domenica 23 ottobre 2011

Celeste Di Porto, la ragazza ebrea, detta "la pantera nera", che collaborò con le SS per scovare gli ebrei

Ragazza ebrea detta "La pantera nera" di appena 18 anni che nel 1944 era rientrata a Roma, dopo essere sfuggita alla razzia nazista nel ghetto ebraico. Non appena rientrata, insieme a sua cugina Enrica di Porto detta "l'incipriata", cominciò a collaborare con le SS di Via Tasso al fine di scovare gli ebrei e di denunciarli. La sua infame attività di spia ebrea contro i suoi stessi correligionari (che ovviamente durante l'occupazione nazista stavano nascosti) le faceva ottenere 5.000 Lire ogni ebreo catturato. Pare che denunciasse le vittime ebree "salutandole per strada" favorendo così la loro cattura ai nazisti senza essere scoperta. Con la sua attività di prostituta spesso riconosceva gli ebrei perché circoncisi e subito provvedeva alla loro denuncia. Ebbe una parte rilevante nell'ambito della strage delle Fosse Ardeatine in cui in seguito all'attacco gappista di Via Rasella costato la vita di 33 militari al servizio della polizia germanica, Hitler dette l'ordine della rappresaglia (10 persone per ogni militare ucciso, quindi 330 che poi divennero 335 per un tragico errore di conteggio). In quell'occasione fu incaricata dalla Gestapo a recuperare un numero significativo di ebrei che andasse ad integrare quello delle persone che erano già prigioniere dei tedeschi per destinarli alla rappresaglia. Procurò 26 ebrei tra i 15 e i 74 anni. Per l'occasione Kappler le aveva promesso un compenso decuplicato: 50.000 Lire. Tra le vittime della sua attività delatrice ci furono anche 2 suoi parenti (il cugino ed il cognato) ed anche l'ex pugile ebreo-romano Lazzaro Anticoli detto "Bucefalo". Dopo la Liberazione di Roma, Celeste di Porto venne arrestata e portata a Regina Coeli da cui riuscì a sfuggire raggiungendo Napoli in autostop e dove continuò la sua attività di prostituta. Venne poi individuata da suoi clienti ebrei (che non erano andati lì per caso). Fu arrestata e condannata a 12 anni di reclusione, diventati poi 7 in seguito alla sua decisione di convertirsi al cattolicesimo e ritirarsi in convento (da cui fu espulsa dopo solo 1 anno). E' morta nel 1981.

IL CANTO DI MARTA

ANNO 1938:
C’E’ UNA BAMBINA CHE SI CHIAMA MARTA


Marta era una piccola bambina ebrea rimasta orfana

perché i suoi genitori erano stati deportati nei campi di concentramento, così venne affidata
ad una signora sconosciuta

ANNO 2001:
C’E’ UN’ADOLESCENTE CHE SI CHIAMA ANNA


Anna sedicenne è la figlia di Marta e cerca di capire e scoprire la storia di questa ragazza sconosciuta

UN GIORNO DEVE CAMBIARE IDENTITA’ E NESSUNO SA DIRLE IL PERCHE’


Marta, durante l’occupazione nazista fu costretta a nascondersi perché era ebrea…



… successivamente fu costretta a cambiare identità senza conoscere la verità

UN GIORNO QUEL PERCHE’ TROVA UNA RISPOSTA



Anna cerca delle spiegazioni dalla nonna Rosa che all’inizio era un po’ titubante nel raccontare la storia, ma dopo l’insistenza di Anna che riesce a convincerla, le racconta la storia

Una bambina e basta - Lia Levi


"Alla radio scrivo un giorno una lettera per partecipare a un gioco, forse un concorso. Sono ancora nel cerchio di mia madre e così corro a fargliela leggere, prima d'imbucare il foglietto nitido dove ho sforzato la scrittura al meglio.
«Cara radio» comincia la letterina «sono una bambina ebrea...». Mia madre legge e con un grande gesto come di teatro comincia a strappare il foglio scritto in pezzi sempre più piccoli. La guardo sbalordita: che grande errore ci può mai essere? E anche se c'è da correggere, perché questo insolito rompere tutto? Dispetti così la mamma non li aveva mai fatti. Mamma non sembra arrabbiata, anzi, è quasi allegra e butta i pezzetti del mio lavoro in aria come se fossero coriandoli di carnevale. La guardo irosa e offesa. Anche mamma mi guarda, ma con una specie di ilare indulgenza: «Non sei una bambina ebrea, hai capito? Hai capito? Sei una bambina. Una bambina e basta».

