domenica 31 luglio 2011

Testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi

Annamarcella Falco Tedeschi con i suoi compagni del Liceo Manzoni di Milano (anno scolastico 1937/1938). Aveva 15 anni e frequentava la V ginnasio

In seguito alle Leggi antiebraiche gli ebrei dovettero lasciare le scuole pubbliche. Alcune Comunità ebraiche, come quella di Milano, organizzarono scuole per far studiare i propri ragazzi.

Ecco la testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi, studentessa in quegli anni a Milano, nella scuola ebraica di via Eupili.

Posso dire di essere milanese, benché non sia nata a Milano, ma vi sia arrivata piccolissima da Parma, dove mio padre insegnava diritto ecclesiastico in quell’Università. Ma anche Parma costituiva solo una tappa nella mia famiglia; le mie radici sono frastagliate: mia madre proveniva da un’antica famiglia ebraica ferrarese, i Ravenna, mentre quella di mio padre, Mario Falco, era torinese da molte generazioni, probabilmente proveniente da Gerona in Spagna.

Mio padre iniziò a insegnare all’Università di Milano dalla sua fondazione nel 1924 e da allora la nostra famiglia divenne milanese a tutti gli effetti, mentre i miei ricordi delle prime classi elementari non sono dei più brillanti. Sia io che mia sorella, di cinque anni minore di me, passammo gli anni delle elementari studiando privatamente. In prima media (allora si diceva prima ginnasio) entrai al Ginnasio Manzoni e lì trascorsi cinque ottimi anni. Forse la scuola mi sembrava così bella perché finalmente me l’ero conquistata. Il fatto di essere ebrea non creava la minima discriminazione; c’erano altre bambine ebree in classe: “uscivamo” all’ora di religione e ben presto fu organizzata un’ora sostitutiva di ebraismo a cui partecipavamo noi ragazzini ebrei, magari riunendo varie classi insieme.

La nostra famiglia viveva in quello che sembrava un perfetto equilibrio: mio padre insegnava diritto ecclesiastico, ma era anche consigliere della Comunità Ebraica di Milano; mia madre era vice-presidente dell’Associazione Donne Ebree d’Italia (l’attuale Adei Wizo) e dirigeva un giornaletto per ragazzi “L’Israel dei Ragazzi”, già esistente da molti anni; quanto a me ero molto legata con alcune compagne di classe, naturalmente cattoliche… Tutto proseguì serenamente fino al 1938 quando, quasi di soppiatto, sui giornali cominciarono a fare capolino frecciate antiebraiche e la parola “razza” (uscì una rivista intitolata appunto La difesa della razza) a imitazione di quanto ormai da tempo accadeva nell’alleata Germania. La prima mossa ufficiale si ebbe il 14 luglio con la pubblicazione del “Manifesto della Razza”, opera tra l’altro del professor Nicola Pende che comunicava appunto nella rivista che “gli ebrei non appartenevano alla razza italiana”.

Per noi fu un’estate pesantissima: eravamo in vacanza a San Vito di Cadore e ogni mattina si apriva il giornale con il batticuore. E ogni volta c’era qualche amarezza; va ricordato che cos’erano i giornali a quell’epoca: sotto il fascismo non esisteva la possibilità di opposizione o di critica e il tono di tutta la stampa era identico. Mio padre riceveva lettere e visite incoraggianti da colleghi cattolici: erano i suoi amici antifascisti come lui, (primi tra tutti il professor Piero Calamandrei e il professor Carlo Arturo Jemolo) che gli esprimevano solidarietà. Ma questo non bastava a rasserenarci né a rassicurarci.

Il 5 settembre (eravamo appena rientrati a Milano) la situazione si fece drammatica; il Regio decreto legge n. 1390, pubblicato in quel giorno, era esplicito: da quel momento ai docenti e agli studenti di origine ebraica era vietato accedere alle scuole di ogni ordine e grado. Per la nostra famiglia fu una mazzata tremenda. Mio padre veniva “messo in pensione” e a me veniva precluso l’ingresso a scuola. Ho passato prove durissime nella mia vita, in seguito, ma quella volta mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Le mie compagne di scuola (la mamma mi aveva detto “aspetta che ti chiamino loro”) non si facevano vive; e – cosa veramente incredibile – anche le più intime sembravano dissolte nel nulla. Quello che è diventato mio marito, Enrico Tedeschi, invece, che frequentava il Ginnasio Parini, ebbe eccezionali manifestazioni di solidarietà in particolare da parte del suo compagno Marco Vercesi, figlio dell’avvocato Galileo Vercesi, uno dei “martiri di Fossoli”.

Nella Comunità ebraica, dopo i primi momenti di sbandamento, si cominciò ad agire: con la collaborazione di numerosi volenterosi “padri di famiglia” iniziò una frenetica corsa con il tempo e con gli spazi per creare le scuole superiori per i ragazzi ebrei; già da alcuni anni funzionavano nelle due villette di via Eupili 6/8, al Sempione, gli asili e le scuole elementari. Il presidente della Comunità, Comandante Federico Jarach, con la stretta collaborazione di mio padre (assessore della stessa), invitò il professor Yoseph Colombo, ex-preside del Liceo Scientifico di Ferrara, e rimasto perciò “disoccupato”, a prendere le redini dell’iniziativa. Nella scuola, oltre che gli spazi, mancava tutto, ma vi erano tanti professori rimasti anch’essi senza lavoro e il miracolo si verificò: il 7 novembre, a due mesi dalla promulgazione delle Leggi Razziali, le scuole medie e superiori iniziarono l’attività.

Ricordo quei primi giorni come giorni di felicità: nonostante tutto ci eravamo riusciti e credo che nessun ragazzo sia mai andato a scuola con la gioia con cui ci andavamo noi; non andavamo a scuola obbligati dai genitori come tutti i ragazzini del mondo, la scuola ce l’eravamo conquistata.

Scoprimmo nuovi orizzonti, stringemmo nuove amicizie: la situazione comune le rendeva più facili. Più tardi vennero organizzati (nelle inesauribili cantine di via Eupili) anche due corsi universitari, uno di chimica ed uno di diritto ed economia, per i quali furono coinvolti docenti universitari di alto livello, e che a guerra finita furono riconosciuti dalle autorità accademiche.

Quanto a me, partecipai brevemente al corso di chimica, poi le vicende tragiche ebbero il sopravvento. Nell’autunno del 1942 fui per alcuni mesi precettata (come molti ragazzi ebrei) come operaia allo “Scatolificio Ambrosiano”, mentre altre ragazze lavorarono in una fabbrica di borracce e i ragazzi furono adibiti alla sezione “orti e giardini” del Comune di Milano. Ma si trattò di episodi di breve durata, travolti prima dai bombardamenti e poi dalle tragiche vicende dell’autunno del 1943.

Personalmente, con la mia famiglia “sfollai” (si diceva così!) a Ferrara nella casa dei nonni. Dopo l’8 settembre (armistizio) la situazione andò precipitando. Mio padre, minato dalle ansie, morì di infarto e al suo funerale, al Cimitero ebraico di Ferrara, il 7 ottobre 1943, erano presenti poco più di una decina di eroiche persone: proprio il giorno precedente era stata fatta una prima retata di ebrei ferraresi tra i quali il rabbino stesso Leone Leoni.

Il seguito della storia mia, di mia madre e mia sorella ha aspetti miracolosi: il professor Jemolo (il grande amico di mio padre), ignaro della sua morte scriveva cartoline che incredibilmente conservo in cui invitava ad andare a Roma dove si sperava che la “liberazione” sarebbe arrivata prima che al nord. Dopo molte esitazioni, partimmo ignare di quanto nel frattempo era avvenuto proprio a Roma e cioè della terribile retata del 16 ottobre.

Nonostante ciò l’accoglienza della famiglia Jemolo (il professore, la moglie e i tre figli) fu stupenda: non ebbero un attimo di esitazione e ci accolsero in casa dichiarando alla portinaia e a chi ci stava intorno che eravamo parenti provenienti da Napoli. Ci fornirono documenti di identità falsi e grazie al loro eroico comportamento, alla loro straordinaria ospitalità e disponibilità vivemmo presso di loro fino al giorno della Liberazione di Roma, avvenuto il 4 giugno 1944.

Settimia Spizzichino

Settimia Spizzichino e il Rione Filangieri
Tra le persone che hanno vissuto o soggiornato nel Rione Filangieri


Un posto d’onore spetta a Settimia Spizzichino, ebrea romana, reduce dal campo di concentramento di Auschwitz, unica donna sopravvissuta tra i 1022 ebrei che nel 1943 furono deportati nel lager.
È stata ospitata a lungo nella casa di Giovanni Benincasa e Angela De Vivo, che sono stati il gancio del suo straordinario rapporto con la nostra città.

