra cinque minuti dovete essere di nuovo tutti qui.” Miep Gies racconta: “Li sentii scendere le scale, molto lentamente”. Assieme ai due benefattori Victor Kugler e Johannes Kleiman, anch’essi arrestati, i clandestini vengono fatti salire su un camioncino e portati via.





















"Li sentii scendere le scale, molto lentamente.”


Miep Gies

sabato 19 marzo 2011

Riflettere sulle opere d'arte trafugate dai nazisti

La Svizzera è tra i 49 paesi che prendono parte al vertice organizzato dalla Repubblica Ceca sul tema dei beni trafugati durante la Shoah. Un'occasione per fare un po' di luce su un capitolo buio del passato.

Migliaia di opere d'arte appartenute a famiglie ebraiche sono state trafugate dai nazisti negli anni Trenta-Quaranta. Parte del bottino era finito anche nei forzieri svizzeri. Oggi trovare gli oggetti rubati e raggiungere un accordo sul loro destino non è sempre facile.
La conferenza Holocaust Era Assets Conference, che ha aperto i battenti venerdì a Praga, riunisce attorno ad un tavolo esperti, rappresentanti di organizzazioni non governative, esponenti di gruppi ebraici e diplomatici. La conferenza internazionale intende soffermarsi su diverse tematiche legate alla Shoah, in particolare nei settori dell'educazione, del ricordo, dei beni immobiliari, dell'arte trafugata e dei beni culturali ebraici.

Opere d'arte trafugate dai nazisti, non si smette mai di fare luce.

Il portavoce della delegazione svizzera, Benno Widmer, ha detto a swissinfo che il nostro Paese attribuisce una grande importanza a tutte le questioni legate alla Shoah. La Svizzera, del resto, ha dapprima partecipato a Oslo a una riunione plenaria della Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research (ITF), gruppo operativo di cui la Confederazione è membro dal 2004.
Uno degli obiettivi dell'appuntamento di Praga è verificare i progressi registrati in dieci anni, ossia dall'enunciazione dei Principi di Washington sanciti nel 1998. Questa convenzione, cui ha aderito anche la Svizzera, prevede che i paesi firmatari collaborino al ritrovo dei beni rubati, aprendo i rispettivi archivi e formulando soluzioni eque nel processo di restituzione ai legittimi proprietari o ai discendenti.
"L'impegno della Svizzera nel sostenere questi principi – dichiara Widmer - mostra che il nostro Paese prende molto sul serio la questione dei beni trafugati dai nazisti. La conferenza di Praga rappresenta un'opportunità per ribadire la collaborazione della Svizzera, sempre pronta a giocare un ruolo attivo nel risolvere problemi ancora in sospeso".

Un lauto bottino di beni rubati.
In base alle stime di diverse organizzazioni ebraiche, sarebbero circa 650 mila gli oggetti sacri e le opere d'arte sottratti agli ebrei e alle vittime dell'Olocausto. Un furto di dimensioni impressionanti, tanto da essere ritenuto il più grande furto di massa di tutti i tempi. Su molti di questi beni misero le mani numerosi gerarchi nazisti.
Parte delle opere d'arte trafugate dai nazisti, finirono in Svizzera; nel 1946 fu comunque varata una legge che ne prevedeva la restituzione ai legittimi proprietari. "Nel 1950 - sostiene l'esperto tedesco Andrea Raschèr - settantasette dipinti rubati furono restituiti a collezionisti francesi o a ricettatori di opere d'arte".
La questione fu messa in fondo ad un cassetto durante la Guerra fredda, ma negli anni Novanta tornò in superficie, grazie ad un articolo dello storico Thomas Buomberger, secondo cui alcuni ricettatori svizzeri di opere d'arte non furono altro che lo strumento dei nazisti nel traffico dei beni trafugati.
Le rivelezioni dello storico coincisero, come noto, con l'esplosione dello scandalo degli averi ebraici in Svizzera, che mise sotto pressione le banche elvetiche.