E' la storia di una bambina durante la seconda guerra mondiale, una bambina di cui - ripensandoci - non viene neanche mai svelato il nome, ma che non è difficile avvicinare parzialmente alla stessa autrice. E' la storia di una bambina piemontese, come ce ne sono tante, tra il 1939 e il 1945, solo che questa bambina è anche ebrea e questi sono anni in cui essere ebrei voleva dire qualcosa. E' quindi con una prospettiva tutta particolare, da "mezza altezza", che Lia Levi racconta l'esperienza umana di tanti: i cambiamenti repentini, inesorabili e inspiegabili, le prime paure, le lontananze, i dubbi, la necessità di nascondersi... e da mezza altezza lo sguardo è ingenuo, talvolta anche crudelmente ingenuo e quindi il racconto procede lieve e, se possibile, anche con un che di divertito e impertinente.

In parte mi ha ricordato i capitoli iniziali dell'autobiografia di Carla Capponi (di cui avevo parlato poco tempo fa), quelli in cui vengono ricordati gli anni dell'infanzia, ma lì era comunque con voce di adulta che la scrittrice parlava, qui invece la maestria della Levi sta proprio nel riuscire a parlare dalla prima pagina all'ultima con voce di bambina. E' un racconto lungo piuttosto bello che nel 1994 ha anche vinto il Premio Elsa Morante - Opera prima. Un racconto che scivola via veloce; ma che, se proprio gli si vuole trovare un difetto, non è riuscito a coinvolgermi fino in fondo forse per una scrittura, a mio avviso, un tantino monotona. E' un libro che si può, o forse si deve, presentare ai ragazzi perché affronta una tematica importante partendo da un punto di vista a loro più vicino. Rimane in me la perplessità per lo stile, che invece non trovo particolarmente appetibile soprattutto per i più giovani, ma naturalmente questa è solo la mia impressione.

"noi lanciamo occhiate supplichevoli a nostra madre chiedendole, certo senza saperlo, di riconsegnarci il nostro lindo mondo, ordinato come i quaderni di «bella copia» che hanno un foglio bianco nella prima pagina in modo che ci si possa scrivere con cura nome, cognome e classe, dentro una bella cornicetta disegnata a piacere con foglie e fiori"

Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita


Rita Levi-Montalcini (Torino, 22 aprile 1909) è una scienziata e senatrice italiana. Negli anni cinquanta le sue ricerche la portarono alla scoperta e all'identificazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa o NGF, scoperta per la quale è stata insignita nel 1986 del premio Nobel per la medicina. Insignita anche di altri premi, è stata la prima donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze. Il 1º agosto 2001 è stata nominata senatrice a vita per i suoi meriti scientifici e sociali. È socia nazionale dell'Accademia dei Lincei per la classe delle scienze fisiche ed è tra i soci fondatori della Fondazione Idis-Città della Scienza.

Nel 1936 il rettore dell'Università di Torino, Silvio Pivano, le conferì la laurea in Medicina e Chirurgia con 110 e lode, successivamente si specializzò in neurologia e psichiatria, ancora incerta se dedicarsi completamente alla professione medica o allo stesso tempo portare avanti le ricerche in neurologia.

Quello stesso anno Benito Mussolini pubblicò il “Manifesto per la difesa della razza” firmato da dieci scienziati italiani, cui fece seguito la promulgazione di leggi razziali di blocco delle carriere accademiche e professionali a cittadini italiani non ariani. Nel 1938, in quanto ebrea sefardita, Rita fu costretta ad emigrare in Belgio, sebbene stesse ancora terminando gli studi specialistici di psichiatria e neurologia. Sino all'invasione tedesca del Belgio (primavera del 1940), fu ospite dell'istituto di neurologia dell'Università di Bruxelles dove continuò gli studi sul differenziamento del sistema nervoso.

Poco prima dell'invasione del Belgio tornò a Torino, dove, durante l'inverno del 1940, allestì un laboratorio domestico situato nella sua camera da letto per proseguire le sue ricerche, ispirate da un articolo di Viktor Hamburger del 1934 che riferiva sugli effetti dell'estirpazione degli arti negli embrioni di pulcini. Il suo progetto era appena partito quando Giuseppe Levi, scappato dal Belgio invaso dai nazisti, ritornò a Torino e si unì a lei, diventando così, con suo grande orgoglio, il suo primo e unico assistente. Il loro obiettivo era quello di comprendere il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nella differenziazione dei centri nervosi. In quel laboratorio Rita Levi-Montalcini scoprì il meccanismo della morte di intere popolazioni nervose nelle fasi iniziali del loro sviluppo, fenomeno riconosciuto solo tre decenni più tardi (1972) e definito con il termine apoptosi.