Settimia, ebrea romana
Settimia Spizzichino nacque a Roma il 15 aprile del 1922. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere ebraico, sentendosi soprattutto romana. Lo scossone che le fece sentire tutto il peso dell’essere ebrea furono le leggi razziali del 1939. Da allora, anche per lo scoppio della guerra, la qualità della vita peggiorò progressivamente progressivamente, fino al dramma del 16 ottobre del 1943, quando i tedeschi occupanti prelevarono dal ghetto 1022 ebrei e li deportarono ad Auschwitz. Tra loro, anche Settimia, insieme con la madre, la sorella e la nipotina.



L’odissea della deportazione


Da questo momento cominciò l’odissea della deportazione. Le sue familiari finirono subito nella camera a gas, mentre Settimia rimase nel campo, subendo tra l’altro anche la terribile esperienza del Blocco 10: cavia umana per gli esperimenti del Dottor Mengele. Tremende furono le sofferenze, ma paradossalmente questo fatto contribuì a staccarla dal mucchio ed a salvarle provvisoriamente la vita. E gli orrori non erano finiti. Dopo poco più di un anno, la deportazione al campo di Bergen Belsen, lo stesso dove trovò la morte Anna Frank. Il trasferimento fu un incubo: la cosiddetta marcia della morte, con migliaia di deportati che in pieno inverno si dovettero spostare a piedi per centinaia di chilometri, vestiti di niente ed in mezzo alla neve. Ma Settimia sopravvisse anche a questa prova. Era troppa la sua “rabbia”, per non resistere fino all’estremo.


La rinascita, sotto un mucchio di cadaveri


A Bergen Belsen fu durissima, ma per fortuna si avvicinavano la fine della guerra e la liberazione. Rimaneva da superare l’ultimo incubo. Quando i Tedeschi si accorsero che per loro era finita decisero di sgombrare il campo, ma prima fecero un’ultima strage. La mitragliatrice cominciò a falciare il gruppo della camerata di Settimia. Durante i convulsi e disperati tentativi di sottrarsi ai colpi, fu inondata dagli schizzi del cervello di una compagna in fuga con lei. Presa dal terrore, istintivamente pensò che i tedeschi sparavano sui vivi, non sui morti. E si buttò sotto un mucchio di cadaveri, da dove fu recuperata, dopo due giorni di spaventoso “seppellimento”, un paio di giorni dopo, all’arrivo dei Russi. Era il 15 aprile, il giorno del suo compleanno, e Settimia poteva rinascere per la seconda volta.


Il ritorno e il grido della memoria


Fin dall’immediato dopoguerra, Settimia decise che non avrebbe taciuto né sarebbe fuggita di fronte alla memoria. Aveva troppa voglia di far conoscere al mondo gli orrori subiti. Diversamente da altri che si rintanarono in se stessi come sacchi svuotati, conservò la sua grinta, la sua energia, ebbe subito il coraggio di tornare a rivedere il campo della prigionia. Da allora, ci tornò qualche decina di volte, ma dovette attendere una quarantina d’anni, , perché le testimonianze dei deportati potessero espandersi in Italia e nel mondo grazie anche all’impulso dato da Steven Spieberg, dal suo film “Schindler’s list” e dalla sua Fondazione per la memoria della Shoah. Prima, era ancorano troppo viva l’eco e la voglia di costruire il futuro più che guardare al passato. Alla fine, è prevalso il grido del “Ricordare per non dimenticare”, perché non potesse succedere mai più.


Settimia, Cava e “Gli anni rubati”


E così fu istituita la Giornata della memoria, il 27 gennaio…

E così Settimia, dopo qualche sporadico incontro con alcune scolaresche e le prime interviste televisive, ebbe finalmente l’opportunità di pubblicare le sue memorie, grazie al suo primo, intensissimo incontro con gli studenti cavesi. Prodotto dal Comune di Cava (Sindaco Raffaele Fiorillo) e curato da Federica Clarizia, Teresa Avallone e Franco Bruno Vitolo, con una stesura di Ida Di Nepi, nel 1996 uscì in stampa “Gli anni rubati”, seguito poi da altre due edizioni rinnovate ed integrate. L’ultima, nel 2000, è uscita postuma, pochi mesi dopo la morte di Settimia, con le immagini di due momenti cruciali del suo rapporto con Cava: la proclamazione a cittadina onoraria e le foto del viaggio ad Auschwitz fatto con un gruppo di studenti (oltre che di ebrei romani) e finanziato in parte con le offerte devolute al suo libro in occasione delle peregrinazioni in tante città d’Italia, che proprio dalla pubblicazione hanno ricevuto un ulteriore incremento.


La voce di Settimia


Settimia è morta, nella “sua” Roma, il 3 luglio del 2000, ma la sua voce e quella dei suoi “anni rubati” è ancora viva: un grido di dolore ed un faro di pace in un mondo ancora schiacciato da troppe tensioni e, purtroppo, da mai seppelliti razzismi di tutti i tipi.

Settimia e gli “angeli” del Rione Filangieri.

Come già accennato, il gancio di Settimia con Cava de’ Tirreni è stata la famiglia di Angela De Vivo e Giovanni Benincasa, che nel Rione Filangieri abitano da oltre quarant’anni. Angela conobbe Settimia a Cetara nel 1994, attraverso una comune amica, e da allora è stata un’amicizia sempre più forte, di natura quasi familiare. La casa di Angela e Giovanni è stata per Settimia una seconda casa, dove ha trascorso tante volte le sue vacanze, o anche delle semplici permanenze: era il suo “rifugio”, uno dei suoi “gusci d’amore”.


Il ricordo di Angela e Giovanni


Così la ricorda Angela: “Settimia è stata per me una madre, una sorella, un’amica. Le tante volte che è venuta a casa nostra è stata trattata come la persona di famiglia che oramai era diventata. Mio marito Giovanni negli ultimi tempi le cedeva addirittura il suo posto nel letto matrimoniale. E così ho avuto modo di conoscere anche le sue notti “terribili”. Mentre di giorno era decisa, forte, aggressiva, allegra, di notte, prima di cercare di addormentarsi (spesso invano), sussurrava: “Adesso io torno nel lager”. Era il momento in cui i ricordi dei suoi anni rubati le mordevano l’anima e il cuore. Ma poi, al mattino, tornava la leonessa di sempre. Le ho voluto un gran bene. Ancora oggi mi manca, tanto, tantissimo. Giovanni conferma e aggiunge: “Con Settimia sono stato ad Auschwitz, ho visto con lei la sua baracca, il suo “letto”, quasi un loculo di cimitero, che doveva dividere con altre sei o sette persone. Non dimenticherò mai la stretta al cuore, l’impressione violenta che ho subito, non dimenticherò mai lo sguardo e la voce di Settimia mentre ci mostrava la “casa del suo dolore”, non dimenticherò mai la sua amicizia.

Yves Oppert

La madre di Yves era morta quando lui aveva solo 7 anni e così il ragazzo era cresciuto con il nonno, che era il capo rabbino Ashkenazi di Parigi. Yves divenne un uomo d'affari di successo e proprietario di una catena di grandi magazzini. Grande appassionato di arrampicate in montagna, gli piaceva anche giocare a tennis, così come correre in macchina e in motocicletta. Da giovane, Yves aveva prestato servizio militare negli Alpini francesi.

1933-39: Nel 1934 Yves sposò Paulette Weill e la coppia ebbe due figlie, Nadine, nel 1935, e Francelyn nel 1939. Poi, quando si temette lo scoppio della guerra, durante la crisi cecoslovacca del 1938, Yves venne richiamato dall'esercito francese e servì per cinque mesi con il grado di tenente. Yves venne mobilitato nuovamente quando la Francia dichiarò guerra alla Germania nel settembre del 1939.

1940-44: Yves venne catturato durante l'invasione tedesca della Francia; successivamente riuscì a fuggire, ma restò in Francia a combattere. Utilizzando le scorte del suo negozio di Saint-Etienne, egli organizzò un corpo di fureria nella Francia libera di Vichy che distribuiva cibo, coperte, tende e vestiario alla Resistenza. Inoltre, aiutò a nascondere nei conventi e nelle fattorie bambini ebrei e paracadutisti canadesi e americani. Infine, Yves comandò anche la Resistenza nella regione della Savoia. Dopo lo sbarco degli Alleati in Francia, nel 1944, egli fu catturato dai Tedeschi.

Yves venne prima torturato e poi ucciso a Etercy, il 24 giugno 1944. Aveva 35 anni. Successivamente, gli venne assegnata la Croce di Guerra alla Memoria, la Medaglia all'Onor Militare e la Legion d'Onore.