La situazione in Svizzera.
Andrea Raschèr - quando era supplente del capo del servizio giuridico beni culturali dell'Ufficio federale della cultura – elaborò un progetto per monitorare i beni giunti in Svizzera dopo la presa del potere da parte dei nazisti, oppure trafugati durante il conflitto e smerciati o transitati nel nostro paese. Progetto completato dalla pubblicazione, di una quarantina di pagine, "Beni cultuali di proprietà della Confederazione – Indagine sul periodo tra il 1933 e il 1945".
L'anno dopo la pubblicazione del rapporto, nel 1999, Raschèr creò un ufficio specializzato nel reperimento di beni rubati e nel fornire la consulenza necessaria a musei, fondazioni, cantoni e altre istituzioni. Grazie al suo intervento, molti casi si risolsero molto presto come, per esempio, la restituzione di un dipinto alla famiglia Silberberg da parte del Museo d'arte dei Grigioni.
Raschèr ritiene che la Commissione Bergier, istituita dal Consiglio federale per fare luce sul ruolo della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale, non abbia fatto pienamente uso della possibilità di accedere agli archivi pubblici e privati per approfondire le proprie ricerche.
Un'occasione persa, dunque, per quando riguarda il patrimonio artistico trafugato dai nazisti. Il consulente ha tuttavia aggiunto che non è possibile sapere esattamente quante opere rubate siano ancora custodite in Svizzera; molte di essere fanno infatti parte di collezioni private.

La punta dell'iceberg.
L'esperto è convinto di una cosa: "Siamo di fronte alla classica punta dell'iceberg. Sono sicuro che nei prossimi dieci anni altre opere rubate torneranno a galla. Il rapporto con l'arte e con il mercato dell'arte, è spesso una questione di generazioni".
Secondo Raschèr, quando si ha a che fare con opere rubate, quel che conta è trovare soluzioni giuste ed eque, poiché non tutti gli attuali proprietari conoscono la provenienza delle opere possedute. A suo parere, sarebbe tuttavia importante che la Svizzera si dotasse di una legge specifica, come la Germania e l'Austria, sulle opere d'arte trafugate.
Da questo punto di vista, la conferenza di Praga costituisce un'occasione per sensibilizzare maggiormente gli esperti e per condividere esperienze nella soluzione dei casi; l'apertura degli archivi rappresenta, per esempio, una misura molto importante per la rintracciabilità dei beni sottratti illecitamente.
"Sono passati settant'anni. Non possiamo cancellare quanto è successo, ma in tutto questo tempo – conclude Raschèr – possiamo aver imparato molte cose. Come essere consapevoli di non volere più perpetuare un'ingiustizia iniziata 70 anni fa".

LETTERATURA

Per la Giornata della Memoria: il "Coro dei superstiti" di Nelly Sachs.

La Giornata della Memoria è caduta, come sempre, il 27 gennaio scorso. Una data stabilita per legge. Ma la memoria non può essere identificata con una sola data (anche se il 27 gennaio è la data in cui gli alleati liberarono e aprirono agli occhi del mondo il campo di concentramento di Auschwitz). Perciò pubblico oggi una poesia di Nelly Sachs, forse la poetessa che più di altri ha saputo parlare dello sterminio degli ebrei, dei campi di concentramento, dei forni crematori, anche se non è stata ospite in nessuno dei campi allestiti dai nazisti. Lei è riuscita a riparare in Svezia (nel 1940), dove poi è sempre vissuta, facendo la traduttrice.








 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Nata  a Berlino nel 1891, è morta a Stoccolma nel 1970. Ha scritto alcuni libri di poesie che sono tra le più drammatiche testimonianze dell'Olocausto. Ma anche dell'esilio, della condizione dell'ebreo errante. Ho scelto questa poesia di Nelly Sachs, Coro dei superstiti, perché è bella e famosa, ed è sul piano testimoniale molto intensa. Lei è stata insignita del Premio Nobel nel 1966. Quindi la lettura di questo testo - a mio parere - porta con sé un'amplificazione del suo significato che per un evento come il Giorno della Memoria è molto importante. La motivazione del Nobel diceva: "Per la sua lirica lirica notevole e la scrittura drammatica, che interpreta il destino di Israele con forza toccante". Quello che è singolare nella sua vita è che tutto ciò che aveva scritto prima dell'espatrio, abitando in Germania, lei lo ha rifiutato, disconosciuto. Come se fosse nata alla scrittura soltanto quando la realtà irreparabile del genocidio l'ha fatta diventare "vedente". E pur non avendo visto i lager nazisti (se non dopo), ha interpretato la grande disperazione, la grande tragedia, come forse nessun altro. Tra le altre cose ha scritto i poemi drammatici Segni sulla sabbia (Zeichen im Sand, 1962), Incantesimo (Verzauberung, 1970). inoltre, le seguenti raccolte di liriche: Nelle dimore della morte (In den Wohnungen des Todes, 1947), Fuga e trasformazione (Flucht und Verwandlung, 1959), Al di là della polvere (Fahrt ins Staublose, 1961), Alla ricerca dei viventi (Suche nach Lebenden, 1971). Gli uni e le altre vivono una lingua di grande intensità metaforica, che parlano della storia e delle vicissitudini del popolo ebraico nel passato e nel presente.