Il pesante bombardamento di Torino ad opera delle forze aeree angloamericane nel 1941 rese indispensabile abbandonare la città e la giovane Montalcini si rifugiò nelle campagne di un paese dell'Astigiano, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti. Nel 1943 l'invasione dell'Italia da parte delle forze armate tedesche li costrinse ad abbandonare il loro rifugio ormai pericoloso.

I Levi restarono a Firenze, divisi in vari alloggi, sino alla liberazione della città, cambiando spesso domicilio per non incorrere nelle deportazioni. Una volta furono salvati da una domestica, che li fece scappare appena in tempo. A Firenze, nel 1944, Rita entrò come medico nelle forze alleate.

Nell'agosto 1944 gli Alleati costrinsero i tedeschi a lasciare Firenze; la Montalcini divenne medico presso il Quartier Generale anglo-americano e venne assegnata al campo dei rifugiati di guerra provenienti dal Nord Italia, trattando le epidemie di malattie infettive e di tifo addominale. Qui si accorse però che quel lavoro non era adatto a lei, in quanto non riusciva a costruire il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti. Lavoro da lei stessa definito difficile e penoso per il diffondersi delle epidemie:

Dopo la guerra tornò dalla famiglia a Torino dove riprese gli studi accademici e allestì un laboratorio di fortuna casalingo in una collina vicino ad Asti. I suoi primi studi (degli anni 1938-1944) erano stati dedicati ai meccanismi di formazione del sistema nervoso dei vertebrati. Con il maestro Giuseppe Levi, iniziò a fare ricerca negli embrioni di pollo attraverso i quali approfondì le ricerche sulle correlazioni nello sviluppo tra le varie parti del sistema nervoso e si rivolgeva allo studio dello sviluppo dei neuroni isolati da vari elementi del tessuto cerebrale dell'embrione, giungendo a diversi risultati pubblicati su riviste scientifiche internazionali.

Nel 1947 il biologo Viktor Hamburger, al quale si era ispirata per molti suoi lavori, la invitò a St. Louis, a prendere la cattedra di docente del corso di Neurobiologia al Dipartimento di zoologia della Washington University. Certa di rimanere negli Stati Uniti solo pochi mesi, quella che doveva essere una breve permanenza si rivelò poi una scelta trentennale. Fino al 1977 rimase negli USA, dove realizzò gli esperimenti fondamentali che la condussero, nel 1951-52, durante la sperimentazione di un trapianto di tumore di topo sul sistema nervoso dell'embrione di un pulcino, alla scoperta del fattore di crescita nervoso, una proteina che gioca un ruolo essenziale nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche.

La ricerca è stata di fondamentale importanza per la comprensione della crescita delle cellule e organi e svolge un ruolo significativo nella comprensione del cancro e di malattie come l'Alzheimer e il Parkinson.

Levi-Montalcini ha sempre affermato di sentirsi una donna libera. Cresciuta in «un mondo vittoriano, nel quale dominava la figura maschile e la donna aveva poche possibilità», ha dichiarato d'averne «risentito, poiché sapevo che le nostre capacità mentali - uomo e donna - son le stesse: abbiamo uguali possibilità e differente approccio».

Ha rinunciato per scelta ad un marito e una famiglia per dedicarsi interamente alla scienza. Riguardo alla propria esperienza di donna nell'ambito scientifico, ha descritto i rapporti coi collaboratori e studiosi sempre amichevoli e paritari, sostenendo che le donne costituiscano al pari degli uomini un immenso serbatoio di potenzialità, sebbene ancora lontane dal raggiungimento di una piena parità sociale.

La prima metà degli anni Settanta l'ha vista partecipe dell'attività del Movimento di Liberazione Femminile per la regolamentazione dell'aborto. È membro delle maggiori accademie scientifiche internazionali, quali l'Accademia Nazionale dei Lincei per la classe delle Scienze Fisiche, la Pontificia Accademia delle Scienze (prima donna ammessa), l'Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, la National Academy of Sciences statunitense e la Royal Society. È inoltre Presidente onorario dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Collabora con l'Istituto Europeo di Ricerca sul Cervello (Fondazione EBRI, European Brain Research Institute), da lei fondato nel 2001 e presso il quale prosegue la sua attività di ricerca, affiancata da un costante impegno in campo sociale e politico e sostanziata dalla profonda riflessione etica che ne ha animato l’intero percorso di vita.

