venerdì 30 settembre 2011

Dall'album di Helga


Il dormitorio nelle baracche


Questo disegno rappresenta il luogo dove i prigionieri dormivano dopo essere stati deportati dai nazisti nel campo di concentramento.

Il dormitorio delle Baracche, 1943

Il dormitorio nelle baracche con vari materassi buttati li alla buona, senza coperte nè cuscini. Panni e vestiti stesi ad asciugare, a una o due mensoline piene di oggetti accatastati.

Sogno 1943
 
L’INCUBO


Tutto comincia così: ero un neonato e chi mi uccideva aveva su di me il massimo potere.
Per fortuna però ero in mani sicure con mia sorella Lavinia. Poi un giorno un uomo nero con l’ aspetto aguzzo mi portò su una rupe. Mia sorella mi vide, ma era troppo tardi perché l’ uomo mi sbatté sulle rocce, mi buttò giù dalla rupe e la storia finì con il trionfo del male.


Un biglietto di auguri, 1943


Helga pensa che delle persone la invitino ad un banchetto: carne,frutta e tante cose buone per festeggiare.

Per il suo quattordicesimo compleanno “ 1943

Il disegno rappresenta tre momenti della vita di Helga: quando nasce, vicino a sua madre; quando sta nella sua baracca (dormitorio); quando sogna di essere adulta e andare a fare una passeggiata con una sua amica, sua figlia e un'altra bambina in carrozzella.

L’arrivo della commissione della Croce Rossa Internazionale “ 1944
La chiamata per raggiungere il Convoglio “ 1942


Quando una persona veniva chiamata per raggiungere il convoglio, molto spesso si andava a Auschwitz, lo facevano di notte o all'alba così gli altri non potevano vederli
Questa immagine raffigura un sorvegliante che sveglia un deportato del campo di concentramento per fargli raggiungere il convoglio verso il campo di sterminio.
I prigionieri venivano svegliati e deportati la notte o all' alba per non far insospettire i compagni dei dormitori vicini.
Il desiderio per il mio compleanno 1, 1943


Questa immagine rappresenta il desiderio di compleanno di Helga Weissova, una ragazza ebrea deportata.
Helga desidera andarsene da Terezin e sogna di ricevere una torta gigante da portare a Praga, dove si trova la sua casa.

L’arrivo di un pacco, 1943


Questo disegno rappresenta un momento di felicità nelle baracche dei bambini, deportati dai nazisti nel campo di concentramento di Terezin, dopo l'arrivo di un pacco mandato dalla Croce Rossa pieno di vestiti e cibo.

L'arrivo al campo


L'immagine che abbiamo scelto fa vedere come arrivavano i prigionieri nel campo. Avevano solo poche cose, si stringevano gli uni agli altri per farsi coraggio, spesso i bambini piangevano in braccio alle mamme. C'erano anche vecchi che si appoggiavano al bastone. Tutti sono molto tristi.
Sui loro vestiti era cucita una stella di stoffa gialla per segnalare che erano ebrei. Le guardie sorvegliavano e spesso erano crudeli con i prigionieri.
Dopo l'arrivo gli uomini, le donne e i bambini venivano separati e dovevano andare nelle baracche che erano assegnate. I prigionieri dovevano anche lavorare.


Il disegno raffigura l’arrivo della delegazione della Croce Rossa e si vedono i bambini felici e ben vestiti, i cuochi ordinati intenti a preparare un ricco pasto e una persona che fa le pulizie.

Minka Pradelski


Minka Pradelski è nata a Francoforte in Germania da una famiglia ebrea deportata e sopravvissuta allo sterminio. Ha studiato Sociologia alla Johann-Wolfgang Goethe Universität. Ha lavorato al progetto sugli «effetti dei traumi subiti dagli ebrei sopravvissuti all’epoca nazista» al «Sigmund Freud Institut di Francoforte». Regista e autrice di documentari quali Stalin hat uns das Herz gebrochen. Jüdische Genossen in der jungen DDR, ha pubblicato numerosi scritti sulla condizione ebraica in Germania dopo la guerra. L’eredità di Bella Kugelmann è il suo primo romanzo.

Minka Pradelski


Titolo: L'eredità di Bella Kugelmann
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tutto avrebbe potuto immaginare Zippy Silberberg tranne che la scomparsa di sua zia Halina a Tel Aviv avrebbe fatto di lei, inquieta ragazza ebrea di Francoforte, una di quelle stralunate eredi di lasciti bizzarri di cui si sente a volte parlare sui giornali.

Zippy si nutre quasi soltanto di verdure surgelate e detesta il pesce. E che cosa le ha lasciato in eredità la zietta di Tel Aviv? Una valigetta marrone di circa settant'anni e una cassetta, foderata all'interno di velluto rosso, contenente otto forchette e nove coltelli, ciò che resta, insomma, di un servizio da pesce per dodici!

Ora Zippy mancherà pure di un'assennata condotta di vita, ma di certo non di buon cuore.

Eccola perciò, dopo un lungo e faticoso viaggio, nella stanzetta del suo albergo di Tel Aviv, sveglia di buon'ora e pronta a prendere immediato possesso della sua bizzarra eredità, se un'anziana signora, bizzarra pure lei, non glielo impedisse di fatto.

È entrata nella stanza senza preavviso, dicendo di essere stata mandata dalla direzione. Ciabattando coi suoi sandali ortopedici di fabbricazione tedesca - che chissà perché tutte le vecchie signore israeliane amano alla follia - si è messa ad annusare nel bagno, ad esaminare la cuffia della doccia, il sapone e la carta igienica, la polvere negli armadietti, la pulizia dei portacenere, e poi, all'improvviso, ha accostato una sedia al letto, si è presentata come una certa Bella Kugelmann e, ignorando le resistenze di Zippy, ha cominciato a parlare... Di tutto. Di Bedzin, il villaggio polacco vicino a Katowice in cui è nata e dove la chiesa e la sinagoga si fronteggiavano sulla via principale, del bell'Adam e della fiera Polacca, della farmacia Gablonski e del barbiere Lachmann, di Potok, il venditore di dolcetti, e di Frau Kleinowa, l'isterica insegnante di polacco, di Fanny Sternenlicht, la bella insegnante di latino coi suoi stivaletti provocanti, e della vita intensa di un piccolo borgo ebraico prima dell'orrore, dei giorni di furore in cui gli uomini divennero bestie.

Romanzo che ci restituisce i sapori, i profumi e le atmosfere di un villaggio ebraico degli anni Trenta, e in cui ci sembra quasi di riascoltare il chiacchiericcio in yiddish-polacco, L'eredità di Bella Kugelmann toglie la polvere del tempo alla storia, riportando alla luce dalle sue rovine una piccola, straordinaria pagina di felicità perduta .

Come Anna Frank: «Sono così sola»

Il Diario di Helga, ebrea diciottenne deportata in Polonia dove morì

Una giovane ebrea olandese ha raccontato gli ultimi mesi di vita nel lager: «Vedo la libertà dietro il filo spinato»


Helga Deen, ebrea deportata in Polonia e morta nel luglio del '43 a 18 anni
 
AMSTERDAM - Comincia così: «1 Giugno 1943. Carissimo, la situazione, finora, va meglio del previsto. Sono in una baracca vuota, sulla brandina più bassa (ce ne sono tre una sull’altra) e se da qui guardo fuori dalla finestra vedo betulle, abeti, il cielo azzurro con delle nuvole bianche». È il diario che Helga Deen, ebrea olandese, scrive sul suo quaderno di chimica. Ha 18 anni e frequenta l’ultimo anno di liceo a Tilburg, nel sud dei Paesi Bassi. Suo padre è responsabile dell’«Ufficio permessi di trasporto» della comunità ebraica locale e questo risparmia alla famiglia la deportazione. Almeno fino al 10 aprile 1943. Quel giorno, tutti gli ebrei di Tilburg vengono portati al campo di raccolta di Vught, pochi chilometri a nord della città. È qui, dopo un paio di mesi dall’arrivo, che Helga comincia a scrivere la sua cronaca dell’inferno. Si rivolge a Kees, il ragazzo con cui ha avuto una storia d’amore e che non rivedrà mai più. Gli scrive: «Forse questo diario ti deluderà perché non contiene fatti. Ma forse sarai felice di trovare me tra queste righe: i conflitti, i dubbi, la disperazione, la timidezza». Helga Deen come Anna Frank. Non si conoscevano. Vivevano in città diverse. Negli anni della Seconda guerra mondiale, quando gli ebrei sembrano aver perduto il diritto di esistere. Helga dedica i suoi pensieri a Kees. Anna a Peter. Helga scrive la sua testimonianza dal campo di Vught. Anna dalla soffitta di Prinsengracht 263, ad Amsterdam, dove viene stanata il 4 agosto 1944 con la famiglia e trasferita prima a Westerbork, poi ad Auschwitz e infine a Bergen Belsen, la sua tomba.

 
La caligrafia minuta di Helga sulla prima pagina del Diario

Le 21 pagine scritte da Helga Deen sono rimaste segrete per più di mezzo secolo. E’ stato Conrad van den Berg, il figlio di Kees, a donare lo scorso gennaio il quaderno di Helga all’archivio di Tilburg. Lo ha fatto in modo semplice, con un’ email : «Ecco il materiale che mio padre mi ha lasciato in eredità». L’archivista Gerrit Kobes lo legge e si accorge subito del valore di quelle pagine, conservate insieme ad alcune lettere in una borsa di cuoio con una penna stilografica, una ciocca di capelli e altri oggetti personali della ragazza. Per ora, soltanto la prima pagina della cronaca di Helga è stata resa pubblica. In Olanda hanno infatti il progetto di celebrare i 60 anni della liberazione dai tedeschi, il 5 maggio 2005, con la pubblicazione del diario. Sabato 30 ottobre, nella Giornata nazionale degli archivi in Olanda, per la prima volta il quaderno sarà mostrato al pubblico.