Coro dei superstiti

Noi superstiti
dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui nostri tendini ha già passato il suo archetto.

I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.

Noi superstiti
davanti a noi, nell'aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli -
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.

Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell'angoscia -
la nostra stella è sepolta nella polvere.

Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.

Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.

Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
- farci schiumare via -

Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.

Ma cosa tiene unita la nostra trama?

Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a lui dalla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell'arca dell'istante -

Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi -
ma solo l'addio ci tiene ancora uniti,
l'addio nella polvere
ci tiene uniti a voi -

Nelly Sachs

Non siamo gli ultimi

L'atrocità e la bellezza dei campi di concentramento


Le opere dell'artista goriziano Zoran Music (1909-2005) ci parlano in modo drammatico delle atrocità di Dachau ma anche dell'obbligo della memoria. Che deve essere anche ricordo della bellezza di cui parla Music nella sue memorie, della felicità di cui parla Kertesz in "Essere senza destino".

“Non siamo gli ultimi” si intitola la sconcertante serie di dipinti dell’artista goriziano Anton Zoran Music. Un titolo che esprime la tensione morale di un artista che visse l’orrore e la tragedia dell’Olocausto in quindici mesi di internamento a Dachau. E che, parecchi anni dopo essere tornato in Italia, sentì il bisogno e il dovere della memoria. Dopo vent’anni di silenzio, durante i quali si è dedicato principalmente al paesaggio dalmata, Music torna agli occhi moribondi come centinaia di scintille pungenti. Un paesaggio di morti, di moribondi in un’apatica attesa che ha sempre occupato la sua memoria si sostituisce alle valli della terra natale. Ma anche in queste immagini si nasconde il germe di Dachau. L’esperienza del campo di concentramento ha rivelato a Music la verità dietro ogni elemento superfluo, e dai suoi paesaggi trasuda quella “verità che si cela dietro l’apparente stasi delle cose”(Jean Clair). Secondo il critico francese Jean Clair la vera scuola di Music non fu l’Accademia di Belle Ati di Zagabria, che egli frequentò tra il 1930 e il 1935. Ma fu la “scuola di Dachau” ad insegnarli a dipingere. Ulteriore prova ne è la serie “Motivi floreali” in cui ancora i rami, le piante si intrecciano come mucchi di cadaveri abbandonati che durante l’inverno stecchiti e come congelati ti fanno compagnia. A strati un fila di teste in avanti e, sopra, una fila con le gambe sporgenti.
I cadaveri di Music sono forme senza più anima, fantasmagoriche urla di dolore. Colore del fango, colore della terra, ormai entrati in un mondo panico fuori di tutto quello che si poteva immaginare. In un mondo assurdo, allucinante, irreale. Forse un altro pianeta. Music racconta che vivere a costante contatto con i cadaveri, nella perenne paura di poter a sua volta morire in ogni momento, ha sdrammatizzato nei mesi di prigionia la presenza dei morti. Mesi durante i quali realizzò degli schizzi e dei disegni. Sembra che la drammaticità di Dachau esploda nelle suo opere degli anni Settanta, che emettono l’odore di decomposizione e di sporcizia del campo. Questi fantasmi a lungo sopiti nella mente di Music mostrano tutta la loro invadenza nella memoria e nell’arte di Music. Tanto che l’ultima serie di autoritratti realizzati da Music nel 2001 esprime la stessa violenza, la stessa opacità. Music sembra portare su di sé le ombre di quei cadaveri, il peso della memoria.