La Scommessa di Brandt - Storia Vera su un segreto di Hitler


1 - Michele simpatizzante partigiano sta pedalando velocemente verso il luogo segreto dove deve consegnare viveri, armi e medicinali per aiutare della gente nascosta sulle montagne. Ma ad un tratto, una jeep di pattuglia del vicino Comando tedesco arriva verso di lui. In pochi secondi deve trovare una soluzione e così d’istinto sfrutta, essendo Maestro di musica oltre che operaio alla SIAI Marchetti, quella che è la sua più grande abilità, il ritmo che ha nel sangue. L’uomo infatti, quando la macchina rallenta con la palese intenzione di fermarlo per un controllo, inizia a fischiettare in modo così efficace e sentito Lili Marlen che gli ufficiali della Gestapo con un sorriso di approvazione si limitano ad esibirsi nel saluto Nazista. Michele violentando la sua coscienza ricambia e prosegue imperterrito senza smettere di zufolare ma non appena l’auto lo sorpassa, inevitabilmente la mano destra si posa sull’avambraccio sinistro regalando all’aria un sonoro e soddisfatto tié.

2 – Tornato a casa dalla missione sua moglie Anita non lo accoglie come al solito con un abbraccio. Con il volto teso gli dice che c’è qualcuno nel fienile. L’uomo sa bene cosa significa. Qualche disgraziato è stato mandato da lui per sfuggire alla persecuzione tedesca. Però Michele trova strano il nervosismo della donna che tira a sé i suoi tre bambini come a volerli proteggere. Ma non appena entra nella stalla capisce il perché. Di fronte a lui esausti e spaesati ci sono i volti in erba di due soldati tedeschi in divisa. Il più giovane che non avrà avuto più di 18 anni teneva il capo chino come per nascondere una colpa di cui si vergognava, l’altro avanzò di qualche passo e tese la mano spiegando che erano due disertori e che volevano solo ritornare al loro paese perché stanchi delle atrocità della guerra.

3 – Nonostante il rischio Michele decide di aiutare i due biondini, come li chiamava lui, perché capisce che non si tratta di una delle solite trappole organizzata con la collaborazione dei fascisti, in quanto sul volto dei giovani disertori è dipinto il più puro terrore. E i tedeschi secondo la sua esperienza non mostravano mai paura.

4 – L’uomo così permette ai due di rimanere nascosti nel fienile dove all’interno di alcune balle di fieno era stato ricavato un piccolo spazio sufficiente per sopravvivere. Ma ogni dì dopo il coprifuoco e cioè quando i soldati, che non mancavano mai di punzecchiare la paglia con i tridenti che trovavano sul posto, se ne andavano delusi, Michele li faceva entrare in casa. I ragazzi sentendosi al sicuro e non disprezzati si comportavano rispettosamente con Anita aiutandola per esempio ad apparecchiare la tavola e come fratelli maggiori per i tre figlioletti della coppia.

5 – Con Michele invece si creò un legame diverso, i due giovani in un italiano stentato parlavano con lui aprendo il loro cuore. Gli rivelarono che non sopportavano più le torture che venivano inflitte al Comando per far parlare i prigionieri e che non tutti i tedeschi erano così. Ma Michele pensando che però in un primo momento le avevano accettate e forse anche applicate quelle stesse torture, con tono pungente dice che tutti tedeschi anche i civili hanno gli occhi stralunati di Hitler e quello era chiaro perché mentre per combattere il fascismo esisteva la resistenza organizzata nessuno si stava opponendo realmente al Nazismo. Per dare il colpo di grazia Michele mostrò ai due giovani una piccola immaginetta, che avrebbe poi tenuto nel portafoglio fino alla fine dei suoi giorni, con i ritratti di tre persone, padre, madre e figlioletto dicendo che erano stati buttati nel fuoco da alcuni soldati tedeschi, che per far loro ancora più male avevano strappato dalle braccia della donna il neonato gettandolo tra le fiamme per primo.

6 – A quel punto però il ragazzo più grande con le lacrime agli occhi insiste nel sostenere che davvero esistevano tedeschi che anche se per costrizione erano diventati nazisti non condividevano quelle terribili idee e per i quali le folli promesse del Furher non contavano nulla. Per dimostrare che le sue non erano solo parole dette con lo scopo di difendersi o difendere il suo popolo, il giovane raccontò una storia a lui vicina perché vissuta direttamente da una sua stretta parente e che aveva come protagonista un medico per il quale la donna lavorava come infermiera.

7 – Un medico viene incaricato dalle alte sfere di analizzare crani e organi degli ebrei per dimostrare la loro diversità dagli ariani. L’uomo che è uno scienziato nonostante non creda nel suo compito perché è convinto che caratteristiche di conformità fisica e scheletrica differenti non siano simbolo di inferiorità, è consapevole che l’ordine di un alto gerarca nazista alle dirette dipendenze di Hitler non si può rifiutare, altrimenti, per lui e per la sua famiglia ci sarebbero state l’alienazione e il carcere, se non di peggio.

8 – Un giorno deve incontrare niente di meno che Karl Brandt, il medico di Hitler fautore della soluzione finale e promotore dell’eutanasia degli individui ritenuti indegni alla vita. L’uomo ottenebrato dai suoi piani di gloria e potere, spiega al collega il perché di quella visita. E’ stato scelto per essere a capo di un progetto atto a dimostrare come non centrino per esempio condizioni di crescita, ambiente e altro per confermare che gli ebrei sono geneticamente una razza debole e inutile all’umanità. Brandt dice fiero che il grande onore di portare avanti gli esperimenti sui corpi di dieci neonati ebrei che saranno partoriti a giorni gli è stato concesso con approvazione del Furher in persona. In poche parole gli annuncia che dieci donne gravide prima di essere mandate alla Camera a Gas, avrebbero dato alla luce i loro bastardi che subito sarebbero stati consegnati a lui. Il suo compito, dimostrare che gli ebrei erano esseri inferiori sin dalla nascita.

9 – Poiché il modo non veniva precisato, l’uomo immaginando di dover sopprimere quei piccini per poi effettuare misurazioni, confronti fra piccoli cervelli, estrazione di organi dai loro fisici ancora caldi, e non limitarsi ad analizzare ossa e parti già estratte da corpi senza vita, sentì un brivido di orrore divampare dentro di lui. Ma cosa poteva fare da solo per evitare di deludere Ippocrate venendo meno al principio che ogni esistenza per un medico deve essere considerata sacra?

10 – Però con la forza della disperazione e di un potenziale immenso senso di colpa, l’uomo rimase lucido. Finse di essere nel mezzo di un intenso ragionare per prendere tempo. Come se stesse pensando al modo più efficace per realizzare il sogno di Brandt dimostrando definitivamente l’inferiorità del popolo d’Israele, ma in realtà le sue celluline grigie stavano studiando la maniera per salvare quelle piccole creature innocenti dal bisturi e dalla formalina.

11 – Sfruttando la sua grande abilità dialettica, il medico iniziò a parlare a Brandt di alcuni inesistenti studi e poi gli disse che lui approvava il succo del progetto ma che aveva un’idea che avrebbe potuto non solo dimostrare la diversità ma definitivamente la palese inferiorità degli ebrei e cosa non da poco che avrebbe anche portato grande gloria a colui, e cioè Brandt, che avesse autorizzato la sperimentazione.

12 – Il medico di Hitler incuriosito lo invitò a spiegare in che cosa consisteva l’ idea.

Così l’uomo sollevato, afferma che l’inferiorità degli ebrei si potrebbe dimostrare definitivamente solo in un confronto diretto con gli ariani. Brandt non capisce dove il collega vuole arrivare ma fa un cenno di assenso così l’uomo prosegue nell’ illustrazione del piano. Sostiene che prendendo per esempio quei dieci bambini ebrei e altri 10 ariani ( sapeva che alcune donne belle e sane venivano fatte accoppiare con giovani forti con l’unico scopo di creare la nuova razza pura e perfetta) e facendoli crescere per qualche anno assieme, mangiando lo stesso cibo, studiando le stesse materie e ricevendo le stesse cure, con un confronto diretto avrebbero potuto ugualmente capire chi era ebreo e chi ariano anche senza saperlo.

13 – Brandt in un primo momento pensando a figli della Germania che avrebbero dovuto convivere e avere gli stessi diritti di piccoli giudei, si dimostrò titubante, ma poi quando il medico insistette dicendo che per raggiungere un fine così nobile ed importante ogni sacrificio diventava accettabile, si convinse ed approvò il progetto che fu denominato, la Scommessa di Brandt.

14 – La Scommessa ebbe inizio in un Castello nei dintorni di Berlino dove alcune donne ignare vennero chiamate a fare da balia a 20 bambini senza sapere chi fossero e per quale motivo si trovassero lì.