Helga racconta, il 3 giugno 1943: «Tutto è così terribile. Oh, potrei diventare una dottoressa. Quelle urla isteriche, quella poca disciplina. Tutto quel rumore me lo lascio scivolare sopra il più possibile». All’epoca era molto rischioso tenere un diario e di documenti da un campo di concentramento, fino a ieri, se ne conosceva uno solo: quello vergato da David Koker a Vught, pubblicato nel 1977.

Il 6 giugno 1943 Helga trascrive un trasferimento che l’ha impressionata. «E’ troppo. Sono a pezzi e domani ci sarà di nuovo. Ma se la mia forza di volontà muore, allora muoio anch’io. Questa è una cosa che non va più dimenticata». A sconvolgerla è uno dei convogli più tragici del conflitto mondiale, quello del 6 e del 7 giugno, quando 1.249 bambini ebrei vengono trasferiti dal campo di Vught a quelli di Auschwitz e Sobibor in Polonia.

Il 12 giugno, Helga annota a matita: «Anche se proprio tutti sono gentili con me, mi sento così sola. Ogni giorno vediamo la libertà attraverso il filo spinato». Lei spera di poter lavorare, per rimandare il suo trasferimento. Di lì a poco le comunicano che il 2 luglio potrà andare, «anche se in prova», alla fabbrica della Philips. Poi la doccia fredda: anche lei sarà trasferita. E così compila il diario per l’ultima volta: «Un mese, un giubileo e che giubileo... Debbo far su le mie cose, stamattina la morte di un bambino mi ha messo sottosopra. Ma tutto questo non ha nessuna importanza rispetto a quanto segue: c’è ancora un trasferimento e questa volta faremo anche noi parte del viaggio».

È datata 2 luglio 1943 l’ultima lettera dal campo di Vught; Helga sta per essere portata a Westerbork, breve tappa prima della sua destinazione finale. E’ indirizzata a «Cari voi tre»: Kees, un amico e un’amica. «Siamo dei vagabondi, degli emigranti e dobbiamo quindi sottometterci al loro modo di vivere. Quello che abbiamo passato questi mesi è indescrivibile e per chi non l’ha passato di persona, inconcepibile». Da Westerbork il 13 luglio andrà con i genitori e il fratello Klaus Gottfried al campo di Sobibor, in Polonia, dove la famiglia sarà sterminata il 16 luglio 1943.

sabato 17 settembre 2011

Il debito


Lo si capisce già dall’incipit, fin dal primo piano degli occhi di Helen Mirren: mai fidarsi delle apparenze. E, infatti, contrariamente a quanto si possa pensare (leggendo la sinossi) Il debito non è un film sulla caccia ai criminali nazisti seguita alla fine dell’Olocausto, piuttosto un film sul peso del “debito” nei confronti della verità e sul senso di disagio che l’essere umano prova ogni volta che mente.

1966, Berlino Est. Rachel, David e Stephan (Jessica Chastain, Sam Worthington, Marton Csokas) sono tre agenti del Mossad incaricati di catturare il nazista Vogel, meglio conosciuto come il chirurgo di Birkenau, e portarlo in Israele perché venga processato. Trent’anni più tardi Rachel, David e Stephan (i più maturi Helen Mirren, Ciáran Hinds, Tom Wilkinson) sono tre eroi nazionali, osannati in patria per aver ucciso quel criminale, e la cui missione viene ora celebrata in un libro da Sarah, figlia di Rachel e Stephan. Saranno i colpi di scena disseminati all’interno del film a stravolgere il senso di una storia all’apparenza molto lineare e ormai chiusa e a dettare i ritmi di un thriller ad alta tensione. In un continuo cortocircuito tra presente e passato, bene e male, dove le vittime si confondono con i carnefici.

Come nell’originale (Il debito è il remake dell’israeliano Ha-Hov, diretto da Assaf Bernstein nel 2007), il film di John Madden (all’attivo una nomination agli Oscar per Shakespeare in Love) ricostruisce il contesto storico ma punta lo sguardo sui protagonisti della storia e sulla loro umanità, astenendosi da facili moralismi. L’incubo e gli orrori della Seconda Guerra Mondiale passano solo attraverso alcune fotografie e le parole agghiaccianti di Vogel (Jesper Christensen), l’unico capace di penetrare nell’animo dei tre agenti, individuarne i punti deboli e affondare la lama in ferite ancora aperte, costringendoli a mettere a nudo la loro vulnerabilità: «Dimenticavo che voi ebrei non siete capaci ad uccidere. Solo a morire».

Il debito è un film che colpisce allo stomaco, e non tanto per la violenza di alcune sequenze, quanto per il cinismo e il peso specifico dei dialoghi. Una pellicola in cui spicca un cast corale dove nessuno è messo in ombra e dove la riflessione sul rapporto tra l’essere umano e la verità acquista una connotazione talmente universale da risultare attuale nonostante la storia ci riporti indietro di 50 anni, all’interno di una vicenda dai tratti decisamente particolari. È nell’umanità dei personaggi, nei loro sentimenti, nelle loro ferite (come quelle che segnano il volto e lo spirito di Rachel) che lo spettatore riconosce se stesso e la sua vita. Che Madden riesce a indurre un’empatia che cresce per la durata della pellicola e che dovrebbe culminare nella scena finale del film, curiosamente la meno incisiva: un epilogo che si consuma troppo in fretta, perdendo la tensione che fino a quel momento si era mantenuta molto alta.
 
Il debito: la trama


Il film racconta la storia di Rachel (Helen Mirren) e Stefan (Tom Wilkinson) agenti del servizio segreto israeliano, incaricati di catturare un criminale di guerra nazista chiamato il chirurgo di Birkenau (Jesper Christensen): di fronte all’insuccesso dell’operazione, insabbieranno il caso. A distanza di trent’anni però, la ricomparsa del criminale li costringerà a nascondere di nuovo la verità.

Trailer

sabato 10 settembre 2011

Storie e interviste: Il dolore di Alfonso

Intervista a un reduce dai campi di concentramento nazisti. Una storia drammatica che riesce a parlare di vita e di speranza