Zoran Music è morto nel maggio 2005 a Venezia, città dove si era stabilito dopo la fine della Guerra. Era nato a Gorizia e aveva studiato nelle scuole dell’impero Austro-Ungarico. Fu arrestato della Gestapo nel 1944, accusato di nascondere un capo della Resistenza. Il suo ingresso a Dachau avviene il 18 novembre 1944. Qui disegna di nascosto, riuscendo a procurarsi il materiale nella fabbrica in cui svolgeva i lavori forzati. E il disegno diventa subito una via di salvezza. Forse così mi salvo. Nel pericolo avrò una ragione di salvezza. Allo stesso modo oggi le sue opere possono salvarci, mostrandoci l’imperativo della memoria, avvertendoci che non siamo gli ultimi. Molti sopravvissuti ai campi di concentramento sentirono quella che Elie Wiesel definisce una missione impossibile, vocazione, responsabilità, obbligo di raccontare le proprie esperienze. Sembra che i quadri di Music lo facciano in una maniera più personale, meno esplicitamente rivolta a chi non ha vissuto le atrocità. Ma ciò non diminuisce la loro forza. Ci dicono con Primo Levi “E’ avvenuto e quindi può accadere di nuovo”. Si affiancano alla voce della madre di Elie Wiesel in “Credere o non credere”: si tratta ora di non dimenticare.

Le pagine scritte da Zoran Music sulla sua esperienza a Dachau hanno la stessa durezza dei suoi dipinti. Egli descrive la sua urgenza di disegnare come necessità di disegnare per non far sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza. Un concetto complesso e apparentemente sconvolgente. Secondo Pietro Citati Music era attratto dalla bellezza dell’orrido: quanta tragica eleganza in questi fragili corpi. I dettagli così precisi … è quanto di più lontano si possa pensare dal sadismo. Anzi mi pare un umanesimo e un amore per l’uomo così grande, da coglierne la straordinarietà anche fatto cadavere, anche ridotto a mucchio di ossa. Molto spesso ritorna nei sopravvissuti ai Lager questo concetto della bellezza. Anche il premio Nobel Imre Kertesz descrive un sentimento simile nel suo famoso romanzo “Essere senza destino”: “Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno” (nel video, la sequenza finale del film "Essere senza destino" (2005) del regista ugherese Koltai: sono le parole di Kertesz, protagonista della storia). Quell’amore che Salvatore Quasimodo ha paradossalmente il coraggio di inserire tra due versi in cui compaiono le parole Auschwitz e campo di morte. Bellezza, felicità, amore. Parole che stridono, che non si possono pronunciare se si parla di Olocausto. Ma forse la memoria ha bisogno anche di queste parole. Di non dimenticare che sarà solo se l’uomo potrà sempre e comunque conservare bellezza, felicità e amore, che potrà salvarsi, potrà non essere il prossimo.

La memoria senza memoria


"Gassazione all'interno della camera a gas" di David Olere, che fu internato ad Auschwitz, dove divenne membro dei Sonderkommando, sopravvisse e dipinse ciò che aveva subito come avrebbe potuto fare se avesse avuto a disposizione una macchina fotografica.

Due giovani donne coraggiose: Iris ed Elisa

Resistere è donna. Dopo l’8 settembre del 1943, la donna s’inserisce nel movimento clandestino e la sua partecipazione attiva è, in molti casi, determinante. Lotta nelle città, nei paesi e nelle campagne come nei monasteri e nelle carceri dove aiuta, rifocilla, trasporta, consola; procura e distribuisce armi, vestiti, cibo, medicinali e munizioni. Combatte anche con le armi con cui ferisce ed uccide. E’ ferita, torturata, uccisa, fucilata, impiccata oppure, per non essere d’ostacolo ai compagni di lotta, si uccide per non cadere viva in mano al nemico.Tutto questo e altro ancora fu la Resistenza delle donne…

Carla Grementieri ad Iris Versari, partigiana, medaglia d’oro al Valor Militare.


Vorrei che l’alba illuminasse
i tuoi occhi di smeraldo

Tra il sonno e la veglia
di un dolce sorriso

Si possono dimenticare
i tratti del tuo volto
Non il profumo intenso
del tuo eroismo…