15 - Ma per fare in modo che tutto fosse perfetto, che la scommessa avesse ancora più valore, per non essere influenzato in alcun modo, nessuno in quegli anni doveva poter distinguere i bambini. Per far si che ciò avvenisse, alla presenza di Brandt e altri due ufficiali, i piccoli, divisi in due gruppi per l’ultima volta, vennero numerati con un tatuaggio in numeri romani da un militare che sarebbe stato l’unico a sapere qual’era il numero casuale non progressivo assegnato loro. Poi l’uomo su un foglio vicino al numero scrisse una A o una J, a seconda se il bambino che aveva tatuato era Ariano o Ebreo. Alla fine il soldato mise il foglio in una busta che venne sigillata con la cera lacca e la consegnò A Karl Brandt.

16 – A quel punto il medico e il soldato stesso si aspettavano di assistere ad una specie di cerimonia durante la quale il militare avrebbe giurato di non rivelare mai nulla della Scommessa e di cancellare dalla propria mente se le ricordava le associazione numeri lettere che aveva trascritto. Ma un assistente di Brandt si limitò ad estrarre la pistola e a sparargli un colpo in fronte.

17 – Poi Brandt chiuse la busta nella cassaforte. Nella sua testa si immaginava il finale della Scommessa con il collega medico, l’unica che sarebbe stato lieto di perdere. Un uomo scelto tra i più rinomati specialisti avrebbe analizzato assieme al medico i bambini capendo facilmente quali erano ebrei e quali ariani perché anche se cresciuti con le stesse identiche cure, possibilità e con la stessa istruzione, i giudei sarebbero stati certamente meno sani, meno intelligenti, inferiori insomma.

18 – Per fortuna, quel tempo era lontano pensava il medico e tutto forse sarebbe cambiato.

Agli occhi del mondo il Castello sarebbe stato una scuola speciale per creare la solita razza perfetta. Bambini scelti fra tanti per diventare un giorno le menti più importanti di Germania, i sostenitori più accesi del Nazional Socialismo, i figli più distinti di Adolf Hitler. In realtà in quel Castello c’erano solo tanti bambini che sarebbero cresciuti e istruiti da un medico scienziato e dalla sua infermiera secondo i canoni di una società semplicemente umana. Per 10 anni sarebbero stati bambini felici. Il medico aveva la consapevolezza di aver salvato 10 piccoli ebrei. Ma in realtà stava salvando anche il cuore di 10 piccoli tedeschi.

19 – Michele rimase colpito dalla Storia della Scommessa di Brandt, tanto che in futurò la raccontò a sua nipote assieme alla triste fine dei due giovani soldati. I ragazzi infatti una volta lasciata la casa dove erano stati accolti con affetto, con la speranza di arrivare presto oltre confine, nonostante le indicazioni e le raccomandazioni di Michele di non passare da Taino un paese vicino, si persero dopo solo pochi chilometri andando a finire proprio alla stazione di quel paese. Lì incontrarono un ometto che sembrava innocuo. L’uomo mostrando loro la via più breve per allontanarsi dalla zona e arrivare alle montagne ne carpì la fiducia convincendoli a rimanere ad aspettarlo nascosti dietro gli alberi con la scusa di andare a prendere del denaro che sarebbe stato loro utile per affrontare il lungo viaggio. In realtà l’uomo che era il capo dei fascisti tornò con dei soldati tedeschi che catturarono i disertori e li fucilarono nella piazza del paese.

Michele e la sua famiglia per molti anni avrebbero messo un fiore in loro ricordo su uno di quei piccoli monumenti ai caduti costruiti lungo le strade in onore delle tante persone uccise durante la guerra.

Hitler e la scuola nazista per cani parlanti

Secondo il professor Jan Bondeson, docente all'Università di Cardiff, i nazisti volevano insegnare ai cani a parlare per usarli in guerra


Cani parlanti come armi da guerra. Sembra la trama di un film, ma a quanto pare è vero: i nazisti avevano pensato anche a questo. Lo sostiene Jan Bondeson, docente all'Università di Cardiff, nel suo libro Amazing Dogs: A Cabinet Of Canine Curiosities («Cani straordinari: il gabinetto delle curiosità canine»). Secondo le ricerche del professore, i nazisti speravano che i cani, da loro considerati di un'intelligenza simile a quella degli esseri umani, potessero comunicare con le SS e partecipare attivamente alle operazioni di guerra.

Che Adolf Hitler stesso amasse i cani è risaputo: uccise Blondi, il suo pastore tedesco preferito, prima di suicidarsi nel suo bunker nel 1945. Ma, a quanto pare, aprì anche a una scuola che insegnasse ai migliori amici dell'uomo a comunicare. La Tiersprechschule Asra («Scuola di lingue per animali») aprì i battenti negli anni Trenta a Leutenburg, vicino a Hannover, e rimase aperta durante la guerra.

La scuola registrò alcuni successi nell'educazione degli animali, con cani in grado di «parlare» battendo la zampa su cartelloni e intrattenendo vere e proprie conversazioni. Altri, a quanto dicono i registri, erano persino in grado di imitare la voce umana. Pare addirittura che uno di loro, alla domanda su chi fosse Hitler, abbia ululato: «Mein Führer!».

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Il campione della scuola era Rolf, un terrier che comunicava battendo la zampa su una tavola: a un certo numero di colpi corrispondeva una lettera dell'alfabeto. La leggenda su di lui crebbe a tal punto che si riteneva avesse espressamente chiesto di unirsi all'esercito tedesco perché odiava i francesi, o che avesse chiesto a una signora se fosse in grado di scodinzolare. Un altro famoso cane della Tiersprechschule era il bassotto Kurwenal, che il giorno del suo compleanno ricevette persino la visita di 28 giovani in uniforme della lega per la protezione degli animali. Latrava un numero diverso di volte a secondo della lettera dell'alfabeto che voleva usare.

«È materiale straordinario», ha commentato il professor Bondeson. «Nella Germania degli anni venti, circolavano parecchi "psicologi degli animali",che credevano che i cani fossero capaci di pensieri astratti e di comunicare con gli umani. Quando il Nazismo salì al potere, fece proprie queste idee».

Hitler sperava che i cani potessero aiutare le SS in guerra«Hitler stesso era interessato all'utilizzo di cani "educati" nei campi di concentramento e in guerra. Fece condurre una serie di esperimenti in merito, ma non ci sono prove che tutti questi esperimenti abbiamo davvero portato a qualcosa e che le SS andassero davvero in giro in compagnia di cani parlanti». Dunque i cani parlanti e patrioti erano solo frutto della propaganda? Chissà. Di sicuro stavano meglio di tanti altri sotto il Terzo Reich.

sabato 30 luglio 2011

Otto d’Asburgo (1912-2011) - Un europeo prima di tutto


Herr Doctor von Habsburg, così l’arciduca Otto voleva essere chiamato, non si è mai sentito un re senza regno. Mai nei suoi discorsi ha manifestato amarezza e rimpianto, sentimenti sempre considerati assolutamente inutili. Al figlio dell’ultimo imperatore d’Austria interessava soltanto l’azione concreta. «La politica è la mia vera vocazione», ha detto spesso quest’uomo che aveva come patria l’Europa intera. Nessuna nostalgia del passato, ma soltanto la ferma volontà di rendere a tutti i popoli di Europa giustizia e libertà. Otto d’Asburgo non è mai stato un nostalgico dell’Ancien Régime, ma ha seguito fino in fondo il suo destino diventando la coscienza storica e politica del vecchio continente. Laureato in Scienze politiche a Lovanio, Otto si è guadagnato la vita scrivendo, lavorando come giornalista e tenendo conferenze in giro per il mondo.
Una foto celebre, il piccolo Otto insieme al prozio l’imperatore Francesco Giuseppe

Parlamentare europeo per venti anni è stato un Asburgo “combattente” per i suoi ideali, per l’Europa e non ha mai voluto essere catalogato come “sovrano decaduto” o “re in esilio”. Coltissimo, poliglotta (parlava sette lingue fra cui il difficilissimo ungherese), il figlio dell’imperatore beatificato nel 2004 da papa Giovanni Paolo II, aveva anche radici italiane attraverso sua madre Zita di Borbone-Parma, donna di immenso carattere che vedova a neanche 30 anni, prende con decisione in mano il destino degli Asburgo.  

Ottobre 1911, Carlo d’Asburgo sposa Zita di Borbone-Parma

La ex sovrana, che nei brevi e tragici quattro anni di regno ha già dato prova di un notevole acume politico, di una forza stupefacente e di una energia fuori del comune, nei decenni a venire dimostrerà di che pasta è fatta. Italiana di nascita, ma francese per origine e cultura, Zita viene da una famiglia numerosissima (ha 23 fratelli e sorelle), ma soprattutto profondamente cattolica e la fede sarà sempre il faro della sua vita, insieme ad una serena e coraggiosa determinazione che trasmette pari pari alla sua numerosa prole. I ragazzi, ed in particolare il primogenito Otto sulle cui spalle pesa l’eredità politica e morale degli Asburgo, studiano, si impegnano in opere caritatevoli, ma soprattutto imparano presto ad essere l’uno il sostegno dell’altro. L’inflessibile Zita non mostra segni di debolezza e di cedimento, resiste a tutte le prove, alle difficoltà economiche e politiche, e contemporaneamente inculca in questi otto piccoli esuli il senso del dovere e della responsabilità e costruisce la loro esistenza sul valore della tradizione e non di una ambizione fine a se stessa. L’erede in pectore Otto, evita di giocare all’imperatore in esilio, ma avrà un ruolo non da poco durante la II Guerra Mondiale. “Sono riconoscente a mia madre per la sua severità”, ha spiegato Ottone, aggiungendo che “questo tipo di educazione si è rivelata utile per la nostra vita, per esempio noi siamo sempre stati indipendenti e abbiamo tutti lavorato duramente”.