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…" Era notte fonda ormai a Buchenwald e dentro uno stanzone buio uomini italiani si preparavano alla morte come gli era stato insegnato fin da piccoli, pregando. Ma la preghiera era appena mormorata, sussurrata piano, intervallata da piccoli pianti e soffocati gemiti. La paura ormai era la sola padrona di quei corpi e non permetteva alla preghiera di riaccendere la speranza. Tutto era stabilito e a questo punto non si poteva tornare indietro. Gli ufficiali del campo avevano deciso: “Dovevamo morire, eravamo già stati tutti interrogati e condannati. A breve ci avrebbero portato nel triangolo della morte e da lì non saremmo più tornati indietro”. Triangolo della morte. E’ così che Alfonso Lusini (30-06-1922) chiama il luogo in cui i prigionieri del campo di sterminio di Buchenwald hanno cessato la propria esistenza. Quella notte Alfonso non dormì. La pioggia cascava violentissima ed il freddo dell’autunno tedesco si faceva sentire. La morte gli stava correndo dietro e l’aveva quasi raggiunto. Dormire era il suo ultimo pensiero. I ricordi erano tanti, forse troppi per riuscire a focalizzarne uno per intero. Si sentiva confuso. La sua casa, i parenti, gli affetti erano lontani ed il loro ricordo lo ubriacavano di tristezza. Lontana era la Toscana, il Casentino e lo scorrere della vita contadina di Chiusi della Verna, paese natale d’Alfonso. L’ultima volta vi era stato dopo l’otto settembre 1943, data in cui il Gen. Badoglio annunciava l’armistizio per “l’impossibilità d’impari lotta” con le forze armate anglo-americane. Per il bersagliere Lusini Alfonso, impegnato sul fronte bellico italo-francese, e per la stragrande maggioranza dei soldati italiani, tutto ciò significava fine della guerra e rientro nelle proprie case. Ritornati in patria alcuni continuarono a combattere la guerra di liberazione come partigiani, altri continuarono a credere nell’idea fascista e si arruolarono a Salò ed altri ancora, la parte più consistente, decisero di riporre definitivamente le armi per iniziare da dove avevano lasciato prima della guerra. Si dichiararono e li chiamavano “sbandati”. Anche Alfonso scelse la strada degli “sbandati”: “Ai partigiani, o ai fascisti mi dichiaravo sbandato”. La nostalgia dell’amato paese era più forte di qualsiasi ideale. Ebbe poco tempo però per gustarsi l’affetto dei cari. Pochi giorni dopo il rientro, una pattuglia di partigiani irruppe in paese ed in un agguato uccise un soldato tedesco. Era il tredici giugno 1944. La rappresaglia tedesca fu molto dura. Il giorno seguente l’attentato partigiano un reparto dell’esercito tedesco scese in paese ed uccise nove uomini ed una suora. “Ad ogni soldato ucciso i tedeschi fucilavano dieci italiani”. Tra gli uomini uccisi c’era anche il padre d’Alfonso, Pietro, trucidato davanti al portone di casa. Finita la rappresaglia, il reparto tedesco iniziò il rastrellamento per il paese in cerca degli sbandati o dei disertori dell’ormai ex esercito italiano. Alfonso aveva un’unica strada da percorrere: la fuga. Scappò, quindi, e si diede alla macchia con l’animo impaurito per la minaccia tedesca ed il cuore straziato di dolore per la morte del padre. “Scappai, corsi per diversi chilometri e mi rifugiai dentro il bosco della Croce di Sarna”. Non era solo in quel bosco. Altri “sbandati” della zona si rifugiarono in quel luogo. Le speranze di salvezza s’infransero il mattino seguente, quando un reparto dell’esercito tedesco, padrone del territorio, circondò la boscaglia intimando i fuggiaschi ad arrendersi. Uscirono tutti con le mani alzate. Alfonso e gli altri uomini furono presi e caricati nei camion. Partirono e furono portati a Peschiera del Garda, la prigione militare italiana nel frattempo caduta sotto il controllo tedesco. Lì rimasero per sette giorni. Poi una nuova partenza. Stavolta in treno. Una locomotiva seguita da vagoni con le sbarre ai finestrini. Una prigione che si muoveva sui binari. Alla stazione di Gorizia erano in molti: partigiani, ebrei italiani e poi loro, gli “sbandati”. Uomini, donne e bambini. Tutti ammassati ordinatamente. La paura soffocava qualsiasi altra emozione. Un silenzio assordante regnava nella stazione. Un silenzio rotto solo dalle urla, dalle bastonate e dagli spari di qualche soldato tedesco. Arrivato il treno, i soldati cominciarono a spingerli all’interno dei vagoni. “Nel mio vagone eravamo quarantadue. Eravamo talmente stretti che non c’era lo spazio neanche per sedersi. Quando ci fermammo la prima volta delle donne impietosite ci tirarono dell’acqua attraverso le sbarre. Eravamo così assetati che iniziammo a leccarci l’un l’altro. I più vicini ai finestrini leccavano le sbarre. Un vecchio vicino a me non resistette. Si accasciò e morì”. Era il ventisette giugno 1944. Tre giorni dopo arrivarono in Germania nel campo di concentramento di Dachau, vicino Monaco. Dachau fu costruito dai nazisti nel 1933, dapprima come centro di rieducazione politica (è in questo campo che per la prima volta in Germania si sperimenta la “fisica dell’anima”), poi si trasformò in un vero e proprio campo di sterminio. Appena arrivati i prigionieri si disposero al centro del campo. Cominciò l’appello. Ore e ore di domande, i nomi, e di risposte, i vari si o presente, diversi da uomo ad uomo, da lingua a lingua. La monotonia del gesto, a volte, era interrotta dalle urla dei soldati tedeschi rivolte a chi non aveva sentito il proprio nome o a chi lo aveva sentito ma sopraffatto dalla paura era incapace di pronunciare un facile ma terrificante si. Gli ebrei udito il proprio nome dovevano rispondere e fare un passo in avanti. Finito l’appello, i soldati fecero spogliare i prigionieri. Una volta nudi, una schiera di dottori li visitò uno ad uno. Il responso del medico era fondamentale per la vita dei detenuti. Chi non passava la visita era più vicino alla morte. Alfonso era giovane, con il fisico energico. I medici lo passarono. Terminate le visite dovettero lavarsi. Gli fu consegnata la tenuta da prigioniero e una catena da portare al collo con una piastra metallica, “La piastrina della morte”, ed un tesserino con, in un lato, la foto del prigioniero, e nell’altro, i dati anagrafici. Sia la piastrina che il tesserino erano numerati. Fu loro assegnato il posto letto all’interno di grandi baracconi di legno. Erano tutti uomini. Alle donne ed ai bambini spettava un’altra parte del campo ben divisa da quella dei padri o dei fidanzati. Così passò il primo giorno a Dachau per Alfonso che vide i primi morti dei campi, le bastonate, gl’insulti, le umiliazioni. Per la prima volta vide il proprio terrore in faccia agl’altri. Per la prima volta vide un’ordinaria efficienza nell’amministrare il dolore, la morte, l’assurdo. “Dentro il campo facevamo di tutto, dal lavoro nella cava fuori dei recinti, al caricare i corpi dei morti nei nastri dei forni crematori”. I nastri che portavano ai forni erano sempre in movimento. La morte nel campo era di casa. “Le persone morivano in continuazione, di fame, di stenti, di fatica oppure i più direttamente uccisi dai soldati. Per gli ebrei non c’era alcun rispetto né pietà. Per gli altri, come me, un minimo di umanità la mostravano. Poca cosa in ogni modo. Non era ammessa la pietà”. Dopo un mese Alfonso fu trasferito a Buchenwald nelle vicinanze di Weimar. Buchenwald fu costruito nel 1937. La prerogativa del campo era lo sterminio per mezzo del lavoro. Alla tenuta dei prigionieri era annesso un triangolo colorato. Il colore indicava il motivo per cui la persona era detenuta nel campo. Alfonso, catturato come soldato italiano, gli era sta assegnato il triangolo rosso, quello che contraddistingueva i prigionieri politici. “Buchenwald era infernale. Peggiore di Dachau. Il lavoro era massacrante e guai a fermarti”. Malnutriti, picchiati, umiliati fino a quando c’erano residui di forze. Una volta finite, il triangolo della morte finiva l’opera, ed il nastro aveva un ospite in più da portare verso l’unica via d’uscita del campo. Alfonso continuava a perdere chili. La fame accompagnava tutti e sempre. Così lavorare la terra fuori le recinta del campo a volte significava cibo. Per lo più rape marce che un contadino tedesco gettava dentro una fossa di letame vicino alla cava dove lavoravano i deportati. “Ci avvicinavamo al letame e prendevamo quelle rape marce e maleodoranti. Le mettevamo sotto la tenuta, poi le mangiavamo la sera. L’ufficiale addetto all’ispezione della nostra palazzina, insospettito dal puzzo, riuscì a trovarcele, ma non prese nessun provvedimento. Forse s’impietosì”. Ben presto però Alfonso fu colpito da un’infezione alimentare. Il proprio corpo fu invaso da ripetute emorragie. Una soldatessa tedesca, che conosceva l’italiano si accertò delle condizioni di Alfonso. La soldatessa sapeva l’italiano perché era fidanzata con un fiorentino che aveva intenzione di sposare appena finita la guerra. L’uomo abitava in Via Masaccio. Alfonso allora inventò alla tedesca che anche lui viveva a Firenze e che anche lui abitava in Via Masaccio. Le parole d’Alfonso suonarono familiari all’interprete donna suscitando verso di lui una certa simpatia. Lo portò in infermeria e lo fece curare salvandolo da morte sicura. I rapporti tra i due non finirono qui. Fu, infatti, proprio la donna che, una volta dimesso dall’infermeria, aiutò Alfonso a scrivere un telegramma a casa. Telegrammi che Alfonso aveva già scritto ma che non sarebbero mai arrivati a destinazione per le troppe verità descritte. Telegrammi che dovevano essere composti tassativamente da tredici parole, compreso l’indirizzo, con l’obbligo di non menzionare mai il luogo in cui si trovava il prigioniero. La donna così dettò il testo ad Alfonso: “Sto bene e sono con una bella bionda”. Il telegramma arrivò a destinazione nel Natale del ’44. Il postino del paese lo consegnò al parroco che lo lesse in chiesa ed esclamo: “Fonzio è vivo”. L’emozione improvvisa fece perdere i sensi alla madre d’Alfonso che svenne. La vita dentro il campo continuò sempre così, con l’odore della morte sempre alle costole. Fino a quella sera. L’indomani a lui sarebbe toccato il nastro verso il forno. Continuava a pregare il suo Signore, ma era troppa la paura. Poi una voce: “Ragazzi lo vedete che nei reticolati intorno al campo non passa corrente. Guardate piove eppure neanche una scintilla. Deve essere un corto. Dobbiamo approfittarne”. Era un italiano, elettricista. Condannato a morte come Alfonso. Alfonso notò che aveva ragione. I reticolati non scintillavano come di solito facevano nelle notti di pioggia. La speranza iniziò a diffondersi nella palazzina. L’unica opportunità di rimanere ancora in vita ed uscire da quell’inferno andava sfruttata fino in fondo. Da perdere c’era solo una vita che sicuramente sarebbe finita qualche ora più tardi. Convinti anche i più scettici uscirono dalla palazzina. Attraversarono il campo, cercando di fare meno rumore possibile. L’azione non dava spazio ad errori. Si avvicinarono ai reticolati. Mentre i più facevano la guardia l’elettricista si accertò che la corrente fosse saltata. Aveva ragione, non passava corrente. Iniziarono a scavalcare i reticolati. La speranza di salvezza e la libertà a pochi metri ridiedero energie ai prigionieri. La fame, la sete, la frustrazione, erano sparite. Alfonso però era debole, la malattia alimentare lo aveva fortemente provato. Così i compagni lo alzarono di peso e lo passarono agli altri dall’altra parte del reticolato. Una volta usciti tutti cominciarono a correre sotto la pioggia e si diressero verso il bosco vicino al campo. Entrarono nel bosco. Il freddo pungente e la forte pioggia si rilevarono un ulteriore ostacolo verso la salvezza. Il bosco era molto fitto e l’oscurità non permetteva il proseguo del cammino. La paura di perdersi e di ritrovarsi nella stretta dell’aguzzino era tanta. Così si fermarono. Il terrore riprese il sopravvento degli evasi che nuovamente si rifugiarono nella preghiera. Crisi di pianto toccarono un po’ a tutti. L’incertezza delle ore da venire spaventava a morte quegli uomini. La notte la passarono tutti svegli sotto un’incessante pioggia. Alle prime luci del mattino ripresero il cammino e si diressero verso il fronte. Sentivano chiaramente le cannonate. L’esercito degli alleati era ormai entrato in Germania. La fine della guerra era ormai imminente. Attraversarono il bosco e s’incamminarono seguendo sempre lo squasso dei cannoni. Il rumore era sempre più vicino. Il rumore della morte per loro era la musica della salvezza, della libertà, della vita. Ma prima di tutto ciò c’era d’attraversare un ponte di legno con un soldato tedesco a farne la guardia. I fuggiaschi, gli ex deportati, guardarono il soldato. Lui fece cenno di passare, con la mitraglietta. “Attraversai quel ponte con la schiena ricurva in dentro sicuro di una sventagliata di mitra da parte del soldato tedesco”. Invece il soldato tedesco li fece passare nel suo ponte. “Non fece una mossa, e tutti avevamo la piastrina al collo”. La guerra forse era finita anche per lui. Di sicuro finì per Alfonso ed i suoi compagni di fuga, che riuscirono ad arrivare il fronte degli alleati. Gli anglo-americani, una volta raccolti, li affidarono ad un campo della Croce Rossa. Un mese e mezzo dopo, Fonzio era di nuovo a casa.

martedì 6 settembre 2011

L'abbraccio degli scolari al testimone dell'Orrore

CITTADELLA. Tra le tante lettere che Enrico Vanzini (nella foto) ha ricevuto anche quest'anno dagli alunni delle scuole dove ha raccontato la sua drammatica esperienza di sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau, in occasione della Giornata della Memoria, due hanno particolarmente colpito l'arzillo 89 enne di Santa Croce Bigolina che ha taciuto per 60 anni prima di avere la forza di testimoniare quello che milioni di persone come lui patirono nei lager tedeschi. La 5ª B della scuola elementare di Stroppari ha unito al suo ringraziamento una toccante promessa: «Ci impegneremo per far trionfare la giustizia, la tolleranza, l'amicizia, la bontà e la pace affinché simili violenze non si ripetano mai più». Una dei 18 alunni della maestra Donatella, Sofia, ha poi voluto indirizzare a Vanzini una lettera personale per spiegargli che la sua testimonianza le ha aperto gli occhi sull'autentica «fiducia in Dio», quella fede incrollabile che a Enrico Vanzini ha dato la forza di sopravvivere giorno dopo giorno all'orrore e alla fine è stata premiata dalla liberazione di Dachau da parte degli Americani il 29 aprile del '45.