Iris Versari
Nata a Portico San Benedetto (Forlì) il 12 ottobre 1922, morta il 18 agosto 1944 a Cornia di San Valentino (Forlì), contadina, Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria.
La sua famiglia di contadini si era trasferita a Tredozio, nel podere Tramonto (dove, dopo l’armistizio, si sarebbe costituita una delle prime bande partigiane del Forlivese), ed Iris ad un certo punto, come usava allora, era stata "mandata a servizio" presso una famiglia benestante di Forlì. La ragazzina, ricordata come molto carina, aveva dovuto difendersi dalle "insidie" dei "padroni" e anche quest’umiliazione contribuì a formarne il carattere. Tornata dai suoi, li aiutava nei lavori dei campi. Nel settembre del 1943, la ragazza diventa staffetta della banda di “Silvio" Corbari, col quale ha una relazione sentimentale, e nel gennaio del 1944 entra come combattente nella formazione. Iris prende parte a numerose azioni di guerriglia e si distingue per il suo coraggio. Nell’agosto del 1944 la giovane partigiana, che, ferita ad una gamba, si era rifugiata con Corbari e altri compagni in una casa colonica, viene sorpresa da tedeschi e fascisti, accompagnati sul luogo da un delatore. I partigiani oppongono resistenza, la ragazza capisce che, non potendo muoversi, non può tentare la fuga ed è d’impedimento alla salvezza degli altri e si uccide. Dice la motivazione della Medaglia d’oro, concessa nel 1976, sotto la Presidenza di Giovanni Leone: "Giovane di modeste origini, poco più che ventenne, fedele alle tradizioni delle coraggiose genti di Romagna, non esitò a scegliere il suo posto di rischio e di sacrificio per opporsi alla tracotante oppressione dell'invasore, unendosi ad una combattiva formazione autonoma partigiana locale. Ardimentosa ed intrepida, prese parte attiva a numerose azioni di guerriglia distinguendosi come trascinatrice e valida combattente. Durante l'ultimo combattimento, circondata con altri partigiani in una casa colonica isolata, ferita ed impossibilitata a muoversi, esortò ed indusse i compagni a rompere l'accerchiamento e, impegnando gli avversari con intenso e nutrito fuoco, agevolò la loro sortita. Dopo aver abbattuto l'ufficiale nemico che per primo entrò nella casa colonica, consapevole della sorte che l'attendeva cadendo viva nelle mani del crudele nemico, si diede la morte. Immolava così la sua giovane vita a quegli ideali che aveva nutrito nella sua breve ma gloriosa esistenza.". I fascisti, per spregio, trasportarono il cadavere di Iris da Cornia a Forlì e, in Piazza Saffi, lo appesero, per spregio, accanto a quelli dei suoi compagni di lotta (Sirio Corbari, Adriano Casadei e Arturo Spazzoli), catturati dopo lo scontro a fuoco di Cornia San Valentino.
Al nome di Iris Versari, nel 1978 fu intitolato, con decreto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, l’istituto tecnico commerciale, ora anche liceo scientifico, di Cesano Maderno.


Poesia dedicata da Riccardo Vinciguerra ad «Elisa Sala» ('nome di battaglia' Anna)


Da borghi scuri a valli, collina e montagna, giovane Monzese coraggiosa 'Anna',
portasti il soffio, di quella primavera,
vita, per quella libertà vera.

Tristi i tuoi giorni ti parean tanti,
ombra della notte d'agguati,
tempo di guerra, morte e distruzione,
attiva, compagna in missione.

Fratelli in nero e grigioverde,
la luce spenger dei compagni in macchia,
colpir, la stella che nella notte splende,
la forza di un sogno, di libertà e di gioia.

Destino ti fù, a breve vita,
vent'anni morir,
abbandono, nefasti in tortura,
l'ombra nera il fratel, la tua gioventù finir.
Ancor le tue carni non sciolte al martirio,
sulle tue strade tracciate dal tuo sudor,
irrompean, i tuoi compagni contro il nemico in delirio,
da contrade, colline e montagne, alla riscossa del tuo dolor;

Anna, oh! dolce Anna,
ricordo di grande fratellanza,
di sacrificio, di tanta sofferenza,
di una battaglia e di tanta speranza.


Elisa Sala: una vita per la libertà.
Elisa è l’unica donna monzese compresa nell'elenco dei partigiani caduti. Elisa Sala era stata arrestata una prima volta il 13 ottobre 1944, ma riuscì a salvarsi dalla condanna a morte riparando nelle montagne del Bergamasco. Il 13 febbraio 1945 volle fare una scappata a casa per salutare i genitori: purtroppo il 16 fu arrestata e, dopo essere stata seviziata alla Villa Reale di Monza, il giorno dopo fu uccisa, poco più che diciannovenne, a Sovico con quattro colpi di rivoltella alla testa.
Raccontava la madre Norma: «In una delle rare lettere pervenutemi clandestinamente da mia figlia, Elisa esprimeva l’ardente desiderio di amor patrio e di libertà dall’oppressore, libertà per cui ha dato la vita.
Purtroppo il giorno in cui cadde torturata ed uccisa in quel di Sovìco la Guardia Repubblicana perquisiva la mia casa e requisiva un album di famiglia in cui custodivo religiosamente queste missive, che erano l’unico e l'ultimo ricordo della mia sventurata figliola».
Ad Elisa Sala è dedicata la Sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Macherio-Sovico.