Carlo I e Zita con i figli poco dopo la morte di Francesco Giuseppe e la loro ascesa al trono

Banditi dall’Austria alla fine della Grande Guerra, gli Asburgo restano nondimeno molto popolari nei loro antichi stati, specie fra le classi popolari e Zita per anni coltiva questo sentimento che presto si trasforma nella resistenza all’Anschluss il cui nome il codice è “operazione Otto”. Non per nulla Hitler definisce la piccola e apparentemente fragile Zita, “il ragno”, e tenta in più occasioni di farla assassinare, trattamento che riserva anche al figlio Otto (che finiti gli studi all’università di Lovanio si era trasferito a Berlino dove aveva conseguito un dottorato ed assistito al montare della follia nazista) condannato a morte in contumacia nel 1938. E’ noto il ruolo avuto dall’ex imperatrice nel tentativo (portato avanti insieme ai fratelli Sisto e Saverio di Borbone-Parma) di arrivare ad una pace separata per l’Austria nel 1918, mentre pochi sanno quanto Zita e i suoi figli si siano accanitamente impegnati, da subito, contro il nazismo.

Carlo, Zita e il piccolo Otto il giorno dell’incoronazione a re d’Ungheria, paese a cui resteranno sempre molto legati

La battaglia di Zita ed Otto contro Hitler è prima di tutto d’ordine spirituale, per due cattolici come loro è impensabile condividere anche uno solo dei pensieri che il Fuhrer ha così ben circostanziato nel suo Mein Kampf , diventa il tentativo di salvare il maggior numero possibile di persone e quindi di convincere gli americani ad intervenire per salvare l’Europa dalla distruzione. Dal 1938 alla Liberazione, Zita e Ottone non smettono un secondo di lottare per l’indipendenza dell’Austria, per la sconfitta di Hitler e la salvezza dei tanti perseguitati dal nazismo. Nel 1939 Otto incontra il presidente Roosevelt e diversi membri del Congresso americano ai quali assicura che l’Austria non è un paese alleato del Fuhrer ma una nazione occupata; nel 1940 Zita, insieme a tutti i suoi figli, al fratello Felix ed alla cognata la granduchessa del Lussemburgo, approda negli Stati Uniti e da quel momento non si stanca di perorare la causa austriaca. La ex imperatrice viene ricevuta da Roosevelt e dalla moglie Eleanor e poi parte per una serie di conferenze in lungo e in largo. Certo gli americani, nel cui immaginario una sovrana ha ben altro aspetto, abbigliamento ed allure, rimangono un po’ sconcertati da questa signora vestita di nero, ma lo stupore presto lascia il posto all’ammirazione ed alla stima. Zita, poliglotta fin fa quando era una bambina, è anche un’oratrice di tutto rispetto. Durante la guerra Ottone fa la spola fra l’Europa e gli Stati Uniti, mentre due dei suoi fratelli sono paracadutati in Tirolo e raggiungono le forze della Resistenza austriaca. E’ anche grazie all’incessante lavoro di “propaganda” degli Asburgo che l’Austria, nel momento della Liberazione, verrà considerata non un alleato della Germania nazista ma un paese aggredito. Le saranno quindi non solo risparmiate tutte le vessazioni imposte ai vinti, ma verrà inserita fra i beneficiari degli aiuti previsti nel piano Marshall. Ma poiché la gratitudine non è di questa terra, nel maggio del 1945 sono rimesse in vigore le leggi anti-Asburgo e tutti i discendenti della ex casa regnante vengono di nuovo espulsi. Zita è autorizzata a tornare solo nel 1982, ma il suo funerale nel 1989, a cui prendono parte migliaia di persone è quello di una imperatrice. E lo stesso sarà per quello del figlio il 16 luglio del 2011.

A Nancy, capitale dei duchi di Lorena, Otto sposa la principessa Regina di Sassonia-Meiningen

La duchessa crocerossina

Nel 1908 viene inaugurata a Roma la scuola per infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e l’anno dopo fra le allieve in divisa bianca c’è anche una signora sottile ed elegante. La nuova aspirante crocerossina si chiama Hélène d’Orléans ed oltre ad essere altissima, affascinante ed energica è anche la moglie di Emanuele Filiberto di Savoia duca Aosta, cugino di re Vittorio Emanuele III. La prestigiosa adesione viene salutata con la massima soddisfazione dai vertici italiani della Cri, poiché la principessa è, come si direbbe oggi, una persona molto dinamica e la cosa in giro si sa. Ispettrice Generale delle Infermiere Volontarie dal 1911, la duchessa di Aosta partecipa alla sua prima missione sulla nave ospedale Menfi che rimpatria i soldati feriti o malati dalla Libia. Nel 1915, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Hélène inizia a visitare ospedali grandi e piccoli lungo tutta la linea del fronte, quello che vede spesso non le piace, ma lei non è certo il tipo da stare zitta e far finta di nulla. “Grazie al suo spirito organizzativo – racconta il nipote, il principe Amedeo attuale duca di Aosta – e insieme a validissime collaboratrici, riuscì ad organizzare il Corpo delle Infermiere Volontarie e a gestire una logistica non facile, con le crocerossine sempre a fianco dell’esercito, che svolgevano la  loro missione fin nei luoghi più avanzati del fronte. Grazie al suo forte carattere riuscì ad imporre le sue infermiere in seno ad un ambiente sanitario e militare che fino ad allora tendeva a considerare le donne solo alla stregua di buone samaritane e non certo professioniste preparate e motivate quali erano; bastò poco comunque perché le Sorelle si facessero conoscere ed apprezzare per il loro prezioso lavoro”. La duchessa di Aosta durante tutti gli anni della guerra si impegna in prima persona e, come testimoniano i suoi superiori, dà prova di coraggio, resistenza alla fatica ed ai disagi, e grande efficienza. Ma è anche pronta a protestare quando si trova di fronte a situazioni insostenibili dal punto di vista medico e sanitario. Energica, piena di iniziativa e di una severità che la fa giudicare intransigente (ma ci voleva specie nei primi tempi della guerra) Hélène non si lascia intimidire dalle greche del generali a cui rivolge le sue richieste di provvedimenti. La duchessa non ha paura, né dei bombardamenti, spesso resta in prima linea accanto ai soldati, né dei vertici dell’esercito e per tutti gli anni del conflitto combatte una sua personale lotta contro l’inefficienza e le disposizioni assurde. Il diario che tiene in quel periodo è ricco di annotazioni sui feriti trasportati in carri bestiame nei quali le condizioni igieniche sono disastrose, sugli ospedali disorganizzati e sporchi, ma anche sulle strutture dove l’assistenza funziona come si deve. Donna di gran cuore la duchessa è spesso vicina ai malati e ai feriti in un modo non certo convenzionale per una signora dell’alta società per di più reale; a Venezia ad esempio non esita ad assistere fino all’ultimo minuto, tenendolo stretto fra le sue braccia, un giovane fante moribondo che nel delirio l’ha scambiata per la madre. “Dai numerosi diari, lettere ed altri scritti di infermiere volontarie – osserva il nipote – si evincono soprattutto le doti  di profonda umanità, compassione e bontà (non disgiunta mai da fermezza) della loro ispettrice generale. Sempre preoccupata anche del benessere fisico e psicologico delle sue ‘figliole’ come spesso chiama le sue infermiere  o col termine stesso di “sorelle di carità” da lei usato in una commemorazione e che sostituirà definitivamente quello di ‘dame’ utilizzato fino ad allora”.