"La giustizia negata". Storia di Clara Pirani Cardosi

Giuliana, Marisa e Gabriella Cardosi sono le figlie di Clara Pirani Cardosi, ebrea italiana deportata e deceduta ad Auschwitz. Sono le testimoni del destino tragico e beffardo che portò la loro madre nell'inferno del campo di sterminio.

Nel libro "La giustizia negata" (Arterigere Edizioni) raccontano con lucidità e rigore storico la tragedia che investì la loro giovinezza. Clara Pirani venne allontanata dall'insegnamento, perche' ebrea. Fu arrestata nel maggio 1944 , trasferita prima in carcere e poi al campo di Fossoli e da lì ad Auschwitz , dove «la mamma fu assegnata nella fila di quelli che non furono mai piu' rivisti».

Un dolore che le tre sorelle Cardosi si portano dietro per molti anni. Clara Pirani era ebrea sposata ad un gentile, preside di un liceo statale, un matrimonio misto. Un particolare importante questo, perché durante il regime fascista e con le leggi razziali in vigore avrebbe dovuto salvargli la vita. Invece non fu così. Inutili e vani i tentativi del marito al cospetto delle autorità fasciste di far valere quella particolare condizione. Lo zelo di questori, impiegatucoli e ragionieri dell'ipocrisia condannano a morte Clara Pirani.

La morte di una donna, di una madre e di una moglie in un campo di sterminio, però, non bastano. L'ingiustizia nei confronti di Clara Pirani continua il suo corso beffardo nell'Italia pacificata: nelle aule di tribunale non si riconosce la piena responsabilità della Repubblica sociale italiana nello sterminio degli ebrei, ma per quell'insegnante di Gallarate c'è anche la negazione dei diritti acquisiti. Clara Pirani era un'insegnante che aveva lavorato per molti anni, ma la burocrazia statale non le riconosce alcun diritto alla pensione di reversibilità «perché mancavano 7 mesi e 23 giorni al compimento del decennio prescritto».

Nella premessa al libro, Giuliana Cardosi dice: «Se durante la persecuzione razziale noi avevamo confidato nello Stato, illudendoci che le leggi in vigore ci proteggessero e tale errore aveva causato la nostra tragedia, ora, di nuovo sentivamo venir meno in noi la fiducia nelle nascenti istituzioni».

Il tesoro di Priamo


Pioniere della scoperta della civiltà micenea, l'archeologo tedesco Heinrich Schliemann individuò e scavò il sito di Troia.

Profondo lettore di Omero, egli esplorò i luoghi descritti nell'Iliade, e nell'Odissea.

Schliemann era convinto che gli oggetti in oro, argento, ambra trovati nel secondo livello di Troia siano stati associati con il leggendario re Priamo.

Attribuibili a metà del terzo millennio a.C., i gioielli sono, tuttavia, di una data anteriore a quella che gli storici greci danno per la spedizione achea guidata da Agamennone.

Schliemann riuscì ad esportare segretamente il tesoro in Grecia; per questo venne accusato dalla Turchia di esportazione illegale e costretto a pagare una ingente multa; l'archeologo tuttavia pagò una somma maggiore pur di divenirne il proprietario, quindi decise di donare il tesoro alla Germania, dove questo rimase fino alla seconda guerra mondiale.

Il 6 marzo 1945 Adolf Hitler ordinò che fosse nascosto nelle miniere di sale di Helmstedt, in previsione della sconfitta e per evitare che cadesse in mano ai sovietici. L'ordine di Hitler non venne eseguito e il tesoro finì a Mosca.

Negli anni successivi i russi smentirono che questo si trovasse nelle loro mani e così scoppiarono infinite polemiche. La prima conferma ufficiale della presenza del tesoro in Russia si ebbe nel 1993 da parte di Boris Eltsin che, ospite ad Atene presso il capo di Stato greco, dichiarò che il tesoro si trovava a Mosca, al Museo Puskin.

Nel 1994 una commissione di esperti di diverse nazioni confermò che si trattasse proprio dei ritrovamenti di Schliemann a Troia.

Attualmente quattro nazioni si contendono quel tesoro: la Turchia (dove è stato rinvenuto), la Grecia (erede della tradizione omerica), la Germania (a cui fu donato dall'archeologo) e la Russia (dove si trova attualmente).

Questo tesoro era stato trovato alla profondità di 10 metri in un recipiente di rame largo 1 metro e alto 45cm.

domenica 4 settembre 2011

RAKE HANS

Hans Rake, conosciuta anche come Hilde Coppi (Berlino, 30 maggio 1909 – Berlino, 5 agosto 1943), è stata una antifascista tedesca, moglie di Hans Coppi, appartenente col marito al gruppo di resistenza Schulze-Boysen-Harnack, giustiziata dai nazisti.

Biografia

Rake Hilde era impiegata amministrativa presso la Cassa di previdenza sociale dei dipendenti del Reich a Berlino, quando nel 1935 conobbe con Hans Coppi, un giovane militante comunista che poco tempo prima era stato rilasciato dal campo di concentramento dove era stato rinchiuso per attività antinazista. Hilde aveva tuttavia avuto contatti con membri del Partito Comunista di Germania già dal 1933. Attorno al 1940 si unì con Hans al gruppo di resistenza di Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack, e prese parte ad attività come l'affissione di manifesti e la distribuzione di volantini politici.

Hans e Hilde si sposarono il 14 giugno 1941. Ricercati dalla Gestapo, entrarono subito in clandestinità. I due si offrirono di fornire informazioni per radio all'Unione Sovietica dopo l'invasione dell'URSS da parte della Germania nazista (giugno 1941). L'anno dopo i Coppi prestarono aiuto a un agente segreto sovietico che era stato paracadutato in Germania. I coniugi Coppi vennero arrestati dalla Gestapo il 12 settembre 1942. Hilde Coppi era allora incinta del figlio Hans, che nascerà il 27 novembre 1942 nel carcere femminile di via Barnim a Berlino e diverrà un noto storico. Hans venne condannato a morte dalla corte marziale del Terzo Reich il 19 dicembre 1942 e la sentenza venne eseguita tre giorni dopo nel carcere Plötzensee di Berlino; Hilde venne condannato a morte il 20 gennaio successivo e l'esecuzione, dopo che Hitler ebbe respinto la richiesta di grazia, venne ritardata fino ai primi di agosto per permettere l'allattamento al seno del bambino. Hilde venne pertanto ghigliottinata il 5 agosto 1943 nel carcere Plötzensee.

Riconoscimenti

•Il liceo di Karlshorst è intitolato a Hilde e Hans Coppi
•Peter Weiss parla dei coniugi Coppi nel romanzo autobiografico "Ästhetik des Widerstands" (L'estetica della resistenza)
•Un francobollo commemorativo per i coniugi Coppi emesso dalle Poste della DDR nel 1961

Fritz Pfeffer

Fritz Pfeffer nasce il 30 aprile 1889 a Giessen (Germania). I suoi genitori sono ebrei e hanno un negozio di abbigliamento nel centro della città. Dopo il liceo, Fritz studia a Berlino per diventare dentista, ed è qui che successivamente aprirà lo studio dentistico. Nel 1921 sposò Vera Bythiner che era molto più giovane di lui. Il 3 aprile 1927, nasce il figlio Werner. Il matrimonio di Fritz e Vera fallisce ed i due divorziano nel 1933. Werner rimane con il padre a cui era stato affidato.

Dopo il divorzio Fritz Pfeffer inizia a frequentare Charlotte Kaletta. A causa delle leggi razziali di Norimberga, emanate nel 1935 e che proibiscono i matrimoni tra ebrei e non ebrei, non possono sposarsi. Fritz Pfeffer e Charlotte Kaletta emigrano nei Paesi Bassi dopo la Notte dei Cristalli. Werner verrà mandato in Inghilterra. Fritz e Charlotte si sentono subito a casa loro nei Paesi Bassi.

Werner va in Inghilterra
 
Dopo la Notte dei Cristalli, Fritz fa in modo che Werner ottenga un posto sulla nave verso l’Inghilterra. L’Inghilterra accetta ancora piccoli nuclei di profughi ebrei, soprattutto bambini. Werner probabilmente apparteneva al gruppo di 350 profughi che, partiti dal nord della Germania, giunsero ad Harwich il 15 Dicembre 1938.
 