Francia, le urla silenziose di fantasmi ebrei

       Il campo di concentramento alsaziano di Natzweiler-Struthof.


 
“Io so cosa vuol dire non tornare, e attraverso il filo spinato, ho visto il sole scendere e morire, ho sentito lacerarmi la carne, le parole del vecchio profeta…”. Brano del 1946, tratto da “Il Tramonto di Fossoli” di Primo Levi, scrittore e chimico torinese ebreo imprigionato ad Auschwitz.

Gli anni bui, atroci e devastanti di una guerra dell’umanità contro l’umanità. Sei milioni di vittime. Uomini, donne, bambini. Sei milioni di morti che, ancora oggi, pesano sulle coscienze di tutti e, in molti casi, non hanno un nome.

Alsazia, rigogliosa regione francese al confine con la Germania. Teatro di battaglie, terra contesa dal Reich di Hitler e ospite dell’unico campo di concentramento nazista in Francia, se si escludono alcune strutture di transizione.

Nel piccolo e quieto villaggio di Natzweiler, nel Basso Reno, lungo una strada di montagna circondata da alberi secolari e innevati nella stagione invernale, lontano dal centro, lontano dal mondo, si presenta il campo di sterminio nazista Natzweiler-Struthof.

Qui, a 50 chilometri a sud ovest di Strasburgo, hanno perso la vita almeno dieci-dodicimila persone (secondo alcuni la cifra è più elevata). Molti sono stati impiccati, fucilati, ma la maggior parte ha accolto la morte come una liberazione dallo stato in cui erano costretti a sopravvivere.

Schiavi dei tedeschi, lavoravano senza sosta nella cava di prezioso granito rosa, poco distante dal campo, da estrarre per il trasporto in Germania.

Sempre qui, nella primavera del 1943, 86 ebrei, 56 uomini e 30 donne, sono arrivati dal tristemente noto campo di Auschwitz per essere assassinati nelle camere a gas di Natzweiler-Struthof, dove era in uso anche il forno crematorio.

Ottantasei ebrei sono finiti in queste camere affinché le loro ossa, i loro corpi, potessero garantire all’istituto anatomico universitario tedesco sufficienti teschi per la collezione antropologica delle diverse razze umane.

Oggi, questi 86 morti sono commemorati nelle menti di chi resta e in una targa posta nel cimitero ebraico di Cronenburg, un quartiere di Strasburgo.

La strada per raggiungere Natzweiler-Struthof è un susseguirsi di curve che, all’improvviso si arrestano dinanzi all’ingresso al campo. In questo luogo di morte, in questa necropoli moderna, tutto appare immobile. Ogni cosa è ferma. Talmente ferma che anche il vento si placa e la bandiera francese, innalzata nel campo, non sventola affatto. Resta chiusa, quasi invisibile.

L’accesso è semplice, solo un cartello di invito al silenzio perché questo luogo non vuole scalpore, non richiama clamore.

La nebbia sottile si eleva fino a celare le immagini del campo, le croci sotto le quali non c’è alcun corpo. Ordinate, in fila, le une accanto alle altre parlano senza voce. Urlano senza fiato. Tutto racconta, ma è un racconto taciturno. Si sente dentro, sulla pelle, nel cuore, negli occhi.

Il filo spinato circonda le baracche, la neve ricopre i viali e una eco di soffocate grida di dolore si avverte da tutte le direzioni, senza però provenire da alcun luogo. Tetro spettacolo che non è solo storia e mai lo sarà. Fantasmi si aggirano per il campo, accanto alle croci, al forno crematorio, alle postazioni di vedetta.

Solo pochi – ancora e sempre troppo pochi – anni fa si aggiravano a Natzweiler-Struthof ufficiali delle SS e prigionieri, soprattutto uomini, come in un girone dell’Inferno dantesco. Ai visitatori è offerta la possibilità di recarsi anche al recente museo del campo, dove apprendere, studiare, osservare, ma non capire. Capire lo sterminio non è cosa da uomini.

“Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia , tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro”. Da “Se questo è un uomo” di Primo Levi.