Hélène in abito da sposa


Italiana per matrimonio e francese per origini, Hélène è inglese di nascita, ma assolutamente europea per conoscenze, frequentazioni, cultura, studi e abitudini. La principessa, nata a Twickenham nei pressi di Londra il 13 giugno 1871, è infatti una delle figlie di Luigi Filippo “conte di Parigi”, condannato all’esilio in quanto pretendente al trono di Francia. La futura duchessa d’Aosta, che ha una sorella regina del Portogallo e per via materna discende dai Borboni di Spagna, cresce fra Villamanrique, una grande finca vicino a Siviglia, e la Gran Bretagna dove frequenta la corte inglese e ha come compagni di giochi i figli del principe di Galles, futuro re Edoardo VII. Le relazioni sono così strette che una storia d’amore fra i rampolli reali è quasi inevitabile: il duca di Clarence primogenito dell’erede al trono, non resiste al fascino di Hélène, le fa una corte assidua, si comincia a parlare di nozze, ma il padre della principessa, nonostante il prestigio di una tale unione, pone un veto deciso ed irremovibile. Hélène non può abiurare al cattolicesimo, conditio sine qua non per salire sul trono d’Inghilterra, e lo stesso papa Leone XIII fa sapere che una scomunica seguirebbe a ruota ad una eventuale conversione della principessa francese alla chiesa anglicana. Così il matrimonio inglese sfuma. Lui ci rimane molto male, però si fidanza prontamente con un’altra perché la dinastia ha bisogno di eredi, ma una polmonite lo stronca poco prima delle nozze e la promessa sposa passa velocemente al fratello. Saranno re Giorgio V e la regina Mary. Come volergliene alla povera Mary per questo frettoloso rimpiazzo, sapendo che il defunto fidanzato nell’agonia aveva invocato solo la perduta Hélène?

Emanuele Filiberto duca d’Aosta


Sempre per questioni di fede e di abiure non contemplate va a monte anche un altro progetto matrimoniale, quello con lo zarevic Nicola, figlio dello zar Alessandro III, così Hélène a 23 anni è ancora insolitamente (per la sua epoca e per il suo ceto sociale) nubile. Ci vuole un lutto per cambiare drasticamente la situazione. Al funerale del padre nel 1894, Hélène solleva per un attimo il fitto velo nero ed incontra lo sguardo di Emanuele Filiberto duca d’Aosta, inviato dallo zio re d’Italia a rappresentare i Savoia. Un’occhiata rapidissima, ma più che sufficiente. L’unione, per quanto dinasticamente perfetta, però non è vista di buon occhio in Italia e lo sposo fatica a portare all’altare la sua principessa francese la quale oltre ad un albero genealogico impeccabile pare abbia anche una buona dote (e forse persino qualche lascito dal prozio duca di Aumale), il che non dispiace allo squattrinato duca d’Aosta. I motivi delle perplessità sabaude sono politici (con la Francia i rapporti non sono cordiali) e di opportunità visto che il principe ereditario Vittorio Emanuele è ancora scapolo. Il duca di Aosta la spunta ed il 25 giugno 1895 sposa finalmente Hélène, ma l’accoglienza in Italia è freddina, la principessa cosmopolita, padrona di quattro lingue, colta, a suo agio nell’alta società internazionale, viene guardata quasi con timore da una corte recente e tutto sommato ancora abbastanza provinciale. Il commento apparentemente benevolo della regina Margherita ha un retrogusto al veleno: “per educazione e per fisico è una vera inglese, la dicono buona, intelligente e colta, diventerà una bella donna”. La prima sovrana d’Italia non solo odia cordialmente tutto quanto connesso con la Francia, ma soprattutto ha un figlio che non è un adone (al contrario di tutti i Savoia Aosta) e che non riesce ad accasare. Con il resto della famiglia non va meglio, il principe ereditario è per carattere scontroso e diffidente, la matrigna del marito Letizia Bonaparte, contrarissima alle nozze, mantiene la sua posizione ad oltranza, i cognati uno dedito ai cavalli, l’altro alle esplorazioni (è il famoso duca degli Abruzzi) sono praticamente invisibili, solo il re è cordiale. Così Hélène si butta sulla beneficenza e nel frattempo mette al mondo due figli Amedeo e Aimone che educa secondo il severo modello britannico. Il matrimonio ad ogni modo funziona molto bene e una reale complicità nasce fra i due sposi che non prendono mai decisioni senza il consiglio l’uno dell’altro. Negli anni ci saranno cedimenti e da una parte e dall’altra, ma la coppia resterà sempre unita e solidale. Hélène ha le “physique du role” e lo stile della vera principessa, è brillante, elegante, raffinata, originale e quindi diventa presto molto popolare fra tutte le classi sociali della nuova nazione. Compiaciuta per il rispetto che le dimostrano gli italiani la duchessa di Aosta sposa gli interessi e le cause del suo nuovo paese e la “figlia di Francia” diventa rapidamente più italiana degli italiani.

Hélène con il marito, i due figli e la madre l’infanta Isabella (figlia a sua volta di Luisa Fernanda sorella della regina Isabella II di Spagna) vedova del conte di Parigi, pretendente Orléans al trono di Francia

La principessa però non gode di buona salute, è spesso febbricitante ed una tosse stizzosa la lascia sovente senza forze, i medici diagnosticano una tubercolosi e, come si usava all’epoca, le consigliano un lungo soggiorno nei climi caldi. La duchessa parte nel 1907, arriva in Egitto e poi si spinge fino all’Oceano Indiano. Torna in Italia giusto in tempo per accorrere a Messina dove presta assistenza alle popolazioni colpite dal disastroso terremoto, il che non giova alla sua salute, così nel 1908 riprende i suoi viaggi, ma questa volta si dirige verso sud, Sudafrica, Rodhesia, poi l’anno dopo Kenya e Somalia. I paesi lontani e sconosciuti l’attraggono in modo irresistibile, nel 1913 arriva fino in Asia, visita l’India, Ceylon, l’Indocina, il Borneo, Sumatra, l’Australia, la Nuova Zelanda, torna attraverso gli Stati Uniti, il Canada e la Spagna. La malattia ormai è solo un ricordo e durante questi lunghi peripli prende appunti che diventeranno dei libri: “Viaggi in Africa”, “Verso il sole che si leva”, “Vita errante”, “Attraverso il Sahara”. Nel frattempo è diventata crocerossina, è stata nominata Ispettrice Generale (lo resterà fino al 1921), ha fondato l’Opera Nazionale di Assistenza all’Italia Redenta e D’Annunzio l’ha celebrata con versi non particolarmente belli, ma molto esaltati. Hélène per il Vate è la personificazione della amatissima Francia unita alla regalità italiana; per la duchessa la “La canzone di Elena di Francia”  la sesta delle “Canzoni d’Oltremare” è invece la consacrazione ad eroina sabauda.

E quegli ch’ebbe stritolato il mento/dalla mitraglia e rotta la ganascia,/e su la branda sta sanguinolento/e taciturno, e i neri grumi biascia,/anch’egli ha l’indicibile sorriso/all’orlo della benda che lo fascia,/quando un pio viso di sorella, un viso/d’oro si china verso la sua guancia,/un viso d’oro come il Fiordaliso./Sii benedetta, o Elena di Francia,/nel mar nostro che vide San Luigi/armato della croce e della lancia”. Hélène ammira D’Annunzio per l’eroismo, ma è infastidita da certi aspetti del suo  carattere e della sua personalità di uomo libertino e miscredente. Infatti la principessa anticonformista, amica di intellettuali e massoni, è profondamente religiosa e vive il suo rapporto con il cattolicesimo in una maniera intensa e priva di ostentazione.

Nel 1905 i duchi di Aosta si trasferiscono a Napoli e nel palazzo di Capodimonte Hélène  tiene una corte splendida e il suo prestigio diventa quasi quello di una regina. Stimata dalla Chiesa per la sua devozione e la sua carità ossequiata dalle autorità, popolare fra la gente, la duchessa visita i bassi di Napoli e fra la miseria più nera si muove con naturalezza; persino Matilde Serao, la potentissima giornalista de “Il Mattino” le dimostra una certa simpatia.
 
Allo scoppio della I Guerra Mondiale la principessa, interventista fin da subito, è al fronte con il marito, comandante della III Armata, ed i figli di 17 e 15 anni. Ottiene una medaglia d’argento al valor militare due croci al Merito di Guerra, due onorificenze francesi, una inglese, e la medaglia Florence Nightingale, ma il drammatico conflitto lascia su di lei una impronta indelebile, scrive: “niente potrà cancellare la visione mostruosa della guerra”. Nel 1919 riprende a viaggiare, ma rientra per manifestare la sua adesione all’impresa dannunziana di Fiume, recandosi nella città contestata accolta dal poeta, ed attirandosi così i fulmini del Governo. Nitti la definisce una “lady Macbeth” che, “nella più pura tradizione di tradimento degli Orléans, sta lavorando per spodestare il ramo principale della casata a favore del marito e dei figli”.
 
Una celebre foto, da sinistra il duca d’Aosta, Hélène, e i figli Aimone e Amedeo, tutti e due altissimi e molto belli
 
Con Mussolini la duchessa ha rapporti amichevoli tanto che il libro sulla sua esperienza al fronte, pubblicato nel 1930 “Accanto agli Eroi. Diario di guerra” ha la prefazione del Duce. Il capo del Governo è sempre deferente verso di lei, accontenta le sue richieste, tollera le asprezze del suo carattere in sostanza se ne fa un’alleata, ma pare che ad un certo punto Mussolini si sia irritato per la mania della duchessa di farsi ritrarre nei suoi sempre  molto frequenti viaggi in Africa assieme alle popolazioni locali.
 