L’ottavo clandestino
 
Il 16 novembre 1942 Fritz Pfeffer entra in clandestinità nascondendosi nell’Alloggio segreto. Pfeffer è un dentista ebreo di Amsterdam, conoscente dei Frank, e tra i suoi pazienti vi è Miep Gies. Un giorno egli le chiede se può indicargli un nascondiglio. Miep si reca da Otto Frank e gli pone la stessa domanda. Dopo essersi consultato con gli altri clandestini e con Johannes Kleiman e Victor Kugler, Otto decide che è possibile accogliere un ottavo inquilino.
 
Miep come corriere
 
Miep Gies funge da corriere tra Fritz e Charlotte. "Mi incontravo una volta a settimana con Charlotte Kaletta, una donna bionda e affascinante, di un anno più grande di me. Le consegnavo lunghe lettere, e lei mi dava lettere, libri, pacchetti e gli strumenti da dentista che lui aveva chiesto. (...) Ho finto di non avere idea di dove suo marito fosse andato a nascondersi, ma Charlotte era una donna discreta e sensibile. Sapeva che era meglio non fare domande e non mi ha mai chiesto niente. Ci scambiavamo solo lettere e pacchi, ogni settimana.”

Malvina Burstein (1913-2010)


WASHINGTON, USA (27 novembre 2010) - E' morta Malvina Burstein, salvatrice di ebrei. Durante l'invasione nazista si trovava a Budapest, dove riuscì ad ottenere 1500 permessi di lavoro per non ebrei fingendosi la segretaria non ebrea di un finto industriale non ebreo, salvando così la vita ad altrettanti ebrei. (Come possa un permesso di lavoro per non ebrei a salvare la vita a un ebreo lo ignoriamo).

Dopo la guerra si trasferì negli USA, dove passò il resto della sua vita a dipingere quadri raffiguranti rabbini, o almeno è quello che presumiamo dalla foto. A quanto pare, la maggior parte degli ebrei da lei aiutati è andata a vivere in Israele, ma lei da loro non ha ricevuto nemmeno una telefonata!

L'Ungheria assolve Sandor Kepiro


Il criminale nazista è stato assolto dal tribunale di Budapest
per l'eccidio di 1200 persone nella Serbia del 1942
(19/07/2011)

Sandor Kepiro oggi ha 97 anni, è uno degli ultimi criminali di guerra nazisti ancora viventi, e fino a poco tempo in cima alla lista dei ricercati dal Centro Simon Wiesenthal. Due giorni fa il tribunale di Budapest lo ha assolto dall’accusa di complicità nell’eccidio che nel 1942 in Serbia provocò la morte di 1200 civili fra serbi, ebrei e rom. Secondo le perizie degli storici interpellati dal tribunale, i documenti portati dall’accusa erano incompleti o non attendibili a causa di una pessima traduzione.

Kepiro è vissuto in Argentina per quasi cinquant’anni (dal 1946 al 1996) e nel 2006 è stato rintracciato a Budapest da Efraim Zuroff del Centro Wiesenthal.

La notizia dell’assoluzione si va ad aggiungere a quelle che negli ultimi tempi testimoniano nel paese una decisa svolta ultranazionalista. Da un anno infatti è governato da una maggioranza di estrema estrema destra che occupa i due terzi del Parlamento. Presidente di turno dell’Unione europea, il primo ministro Viktor Orban ha dichiarato di recente di non credere affatto nell’Europa, ma solo nell’Ungheria. Nel 2012 entrerà inoltre in vigore il nuovo testo della Costituzione in cui lo Stato verrà definito non più come una Repubblica ma come una nazione politica che trova le sue radici nel cristianesimo e nell’etnia magiara.

La svolta ultranazionalista dell’Ungheria sta avendo pesanti ripercussioni anche sul trattamento e la considerazione delle minoranze, a cominciare dai rom.

Un episodio significativo della vita di Giovanni Paolo II

Quando Karol Wojtyla rifiutò di battezzare Shachne Berger. Ebreo polacco rimasto orfano in seguito all’Olocausto, per rispettare la sua identità e il suo credo religioso


La storia di Shachne Berger, il bambino che Wojtyla non volle battezzare per rispetto della sua identità religiosa


Era il 1946 quando Karol Wojtyla rifiutò di battezzare Shachne Berger, Ebreo polacco rimasto orfano in seguito all’Olocausto, per rispettare la sua identità e il suo credo religioso.

La storia del bambino ebreo affidato dai genitori ad una famiglia cattolica per salvarlo dall’orrore nazista e che il futuro Giovanni Paolo II non volle battezzare per rispettare la sua identità ebraica è emersa, dopo anni di silenzio, grazie al racconto del protagonista al quotidiano «Il Corriere della Sera».

La vicenda di Berger iniziò a Cracovia nell’autunno del 1942, quando aveva appena due anni e i suoi genitori, Helen e Moses Hiller, decisero di affidarlo ad una coppia cattolica senza figli che viveva nella zona tedesca della cittadina di Dombrowa.

«Si chiamavano Yachowitch ed erano amici intimi dei miei», ha raccontato Berger.

Dopo l’irruzione nazista del 28 ottobre nel ghetto di Cracovia, gli Hiller decisero di agire. «Il 15 novembre mamma era riuscita a portarmi fuori dal ghetto e ad affidarmi ai suoi amici Cristiani, insieme a due grandi buste» ha ricordato Berger. «La prima conteneva tutti i suoi oggetti di valore, l’altra tre lettere».

La prima era indirizzata ai signori Yachowitch, ai quali veniva affidato il bambino, «istruendoli di educarlo come Ebreo e di restituirlo al suo popolo in caso di morte dei genitori», secondo quanto riportato dal quotidiano.

«La seconda lettera era indirizzata allo stesso Shachne: gli spiegava che era stato un amore profondo a indurre mamma e papà a metterlo in salvo presso estranei e gli rivelava le sue origini, augurandosi che crescesse orgoglioso di essere Ebreo».

La terza conteneva il testamento di Reizel Wurtzel, madre di Helen, indirizzato alla cognata Jenny Berger a Washington.

«Nostro nipote Shachne Hiller, nato il 18 del mese di Av (il penultimo mese del calendario ebraico, nota del redattore), il 22 agosto del 1940, è stato affidato a brave persone» si legge nella terza lettera. «Se nessuno di noi farà ritorno, ti prego di prenderlo con te ed educarlo rettamente. Queste sono le mie ultime volontà».

Prima di congedarsi dagli Yachowitch, Helen diede loro il nome e l’indirizzo di parenti (gli Aaron e i Berger) che abitavano a Montreal e a Washington. «Se non faremo ritorno» si legge, «quando sarà finita questa follia spedisci loro queste lettere».

Le tristi previsioni della madre di Shachne si avverarono presto: nel marzo 1943 il ghetto di Cracovia venne rapidamente liquidato e i genitori del bambino vennero deportati ad Auschwitz, da cui non fecero più ritorno.

Il bambino si era salvato, ma non era ancora fuori pericolo: «Dal 1942 al 1945 eravamo costantemente in fuga, da una casa all’altra e da una città a un nuovo villaggio» ha ricordato. «Molti Polacchi ostili e antisemiti sospettavano, dal mio aspetto, che fossi Ebreo e se ci avessero denunciati i miei genitori adottivi rischiavano la morte».

Nel frattempo, gli Yachowitch si erano profondamente affezionati a Shachne. Ben presto la «madre adottiva» dimenticò le promesse fatte ad Helen Hiller e volle adottare ufficialmente il bambino e farne un buon Cattolico. Volendo farlo battezzare, si recò da un giovane sacerdote della sua parrocchia, rivelandogli la storia del piccolo.

Di fronte alla volontà della donna, il sacerdote le chiese quale fosse il desiderio dei veri genitori del bambino quando lo avevano affidato a loro. Quando la donna rivelò il contenuto del testamento, il religioso si rifiutò di battezzare Shachne. Il nome del sacerdote era Karol Wojtyla.

Grazie al futuro Papa (Giovanni Paolo II), Shachne poté partire per il Nord America, dove l’aspettavano i parenti materni, ma riuscì ad essere assegnato ai Berger solo nel 1950.

«Erano passati più di otto anni da quando, nel ghetto di Cracovia, mia nonna aveva scritto il testamento» ha affermato. «Alla fine il suo desiderio si era realizzato».

Nell’ottobre 1978, quando Shachne era ormai diventato un Ebreo osservante, si era sposato ed era diventato padre di due gemelli, la signora Yachowitch, con cui era rimasto in rapporti epistolari, gli raccontò tutta la verità: «Per la prima volta, mi rivelava che aveva cercato di battezzarmi ed educarmi come Cattolico. Ma che era stata fermata da un giovane prete, futuro Cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla, da poco eletto Papa».

«Le vie di Dio sono misteriose, meravigliose, sconosciute agli uomini» ha detto il rabbino capo di Bluzhov, rabbi Israel Spira, dopo aver appreso dalla professoressa Yaffa Eliach la storia di Shachne. Forse è stato il merito di aver salvato quell’anima ebrea che ha condotto Karol Wojtyla ad essere Papa. È una storia che deve essere raccontata.

sabato 3 settembre 2011

Gli U-Boot nazisti e la Neuschwabenland

Secondo molte voci una base nazista in Antartide sarebbe sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale e ospiterebbe, forse ancor oggi, i discendenti dei gerarchi e dei criminali di guerra tedeschi: ma è davvero esistita la "Neuschwabenland"?