Il duca e la duchessa d’Aosta escono da una udienza al Vaticano, il figlio Aimone racconterà che la madre si era messa a discutere con il Papa al quale aveva chiesto di intervenire per risolvere un problema legato ad un istituto benefico
 
Emanuele Filiberto muore all’improvviso nel 1931, ma lei resta a Capodimonte (dove si installa anche il secondo marito il colonnello Otto Campini, sposato nel 1936) e nonostante l’età e la malattia ai polmoni conserva una stupefacente energia fisica e nervosa. In quel periodo un affetto particolare la lega alla principessa di Piemonte, Maria José del Belgio come lei intelligente, anticonformista, priva di pregiudizi, di mentalità aperta al limite della stravaganza. Sono anche gli anni in cui i figli si sposano, Amedeo con Anna d’Orléans, cugina per parte di madre e per parte di padre, Aimone che all’epoca era considerato uno degli uomini più affascinanti d’Italia, con Irene di Grecia.
Nel palazzo di Capodimonte la duchessa rimane durante tutto il secondo conflitto mondiale e nei giorni dell’occupazione nazista è il suo coraggio a salvare una situazione disperata. “Un giorno un soldato tedesco viene colpito da una fucilata tirata da una finestra del palazzo – racconta il nipote Amedeo – poco dopo si presenta un colonnello delle SS insieme ai suoi uomini armati di mitragliatrici e dopo aver fatto allineare contro un muro tutti i domestici chiede di denunciare il colpevole. Mia nonna scende dai suoi appartamenti e dice al colonnello: ‘signore, in questo palazzo niente si fa senza che io lo sappia. Dunque sono l’unica responsabile. Se lei ha qualcosa da dire o da fare è a me che si deve rivolgere’. L’ufficiale impressionato sparisce con i suoi soldati. A Napoli ancora se ne parla”.
Sono anni di grandi dolori, la morte dei figli lontani (Amedeo, prigioniero degli inglesi nel 1942, Aimone a Buenos Aires nel 1948), la fuga del re, il referendum che cancella la monarchia, ma Hélène resiste e va avanti. Dopo il 2 giugno 1946 si ritira in un albergo a Castellammare di Stabia e quando Umberto impone a tutta la famiglia di lasciare il paese la duchessa non si muove. “Sire – fa sapere al re – sono diventata italiana e resto in Italia”. L’ultimo gesto di amore nei confronti di quella che è ormai la sua patria è il dono, nel 1947, alla Biblioteca Nazionale di Napoli del Fondo Aosta, costituito dalla Raccolta libraria (oltre 11.000 volumi ed opuscoli), ed anche dalla straordinaria Raccolta africana e da una notevole Raccolta fotografica. Hélène d’Oléans duchessa di Aosta muore a Castellammare di Stabia il 21 gennaio 1951.

Una immagine di Hélène ragazzina a Londra
Hélène è diventata una principessa da marito
La futura duchessa di Aosta insieme a due amiche inglesi, a sinistra Alexandra principessa di Galles, moglie del futuro Edoardo VII e la principessa Vittoria d’Inghilterra

Luci e ombre di Henry Ford

L'uomo che rivoluzionò l'industria automobilistica era l’americano preferito da Hitler


Una delle figure che meglio rappresenta l'America, simbolo della modernità e "papà" di una delle più storiche case automobilistiche, Henry Ford rappresenta anche il lato oscuro della società americana dei primi del '900. Quella che nel 1915 rifondò il Ku Klux Klan...

Henry Ford, fondatore della storica casa automobilistica che porta il suo cognome, fu una dei personaggi più innovatori dell'economia statunitense dei primi anni del XX secolo.


1903 la Ford Motor Company – Nel 1903 all'età di 40 anni Henry Ford fondò a Detroit la Ford Motor Company. L'idea rivoluzionaria dell'industriale americano fu proprio quella di creare una macchina semplice e economica, accessibile alle famiglie medie americane.

Fino ad allora l'automobile, invece, era considerata oggetto di lusso, dal costo proibitivo, destinato ad un pubblico molto limitato. Per ottenere tali risultati, Ford introdusse per la prima volta all'interno della produzione industriale la catena di montaggio che permetteva di abbattere i costi di produzione e introdurre sul mercato una macchina di largo consumo.

Henry Ford e lo storico modello Ford T1908 - la Ford T – Nel 1908 fu lanciata sul mercato americano la storica Ford T, una macchina destinata a popolare le strade degli Stati Uniti. Soltanto nel 1911 furono vendute 69.762 macchine, un boom senza precedenti se si pensa che della Ford S, il modello precedente, furono prodotti dal 1906 al 1908 soltanto 7.000 esemplari.

Negli anni della Grande Depressione, nonostante le difficoltà economiche che devastavano l'economia americana, gli stipendi dei dipendenti Ford erano tra i più alti. Del resto, la politica manageriale dell'industriale (chiamata anche walfere capitalism) era semplice: mantenere quanto più possibile alto il potere d'acquisto dei suoi operai.

Il 5 gennaio 1914, Ford annunciò il cosiddetto programma "$5-per-day" (cinque dollari al giorno), alzando lo stipendio minimo da 2.34 a 5 dollari al giorno e diminuendo nel 1926 le ore lavorative settimanali da 48 a 40.

Criticato dagli operatori di Wall Street, Ford difendeva la sua politica considerando, invece, essenziale la disponibilità economica dei suoi operai per il bene stesso dell'azienda: se i lavoratori guadagnavano abbastanza potevano permettersi di comprare le automobili che producevano, favorendo così l'economia.

1920 – 1927 il Dearbron Independent – Nonostante l'impegno pacifista mostrato durante la Prima Guerra Mondiale, la personalità di Henry Ford sembra essere avvolta da ombre oscure che dagli Stati Uniti conducono alla Berlino dei primi anni '30, quando un giovane Adolf Hitler saliva al potere in Germania.

Dal 1920 al 1927, infatti, il potente imprenditore statunitense fece pubblicare sul suo giornale, il Dearborn Independent, una serie di articoli noti come I Protocolli dei Savi di Sion (Protocols of the Learned Elders of Zion).

I Protocolli sono un'opera letteraria le cui origini risalgono al 1868. Pubblicate dal Dearborn nella forma di presunto "documento" segreto, descrivevano un ipotetico piano per la conquista del mondo da parte degli ebrei.

Dalla seconda metà degli anni '20 i Protocolli furono raccolti, assieme ad altri articoli antisemiti, in 4 volumi intitolati The International Jew, the World's Foremost Problem (L'ebreo internazionale, il principale problema mondiale). Le pubblicazioni del Dearborn influirono non poco sulla stima che Hitler nutriva per Ford, tanto che pare il Führer avesse una sua foto appesa alla parete.

Secondo quanto riportato dallo storico Steven Watts nel suo libro The People's Tycoon: Henry Ford and the American Century Hitler dichiarò: "farò il mio meglio per mettere in pratica le sue idee in Germania e modellare la Volkswagen, la macchina del popolo, sul modello della Ford T".

1927 - il processo al Dearborn – Sul finire degli anni '20, la Lega Antidiffamazione denunciò il Dearborn e il suo editore per incitare la violenza contro gli ebrei. L'avvocato e attivista ebreo Aaron Sapiro citò in giudizio Ford costringendolo a chiudere il Dearborn nel 1927.

Le testimonianze contraddittorie e le prove controverse non dimostrarono un diretto coinvolgimento di Ford nella pubblicazione né dei Protocolli né de The International Jew. Il direttore del Dearborn, William Cameron, sostenne che durante il processo che nessuno dei suoi editoriali era stato concordato con Ford, anzi, quest'ultimo era all'oscuro della linea politica del giornale.

Ma secondo quanto riportato dallo studioso Michael Barkun nel suo libro Religion and the Racist Right: The Origins of the Christian Identity Movement, la signora Stanley Ruddiman, intima amica della famiglia Ford, dichiarò: "Non credo che Mr Cameron abbia mai scritto nulla senza l'approvazione di Mr. Ford" ("I don't think Mr. Cameron ever wrote anything for publication without Mr. Ford's approval")

In risposta alle pubblicazioni del giornale, la comunità ebrea e i cristiani liberali boicottarono i prodotti Ford, contribuendo alla chiusura del Dearborn. In difesa, Henry Ford nel 1927 scrisse all'attivista ebreo Sigmund Livingston una lettera di pubbliche scuse.

Dieci anni dopo, nel 1937 in seguito alla sempre più minacciosa avanzata del nazismo, Ford, in un'intervista al Detroit Jewish Chronicle, negò ogni relazione con la pubblicazione in Germania del libro International Jew.