Nonostante la Seconda Guerra Mondiale sia finita da più di sessant'anni, i discorsi sul Nazismo e su Hitler non hanno mai perso d'interesse nell'opinione pubblica. Ancor oggi non esiste praticamente tv che non abbia nei suoi palinsesti documentari che trattano del tema della Seconda Guerra Mondiale e dei misteri ad essa connessi, dall'Olocausto alla salita al potere di Adolf Hitler nel 1933 e alla sua palese ossessione per l'esoterismo. E ancora i misteri della fine del regime nazista, dalle armi segrete che avrebbero potuto cambiare le sorti della guerra fino alla presunta morte dello stesso Fürher, sono alla base di congetture assai variegate, da quelle di tipo politico a quelle più prettamente fantascientifiche. Sono molti infatti gli ufologi che parlano apertamente dei dischi volanti nazisti: velivoli a propulsione magnetica denominati Haunebu, o anche chiamati Vril o V-7, in grado di volare a migliaia di km orari e capaci perfino di volo spaziale. Ma sebbene affascinanti, purtroppo gli Haunebu non possono sostenere le prove storiche che gli ufologi, ignoranti di aviazione, dimenticano di addurre. La realtà cruda è che Hitler e i suoi seguaci, per quanto geniali nell'arte ingegneristica, non ebbero mai le capacità tecnologiche di costruire oggetti discoidali simili agli Ufo odierni. Gli studi scientifici invece puntavano su invenzioni attuali come il motore a reazione, i missili e l'ala a freccia, altro che dischi volanti! E a queste scoperte i nazisti diedero la massima importanza, come testimoniano i progetti reali scoperti dagli Alleati a guerra finita, nel 1945. Anzi, fu proprio il saccheggio di aerei, sommergibili, missili e relativi scienziati progettatori da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica (con i nomi in codice di Operazione Paperclip per gli americani e Ovaskim per i russi) a porre le basi tanto per il Programma Spaziale tanto per la Guerra Fredda e le invenzioni ad essa connesse, prima fra tutte Internet.

Quindi, l'ipotesi che i Nazisti avessero avuto contatti con gli abitanti della Terra Cava oppure con extraterrestri, i mitici Foo-Fighters, è assolutamente inattendibile: nessun disco volante, nessun prototipo segreto di tecnologia aliena, nessun Ufo con le svastiche… Ma altri temi legati alle realizzazioni segrete naziste potrebbero essere veritieri. E' il caso della Bomba Atomica tedesca, che secondo alcuni testimoni sarebbe stata sperimentata in due occasioni, ma senza giungere allo stadio operativo; oppure, è il caso della Base Antartica 211, chiamata a volte Neuschwabenland, a volte Neuberlin. Perché, a nostro parere, tali scoperte possono essere verosimili? Sulla Bomba A tedesca si discute ancora; mentre per la base antartica, forse oggi disponiamo di sufficienti prove per capire quanto di vero ci può essere in questa teoria. Una teoria plausibile, per le prove che porteremo a sostegno.

Ma innanzitutto, facciamo un salto nel 1938 quando, in un clima di tensione generalizzata per l'annessione tedesca della regione dei Sudeti, il governo nazista organizzò una spedizione scientifica in Antartide. La zona prescelta, per scopi geografici ma prima ancora militari, fu la Terra della Regina Maud, un'area scoperta nel 1931 dai norvegesi ma mai occupata o studiata a fondo. Una buona occasione per rivendicare politicamente quel territorio e, a nostro parere utilizzarlo per scopi militari. Comunque sia, per non acuire le tensioni internazionali i tedeschi prepararono una spedizione civile: a bordo del mercantile modificato Schwabenland, comandato dal capitano Alfred Ritscher e con la collaborazione della compagnia di bandiera Lufthansa, centinaia di uomini tra biologi, cartografi, geologi, ingegneri e idrologi della Società Tedesca per la Ricerca Polare, con l'ausilio di due idrovolanti, partirono alla volta del continente antartico. In teoria a bordo avrebbe dovuto esserci anche l'esploratore e conquistatore del Polo Sud Richard Byrd, ma poco prima della partenza l'americano aveva declinato l'offerta. Il via si ebbe il 17 dicembre 1938: i tedeschi toccarono la banchisa polare il 20 gennaio 1939. I due idrovolanti della missione effettuarono missioni di esplorazione, coprendo tra i 300mila e i 600mila kmq, scattando 11mila fotografie; ci fu un generale beneficio, in quanto la missione consentì un notevole salto di qualità nella precisione delle mappe geografiche e delle misurazioni magnetiche del polo sud. I tedeschi effettuarono poi scoperte sorprendenti: aree libere dai ghiacci per la presenza di sorgenti calde e attività idrogeologica, scoperta dei venti antartici ad alta quota, analisi degli uccelli marini che si spingevano, inspiegabilmente, per oltre cento km all'interno del continente per nidificare. Il tutto in una regione che, come abbiamo visto qui, viene considerata dagli antichi la vera sede della mitica Atlantide… insomma, c'era di che stupirsi dalle scoperte tedesche, quasi che il Polo Sud non fosse stato quell'inferno di freddo e di ghiaccio che tutti si aspettavano.

La missione della Schwabenland terminò a metà febbraio '39, quando l'estate antartica stava finendo. Ma l'interesse nazista verso quel territorio che in onore della nave venne ribattezzato Neuschwabenland non cessò, anzi crebbe a dismisura. Hitler ordinò nel 1940 la costruzione di installazioni di appoggio per le operazioni dei sottomarini da guerra U-Boot nella regione delle Montagne di Muhlig-Hoffman, sempre nella Neuschwabenland. Queste installazioni di supporto forse erano dei semplici bacini di rifornimento di carburante e siluri: comunque sia, denota una crescente colonizzazione nazista dell'area.

Voci sostengono che i tedeschi scoprirono sotto i ghiacci un canale sottomarino, una vera spaccatura che tagliava in due il continente antartico consentendo ai sommergibili di utilizzare rotte alternative in grado di collegare il Sudamerica alla Nuova Zelanda e quindi di raggiungere il Giappone senza incappare nelle cacciatorpediniere alleate. Il fatto potrebbe essere plausibile, perché per tutta la guerra vi fu un collegamento stabile via sottomarini tra la Germania e il Giappone, mai interrotto nonostante gli sforzi di americani e inglesi. Sempre le voci ben informate, ma qua siamo nel campo delle ipotesi, sostengono che questo canale, che taglia in due il continente antartico, in più punti emerge oltre a superficie del mare, costituendo in pratica un gigantesco sistema di grotte sotto la crosta ghiacciata. Qualcuno azzarda persino le dimensioni della più grande, che si estenderebbe per 50 km al di sotto della calotta polare e che al suo interno custodirebbe un lago di acqua allo stato liquido. Qui i nazisti avrebero costruito la più impenetrabile base in loro possesso, la straordinaria Base 211 o "Nuova Berlino". Una vera città sotto il ghiaccio, alimentata in parte con l'energia geotermica, avrebbe costituito l'ultimo, estremo baluardo nazista contro l'invasione alleata… Le testimonianze indicano che la Base 211 sarebbe stata iniziata nel 1942 mediante il trasporto di viveri e materiali ad opera di speciali U-Boot capitanati da ufficiali avvezzi alla navigazione polare, come quelli che prestarono servizio al largo della Norvegia. Questi uomini, utilizzando come punto di appoggio l'Argentina, avrebbero costruito la base in due anni, al punto che nel 1944 era in atto un graduale invio di materiale riservato tramite finanziamenti (effettivamente stanziati) da parte delle potenti SS. Perché Himmler e i suoi scagnozzi avrebbero sprecato tanto denaro per inviare materiale nel nulla antartico? Evidentemente, qualcosa ci doveva essere… Secondo alcuni studiosi di misteri, tra gli oggetti che Himmler fece trasportare a Neuberlin ci fu l'originale della Heilige Lance, la Lancia di Longino. E tra gli oggetti che dovrebbero essere ancora presenti, vi sono i tanti tesori d'arte trafugati dai soldati tedeschi durante l'invasione di mezza Europa, tra cui la celebre Sala d'Ambra di San Pietroburgo, mai ritrovata. Ma perché darsi tanta pena per questo trasferimento? Cosa nasconde in realtà il ghiaccio antartico? In teoria, Nuova Berlino rappresenterebbe il senso di quel Reich millenario teorizzato da Hitler e mai realizzato. Un regno tra fuoco e ghiaccio, molto wagneriano e valchiriesco, che avrebbe ospitato i veri rappresentanti della razza ariana, protetti dal mondo in attesa di riconquistarlo. Un'idea in linea con le folli teorie hitleriane e perfettamente in linea con il nichilismo nazista, a metà tra il sadismo più atroce e il masochismo più deleterio. La Base 211 nella Neuschwabenland avrebbe potuto essere anche l'ultimo rifugio per tanti gerarchi nazisti sfuggiti alla cattura al termine della guerra e tra questi il loro capo, Adolf Hitler. Le teorie sulla sua morte sono almeno tre e nessuna di esse è convincente: la probabilità che l'ideatore del nazismo (e di tanti suoi maestri occulti che non compaiono nei libri di storia) possa essere sopravvissuto all'assalto sovietico al suo bunker a Berlino sono molte, basti pensare quanti sono i gerarchi scappati in Argentina con in beneplacito degli Alleati. Ma il concetto di una base nazista che abbia ospitato un Hitler redivivo e che sia ancor oggi esistente in Antartide contrasta con l'idea che abbiamo oggi del mondo completamente esplorato: e se così non fosse, verrebbe da chiedersi perché nessuno si sia preso la briga di stanare questi nazisti superstiti, ammesso che siano esistiti. Ma la realtà è che forse tale operazione sia avvenuta realmente sotto mentite spoglie…

Ma prima di narrare le gesta dell'Operazione High Jump, dobbiamo menzionare il caso del centinaio di U-Boot scomparsi senza lasciare traccia e di quanto raccontano nel loro libro "Oltremare Sud" gli storici Juan Salinas e Carlos De Napoli. Pubblicato lo scorso ottobre, il libro dei due argentini squarcia il velo su un convoglio di sottomarini partito il 3 maggio 1945 dalla Norvegia e diretto in Argentina. Con a bordo oltre cinquanta gerarchi nazisti, il convoglio, con il tacito consenso dell'Ammiragliato britannico, avrebbe raggiunto l'Argentina con l'appoggio della locale marina, dopo una battaglia che costò la perdita di cinque navi e 400 marinai. Perché però gli interrogatori dei marinai tedeschi furono falsificati dall'intelligence americana e messi sotto la dicitura Top Secret? Qualcosa di strano successe davvero, nelle acque dell'Atlantico meridionale, in quel maggio 1945. Se Hitler si era suicidato il 30 aprile, se il 3 maggio il convoglio con a bordo i 50 gerarchi si era imbarcato per la Norvegia e se la guerra era finita l'8 maggio con la resa dei tedeschi, perché il sottomarino U-Boot Type VII C denominato U-977, al comando del capitano Heinz Schaeffer, si immerse l'alba del 10 maggio da Kristiansand, in Norvegia, per riemergere in Argentina il 17 agosto? Una navigazione tanto lunga, di 104 giorni di cui 66 in immersione, per consegnarsi in pieno giorno nel porto di Buenos Aires ai militari argentini era plausibile? I marinai dell'U-977 erano pazzi, oppure…? Il 10 luglio precedente, sempre in Argentina, si era arreso il sommergibile Type IX C/40 denominato U-530, capitanato dal cmd. Otto Wermuth. Un bel po' di tempo, per un mezzo che ufficialmente era in navigazione al largo di Long Island, dunque nei pressi di New York… Sempre ufficialmente, l'ultimo sommergibile tedesco ad arrendersi fu l'U-307, alle isole Spitzbergen, il 4 settembre. Perché tanto ritardo? Come detto, il numero di sottomarini scomparsi senza lasciare traccia, senza essere stati distrutti dagli Alleati, affondati o demoliti, è di circa cento.

Ricordiamo inoltre che la Kriegsmarine, la marina tedesca, mise in servizio nel 1944 i sottomarini classe Type XXI, che rappresentano una delle meraviglie della tecnica tedesca nonché i progenitori di tutti i sottomarini attuali. Veri capolavori d'ingegneria, i Type XXI (che furono consegnati in 119 unità) furono testati alla profondità di 270 metri, ben oltre le capacità degli attuali sommergibili nucleari. Veloci e capaci di sfuggire ai sonar, avrebbero potuto cambiare le sorti della guerra… Se solo fossero stati costruiti in un numero congruo di unità. Ma la Germania, nel 1945, non aveva né manodopera, né carburante, né equipaggi. Un paese allo stremo, distrutto dalla follia dei suoi dittatori… A Hitler e alla sua cricca restava soltanto la Neuschwabenland e forse fu quella la destinazione dei vari U-530, U-977 e U-307, per non parlare del centinaio di mezzi scampati alla distruzione.

Fu per questo, forse, che il 2 dicembre 1946 scattò la più grande esercitazione navale mai compiuta in Antartide. L'Operazione High Jump, organizzata dalla U.S. Navy americana, era in teoria una missione esplorativa e in effetti il comando fu affidato simbolicamente all'ammiraglio nonché esploratore Richard Byrd, lo stesso che avrebbe dovuto partecipare alla missione tedesca del 1938. Ma in realtà il vero capo fu l'ammiraglio Richard Cruzen che si mise alla testa di una task force composta dalla portaerei Philippine Sea, da due cacciatorpediniere (le USS Brownsen e USS Henderson), due rompighiaccio (le USCGC Burton Island e USCGC Northwind), quattro navi da supporto logistico (le USS Yankee, USS Canisted, USS Merrick e USS Capacan), una nave per comunicazioni (la USS Mount Olympus), un sommergibile (l'USS Sennet di classe Balao) e due navi per appoggio idrovolanti (le USS Currituck e USS Pine Island). In tutto, dodici idrovolanti, sei elicotteri e 4700 marines… Non c'è che dire, un bel gruppetto di boy scout! La missione avrebbe dovuto durare 18 mesi, invece ebbe termine dopo sole tre settimane, durante le quali gli aerei esplorarono un milione e trecentomila kmq di Neuschwabenland. Durante la missione un idrovolante precipitò, causando la morte di quattro uomini; anche due elicotteri andarono perduti, senza però causare vittime tra gli equipaggi. Alla fine di tutto, i dubbi e le teorie sulla Base 211 rimangono, così come l'Operazione High Jump rimane a tutt'oggi inspiegabile. Hitler si salvò a bordo dell'U-977? Si diresse in Argentina? In Giappone (due tavolette d'oro datate 21 maggio 1945 e firmate dallo stesso Füher furono rinvenute nel 1984 presso il monastero buddhista di Kyosan, nel Giappone centrale)? In Polinesia? Oppure nella famigerata Nuova Berlino? I fanatici delle teorie complottiste, gli stessi che sostengono l'ipotesi degli Haunebu, affermano che i nazisti controllano segretamente il mondo da qui. I dischi volanti e le luci che si vedono ogni tanto nei cieli sarebbero i mezzi ipertecnologici dei nazisti che vivono in Antartide… Fantasie e anche più, come abbiamo visto. Ma il dubbio dell'esistenza di quella fantomatica base segreta sotto i ghiacci della Neuschwabenland, rimane.

LIBRO DI WANDA POLTAWSKA, UNA DELLE ULTIME REDUCI VIVENTI DEGLI ESPERIMENTI DEI MEDICI NAZISTI

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono nella città di Auschwitz, scoprendone il campo di concentramento; ne abbatterono le mura e liberarono i superstiti che vi erano rimasti, circa 7.000. Quella data viene ora adottata per celebrare il ‘Giorno della memoria”, per ricordare la fine della Shoah – cioè lo sterminio del popolo ebraico, a causa del quale si contano circa sei milioni di vittime, oltre agli uomini torturati e perseguitati – e conseguentemente la fine delle leggi razziali. In questa giornata, tra le molteplici iniziative sorte in tutto il mondo, è stato presentato a Roma il libro “E ho paura dei miei sogni” della professoressa Wanda Poltawska, polacca, laureata in Medicina, membro della Pontificia Accademia “Pro Vita” e del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Wanda Poltawska, che per motivi di salute è stata sostituita alla presentazione dalla figlia Ania, fu deportata nel campo di concentramento di Ravensbruck all’età di venti anni, a causa delle sue attività nella resistenza polacca. Il suo non è il racconto di una persona matura, i cui ricordi sono annebbiati, ma quello di una persona giovane: Wanda, infatti, iniziò a scrivere le sue memorie non appena uscita dal campo di concentramento, dove rimase circa quattro anni. Una necessità impellente, quella di scrivere, poiché il ricordo del campo, durante la veglia e durante il sonno, non le dava pace. Riuscì finalmente a dormire senza incubi solo una volta terminato il suo ‘diario’.
In quei quattro anni Wanda, come le altre donne che erano nel campo con lei, furono sottoposte a trattamenti ed esperimenti pseudo-medici, che miravano a mutilare le persone. Tra loro, per richiamare il loro ruolo di cavie, usavano chiamarsi ‘coniglietti’ (ed un coniglio, infatti, campeggia sulla copertina del libro). “In un modo o nell’altro non ci aspettava che la morte”, scrive la Poltawska, che racconta, però, come la poesia, la bellezza del paesaggio - il cielo che potevano osservare durante l’appello giornaliero - e la solidarietà che nacque tra le deportate, erano gli unici motivi validi per riuscire a sopravvivere all’orrore, ed arriva a descrivere il ‘campo’ come una scuola di vita. Proprio in condizioni disumane come la sua, infatti, secondo Wanda, si arriva a capire chi si vuole diventare e quale strada si vuole seguire. “Poiché avevamo ormai la certezza di non tornare più, facemmo una cosa strana, scrivemmo il testamento legale”: in questo testamento, che fu ricostruito a memoria, poiché l’originale non fu più trovato, si predisponeva la fondazione di un centro, che effettivamente oggi sorge a Ravensbruck, e dove i giovani hanno la possibilità di incontrarsi e non dimenticare. Come ricorda a Fides la figlia Ania, che ha letto alcuni brani del libro segnalati e scelti dalla madre, “fino alla stesura del libro mia madre non ha mai parlato più di tanto dell’esperienza del campo, sono riuscita a sapere molti dettagli proprio dalla lettura del libro e ad avvicinarmi a questa esperienza”. Ed ha aggiunto: “Ora mia madre ne parla con più serenità, anche se molti particolari continuano ancora ad infastidirla, come le canzoni di Natale che le rimandano il pensiero a quei momenti per nulla felici”.

La stretta vicinanza con la morte e il dolore ha fatto di Wanda Poltawska una paladina della vita, come mostra il suo impegno costante contro l’aborto; una donna di grande fede e di vicinanza alla Chiesa, come testimonia la profonda amicizia con Giovanni Paolo II. La consapevolezza di quelle atrocità non deve estinguersi, e perché quell’orrore non venga dimenticato o addirittura scandalosamente negato, occorre trasferirne la memoria alle giovani generazioni. In questo messaggio è racchiuso lo scopo di questo volume, già tradotto anche in inglese e tedesco.

Luigi Bozzato

L'incredibile storia di Luigi Bozzato, sopravvissuto a ben 4 campi di concentramento e di sterminio


Luigi Bozzato nel 1947


Luigi Bozzato nel 2002

Luigi Bozzato è nato a Piove di Sacco il 5.5.1923 e trascorre la sua giovinezza in pieno periodo fascista. Giunto il momento del servizio militare, viene mandato come soldato a combattere contro gli Jugoslavi e a svolgere soprattutto il ruolo di autista di camion nel trasporto di materiali e persone da un luogo all'altro delle operazioni. Viene anche ferito durante un'imboscata e ricoverato per diverso tempo in un ospedale militare.