Al di là dello scenario internazionale e delle dirette implicazioni di Henry Ford, per tutti i suoi anni di vita il Dearborn Independent fu portavoce delle posizioni più estreme della destra reazionaria americana, quella che rifondò nel 1915 il Ku Klux Klan per difendere la classe dominante bianca dalla massiccia immigrazione dei primi anni del XX secolo.

Altrettanto l'innovazione tecnologica apportata da Henry Ford, la macchina del popolo, non aveva nulla a che fare con le idee politiche del dittatore tedesco, ma di sicuro le pubblicazioni del giornale di suo possesso erano vicine all'antisemitismo proprio dell'ideologia nazista.

Poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, infatti, nel luglio del 1938, il consolato tedesco di Cleveland omaggiò Ford per il suo settantacinquesimo compleanno del premio della Grande Croce dell'ordine dell'Aquila Tedesca (Verdienstorden vom Deutschen Adler), una delle massime onorificenze civili del Terzo Reich.


Oskar Schindler - Imprenditore tedesco


Oskar Schindler (Svitavy, 28 aprile 1908 – Hildesheim, 9 ottobre 1974) è stato un imprenditore tedesco, famoso per aver salvato, durante la Seconda guerra mondiale, circa 1.100 (secondo altri, come riportato sulla sua lapide, 1.200) ebrei dallo sterminio (Shoah), con il pretesto di impiegarli come personale necessario allo sforzo bellico presso la sua fabbrica di oggetti smaltati, la D.E.F. (Deutsche Emaillewaren-Fabrik), situata in via Lipowa n. 4, nel distretto industriale di Zablocie, a Cracovia.

L'eroica vicenda è pervenuta a noi grazie a un evento casuale: l'incontro tra lo scrittore australiano Thomas Keneally e Leopold Pfefferberg (Poldek), grande amico di Oskar. Keneally entrò nel negozio di Pfefferberg e così i due si conobbero. Raccontò la sua storia a Keneally il quale ne fu colpito e, stabiliti contatti con gli altri Schindlerjuden (gli «ebrei di Schindler»), scrisse il romanzo La lista di Schindler da cui, successivamente, è stato tratto il film Schindler's List (1993), diretto da Steven Spielberg.

Schindler nacque a Zwittau (oggi Svitavy) nel Sudetenland, ovvero nei Sudeti, una regione all'epoca in Austria-Ungheria e successivamente in Cecoslovacchia, dove viveva per la maggior parte popolazione di lingua tedesca. L'annessione di questa alla Germania nazista, fu per Schindler l'inizio di una nuova avventura che lo portò a Cracovia, la città polacca che per molto tempo fu la sua dimora.

Qui acquistò a basso prezzo una fabbrica in via Lipowa n. 4, nel quartiere industriale di Zablocie, che chiamò Deutsche Emaillewaren-Fabrik, dove produsse pentolame e in seguito munizioni. Arrivò a occupare, durante la sua attività di imprenditore, circa 1200 lavoratori ebrei (secondo alcune fonti, sarebbero stati 1100). Alcuni dicono che, almeno inizialmente, abbia agito a scopo di lucro sfruttando il lavoro sottopagato di persone in stato di bisogno, come molti altri imprenditori in tutta la Germania. In seguito, tuttavia, iniziò a difendere attivamente i suoi operai. Egli avrebbe sostenuto che alcuni lavoratori incompetenti erano in realtà essenziali per il buon andamento della fabbrica, e qualsiasi danno che veniva loro fatto, risultava nelle sue proteste e richieste di risarcimento al governo.

L'orrore determinante a cui dovette assistere fu il rastrellamento del 1942 nel ghetto di Cracovia. I soldati stavano trasferendo gli ebrei in un campo di concentramento a Plaszow, e uccisero selvaggiamente molte persone che cercavano di nascondersi nelle loro case. Da brillante diplomatico, dopo il rastrellamento fu sempre più pronto a usare le sue doti per salvare i suoi Schindlerjuden ("gli ebrei di Schindler"). Si accordò con Amon Göth, il comandante di Plaszow, per il trasferimento di 900 ebrei nell'adiacente complesso industriale, dove sarebbero stati relativamente al sicuro dalle angherie delle guardie tedesche.

Quando l'Armata Rossa era ormai prossima a liberare Cracovia, i tedeschi distrussero i campi e uccisero gran parte degli internati. Schindler, tuttavia, riuscì a spostare 1.100 "lavoratori" in una fabbrica a Brunnlitz (Brnenec) in Cecoslovacchia, sottocampo del complesso di Gross-Rosen, nell'ottobre 1944. Nel trasferimento, il convoglio della forza lavoro femminile, che partì a distanza di una settimana da quello maschile, venne deviato per un errore burocratico ad Auschwitz. Schindler riuscì comunque nell'intento di farselo restituire, e tutte le donne raggiunsero definitivamente Brunnlitz, che venne poi liberata nel maggio del 1945.

Alla fine della guerra, Schindler riuscì a emigrare in Argentina. Qui fece bancarotta e ritornò in Germania nel 1958 per intraprendere una serie di avventure imprenditoriali senza successo. Nel 1961, in occasione della sua prima visita in Israele, ricevette l'entusiastica accoglienza di 220 sopravvissuti. Da allora visse tra Israele e Germania. Dal 1971 visse a Hildesheim, in Germania, dove morì il 9 ottobre 1974 in un ospedale. Dopo la sua morte, il corpo fu trasferito in Israele, nel cimitero cattolico di Gerusalemme.



Il 18 luglio 1967, l'apposita commissione israeliana Yad Vashem decise di riconoscere Oskar Schindler Giusto tra le nazioni; tale decisione fu confermata il 24 giugno 1993 ed estesa alla moglie di Schindler, Emilie Schindler.

Il manoscritto originale della lista di Schindler fu trovato nel 1999 in una valigia, che lo stesso imprenditore aveva lasciato nella casa di una coppia di amici a Stoccarda.

Nel 2009 è stata ritrovata una copia-carbone della lista in una biblioteca di Sydney, in Australia, in mezzo ai manoscritti di Thomas Keneally.

Onorificenze ricevute
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Silvestro Papa

"Sono solo animali" - Ma la giustizia e la pietà non ammettono limiti

"Quanto a lungo, Dio,
guarderai a questo tuo inferno
e resterai in silenzio?

Quale bisogno hai Tu
di quest'oceano di sangue e di carne,
il cui fetore invade oramai tutto l'Universo?

Hai creato questo macello sconfinato solamente per mostrarci
la tua potenza e la tua saggezza?


E noi dovremmo amarti
con i nostri cuori e le nostre anime
per questo?.....


Si sono convinti che l'uomo,
il peggior trasgressore
di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi
sono stati creati unicamente
per procurargli cibo e pellame,
per essere torturati e sterminati.

Nei loro confronti tutti sono nazisti;
per gli animali Treblinka
dura in ETERNO"

Isaac Bashevis Singer - scrittore ebreo polacco - premio Nobel per la letteratura 1978


Sopravvissuto all'Olocausto, l'ebreo Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer per primo ha denunciato la sconcertante somiglianza fra il trattamento degli ebrei durante l'Olocausto e quello degli animali allevati a scopo alimentare, notando che le tecniche di soppressione di massa usate per gli animali erano già state impiegate sugli esseri umani....
Dopo avere realizzato che tutte le oppressioni appartengono a un'unica pianta, diventò vegetariano, essendogli chiaro che la giustizia e la pietà non ammettono - e non devono ammettere - limiti, e che non si può parlare di pace con la bocca piena delle vittime della violenza..... Come le vittime dell'Olocausto, gli animali sono strappati alle loro famiglie, trasportati sotto le peggiori intemperie, costretti a vivere dentro recinti angusti e poi incolonnati verso la morte. E che lo si voglia ammettere oppure no, tutti gli animali condividono l'un l'altro la capacità di provare dolore, paura e solitudine....
Ciò che forse più colpisce dell'Olocausto è che mentre milioni di esseri umani venivano coperti di sputi, insultati, strappati alla famiglia, picchiati e condotti alla morte, tanti altri milioni stavano a guardare, evitando però di vedere l'ingiustizia da cui essi non erano colpiti. Essi prendevano le distanze dalle vittime e acconsentivano a che milioni di persone venissero torturate e uccise, dicendo a se stessi :«Sono solo ebrei!». Oggi, a sessant'anni di distanza, l'attitudine e i sistemi dell'Olocausto restano gli stessi; sono cambiate solo le vittime.
Coloro che mangiano carne prendono le distanze dalle vittime degli allevamenti industriali per trovare una giustificazione al sostegno che essi dànno a un'industria violenta e sanguinaria. Se ne stanno silenziosi e apatici, e conducono la vita di ogni giorno rivolgendo uno sguardo cieco agli orrori che essi potrebbero contribuire a far cessare, giustificandosi col dire a se stessi: «Sono solo animali!».