Le cose cambiano dopo l'8 settembre del 1943, data della divulgazione della firma dell'armistizio con gli Alleati. Egli comprende subito che in quel clima di incertezza era necessario mettersi al sicuro con i propri mezzi e così, con pochi compagni inizia una rocambolesca fuga verso il confine di Trieste, che riesce ad attraversare con l'aiuto di alcuni partigiani jugoslavi ( si finge fidanzato di una ragazza che lavorava in una fabbrica). Giunto di nascosto al paese, viene invitato ad arruolarsi nell'esercito della Repubblica di Salò, al servizio dei Tedeschi, ma l'esperienza che aveva vissuto nei Balcani gli fa comprendere molte cose e non esita ad unirsi ad una compagnia di partigiani italiani che operava nel territorio di Udine. Anche in queste azioni di sabotaggio a danno dei tedeschi rischia la vita più volte, in particolare quando si trova a pochi metri da una guardia tedesca mentre sta aprendosi il varco nel filo spinato per avvicinarsi ad un ponte che assieme ai suoi compagni deve far saltare. In seguito a questa operazione e alla soffiata di una ragazza che lavorava presso la caserma dei Tedeschi, viene braccato assieme ai suoi compagni e portato in prigione. Molti dei suoi amici vengono impiccati e quando si accorge di questo, decide di morire da soldato, sopraffacendo la prima guardia che gli fosse venuta accanto. Il momento non tardò a giungere, ma mentre stava avventandosi su di lei, una mano lo trattenne posandosi sulla spalla: si girò, ma non vide alcuno. Ancora oggi Luigi non sa spiegarsi questo incredibile episodio, che collega ad una volontà soprannaturale, all'opera di S. Antonio.

A metà agosto 1944 Luigi viene spedito in Germania in una tradotta piena zeppa di persone e arriva dopo giorni e giorni d'inferno nei pressi di Monaco e da lì internato nel campo di DACHAU, all'epoca pieno di migliaia e migliaia di deportati, destinati a morire con il lavoro e la fame. L'industria tedesca aveva bisogno di operai da impiegare nelle fabbriche belliche e nelle industrie annesse e sfruttava l'abbondante moltitudine dei prigionieri. Il lavoro è durissimo e il cibo del tutto insufficiente, per cui nel giro di poco tempo il suo peso corporeo si riduce pericolosamente. A Dachau si ammala di pleurite e per qualche giorno riesce a farla franca nascondendosi tra i cadaveri della sua baracca, ma un bel giorno accade qualcosa di nuovo. Mentre se ne sta nascosto, avverte uno strano silenzio nel campo e pensa che siano finalmente giunti gli alleati a liberarli !!!

La forca

Un appello in pieno inverno a Mauthausen

Purtroppo non è così e se ne accorge appena esce dalla baracca, quando una S.S. lo afferra  e a suon di bastonate, calci e imprecazioni lo porta davanti alle migliaia di internati che da ore se ne stavano in piedi durante l'appello generale. Si sa che questo tipo di infrazioni vengono punite con la forca o con un colpo di pistola... Con lo stato d'animo che ognuno di noi può facilmente immaginare, Luigi  crede di percorre gli ultimi metri della sua esistenza terrena  e invece, ancora una volta, la fortuna è dalla sua parte: la pena capitale è tramutata  in 25 frustate. Viene legato ad un apposito attrezzo di legno  con cinghie di cuoio e deve contare egli stesso le frustate. Ma sono frustate che penetrano nella carne, visto che la cima del nerbo termina con punte di piombo. Giunto al numero 7, sviene dal dolore  e si risveglia dopo qualche giorno ( nemmeno lui può immaginare quanto tempo sia rimasto in quelle terribili condizioni) con le vesti incarnite nelle ferite  ed ogni più piccolo movimento gli provoca un dolore acutissimo. Non dimentichiamo che già prima era ammalato e debilitato.

Su una struttura simile a questa fu frustato Luigi
 
L'ombra dell'inferno non è mai stata così vicina e Luigi ne è pienamente cosciente, tanto che incontrando l'amico don Fortin gli affida l'incarico di portare ai genitori le sue ultime parole di affetto. Non si sa bene come abbia fatto a superare una situazione così difficile. Qualche giorno dopo una SS gli comunica che sarebbe partito con un trasporto; Luigi si vede già al crematorio. Ancora una volta, però, il destino non era ancora giunto al capolinea e Luigi è trasferito nel lager di Magdeburgo e destinato a disinnescare le cosiddette bombe ritardatarie, che piovevano sulla Germania dai bombardieri americani, inglesi, russi. Vive esperienze inenarrabili e poco comprensibili a noi che non abbiamo conosciuto l'orrore e la continua vicinanza con la morte. Racconta che di molte migliaia di prigionieri che andavano a bonificare aeroporti, ferrovie ed altre zone, ben pochi ritornavano. Porta ancora i segni di una granata su una gamba. Magdeburgo, però è un campo di transito e dopo qualche settimana viene spedito al terribile campo di Mauthausen, dove rimane per molto tempo. I suoi racconti sono davvero incredibili e noi - uomini di oggi - dobbiamo fare uno sforzo non da poco soltanto per immaginare quello che avveniva dentro a quelle mura infernali. Lì non c'era più l'uomo, ma l'orrore che si concretizzava ad ogni istante con la morte per inedia, per le fatiche, per le torture, per il capriccio di una guardia, per il freddo, per le percosse e per quei tanti altri motivi che nessuno di noi saprà mai. Una moltitudine di innocenti sono morti su quella collina abbandonata da Dio e dagli uomini. Un camino, con il suo denso fumo, la faceva da padrone e scandiva i ritmi della poca vita che i detenuti avevano davanti a sé. Eppure la parola d'ordine era quella di resistere, per raccontare... per raccontare mille e mille volte quello che accadeva lì dentro, tra lo stupore immane che la grande tragedia potesse consumarsi nella tranquillità e nella normalità di quel luogo abbandonato da ogni speranza di essere aiutati . "Abbandonate ogni speranza voi ch'entrate...". Nel febbraio del 1945 sembra proprio che anche Luigi debba soccombere definitivamente. In pieno inverno ( l'inverno di 60 anni fa, tra l'altro, era ben più rigido di quanto non lo sia adesso e si raggiungevano spesso i 20 gradi sotto lo zero) viene spogliato nudo nel cortile, bastonato, picchiato e gettato sulla neve. Come un oggetto ormai insignificante viene fatto rotolare dalla scala che dal cortile porta nei sotterranei e ai forni crematori. Ma anche qui qualche santo sicuramente lo protegge, perché rinviene dopo un po' riscaldato dal calore dei forni. Ancora maggiore è la sua fortuna di non essere notato e di potersi trascinare in una stanza accanto, dove trova una decina di cadaveri ancora con i vestiti. Ne prende uno, si veste con una nuova identità ( il suo numero originario era il 70367) e con la forza della disperazione riesce salire quei pochi gradini che per lui erano la montagna più alta del mondo; erano la vita o la morte. Giunto nel cortile riesce a mescolarsi con gli altri e a beffarsi del destino ancora una volta.


Forni crematori a Mauthausen
 
Un detenuto torturato nelle terribili carceri di Mauthausen
 
Durante una visita al campo di Mauthausen con Luigi nel marzo del 2002, mi pareva che ogni suo passo risvegliasse tutto intorno antichi orrori, sospiri e gemiti che solo lui sentisse e che lo commuoveva profondamente. Le sue lacrime si mescolavano all'antico fiume di lacrime che hanno imbevuto quel terreno, quelle pietre, quelle baracche, quella nefasta scala della morte, che la ha visto attore per ben sette volte. Con una pietra sulle spalle, più pesante di lui, ha salito il girone infernale più terribile conquistandosi la vita scalando quei 180 scalini che gli chiedevano, uno ad uno, uno sforzo sovrumano quasi impossibile. E' con religioso rispetto e con riflessione che quei luoghi sacri alla memoria dell'umanità, vanno visitati.


 Morto di freddo, nel tentativo di accendere un fuoco

Nei pressi della scala della morte  a Mauthausen

Qualche mese prima della liberazione Luigi viene trasferito nel cuore della Germania, ad Allach, un sottocampo di Dachau. Alle nove del mattino del 5 maggio 1945, Luigi non crede ai suoi occhi: i soldati alleati liberano il campo! E' la fine di un colossale incubo e non gli sembra vero di essere ancora vivo, di avercela fatta, di poter tornare dai propri genitori, di essere un uomo, di essere un uomo libero...

Da allora sono passati tanti anni e Luigi, "con il suo lager dentro", fino agli ultimi giorni della sua vita ha mantenuto fede alla grande promessa fatta allora, ovvero quella di raccontare alle nuove e vecchie generazioni il grande misfatto... Luigi non si è stancato di incontrare i giovani nelle scuole, per testimoniare la sua esperienza affinché non sia dimenticata, affinché non siano dimenticati i milioni di uomini e di donne che sono caduti nel precipizio dell'ideologia nazista.

 Luigi Bozzato,  a Padova, con gli alunni della classe 3^B della Scuola Media Statale
 "Marsilio da Padova" l'11 marzo 2003

Il monumento agli internati, fortemente voluto da Luigi,
nelle vicinanze della sua abitazione a Pontelongo
Una pietra di Mauthausen, come quelle che venivano caricate sulle spalle dei prigionieri
 
Luigi Bozzato, con il suo carattere forte e deciso, ha saputo affrontare le difficoltà della vecchiaia con grande dignità, attorniato costantemente dagli amici più cari, che lo hanno confortato con le loro visite frequenti, sempre pronti ad ascoltare i suoi racconti e a fargli compagnia nei momenti della solitudine.

E' mancato a noi tutti il giorno 5 settembre 2008.

Con lui se ne va una delle ultime testimonianze della deportazione nei campi di sterminio; uno sterminio perpetrato attraverso il lavoro forzato, la denutrizione, le bastonate continue, le umiliazioni, la grande fame, la lotta per la sopravvivenza in ogni singolo momento della giornata. E questo per quasi un intero anno.

Sei stato veramente un "Grande", Luigi, per aver saputo lottare contro la disperazione più assoluta, abbandonato a te stesso. La tua esperienza insegni anche a noi a saper superare le piccole e grandi difficoltà della vita.