Ragazzi nella Shoah - Luciana Tedesco


Lucia Tedesco, ebrea, nacque nel 1933, pochi anni prima della promulgazione delle leggi razziali, che sentenziarono la morte di milioni di persone in tutta Europa. Vittima, insieme alla famiglia, di queste atrocita', Lucia Tedesco ha scritto questo libro per introdurre i ragazzi al drammatico tema della Shoah.

Il volume ricostruisce, con racconti, lettere e immagini, il crescendo di orrore di quegli anni terribili: dalla promulgazione delle leggi razziali del 1938 all'apertura del lager di Auschwitz-BIrkenau due anni dopo; dalle sperimentazioni dei tedeschi sugli ebrei alla gassificazione degli zingari.

Le lettere dei bambini, alcune mai spedite, ci raccontano di pianti soffocati, dell'ansia per i genitori scomparsi, della solitudine, della paura e dell'estremo bisogno di affetto.

Ma anche di speranze, di bonta' e di affetto, dei piaceri di una parola amorevole, del sollievo di una passeggiata all'aria aperta, dopo tanto nascondersi.

Fino a quel 27 gennaio 1945 quando i soldati sovietici liberarono il campo di Auschwitz-Birkenau. Oggi, grazie ad una legge del 20 gennaio 2000, il Parlamento italiano ha stabilito che il giorno 27 gennaio sia riconosciuto come Giorno della Memoria.

Per non dimenticare.

“Quanta stella c’è nel cielo” – Edith Bruck


Edith Bruck, classe 1932, scrittrice ungherese di famiglia ebrea, ha vissuto in prima persona gli effetti della folle mania persecutrice della seconda guerra mondiale. Sopravvissuta ad Auschwitz, Dachau e non solo, giunge dopo anni in Italia imparando la nostra lingua.

In “Quanta stella c’è nel cielo” (titolo tratto da un verso di un poeta connazionale Sándor Petòfi), con cui si è aggiudicata il Premio letterario della città di Bari nel 2009, ci presenta la storia di Anita, quindicenne bella, speranzosa, un po’ bambina e un po’ donna, che non ha voglia di dimenticare la crudele realtà del campo di concentramento.

Tutto ha inizio con un lungo viaggio in un treno maleodorante, in piedi, i compagnia di Eli, cognato di sua zia Monika presso cui andrà a vivere a Zvìkovec (territorio ceco occupato dai nazisti).

Anita è appena fuggita dal suo paese natìo in Ungheria.

Eli, incaricato di custodirla fino a destinazione, con scuse varie la attrae a sé, quasi fosse un oggetto del piacere. Anita è confusa e disgustata da questo gioco ma allo stesso tempo incuriosita dalle nuove sensazioni. Che si tratti di amore? Per quanto si sforzi di far parlare il giovane su qualsiasi argomento, egli è sempre restìo, inerte, pronuncia poche frasi spezzate e sgrammaticate in ceco.

Arrivati in quella che sarà la sua nuova casa, per una nuova vita, Anita cerca somiglianze, cerca conforto specie in quella sorella del padre che invece non ha voglia di ascoltare le opinioni, i ricordi della nipote.

I suoi zii hanno un bambino di pochi mesi, Robyka, unica consolazione per Anita e unico suo interlocutore. Eli di giorno è distante, indifferente, ma di notte si infila prepotentemente nel letto della fanciulla, finchè un giorno lei scopre di aspettare un bambino, un bambino che ovviamente Eli non vuole. La conduce a Praga con la scusa di mostrarle la città che desiderava visitare. In realtà la porta da un medico per farla abortire. Ma chi sopravvive ad uno sterminio come può acconsentire ad uccidere?

Una storia che fa luce sui sentimenti più riposti che molte volte non siamo in grado –o non abbiamo il coraggio- di esternare, sui ricordi più vivi, sulle esigenze più evidenti, come la preoccupazione di Anita di perdere la propria identità linguistica e che d’altro canto sottolinea le diverse reazioni psico-emotive ad un’esperienza atroce.

Varsavia, maggio 1943. Partigiane ebree catturate dai nazisti

A destra Malka Zdrojewicz, poi sopravvissuta al campo di sterminio di Majdanek. (La foto fa parte di quelle inviate da Jürgen Stroop, responsabile dell’annientamento del ghetto di Varsavia, nei suoi rapporti a Heinrich Himmler)

“The Wall” è qui il muro che nel 1940 i tedeschi occupanti eressero nella città vecchia di Varsavia, nel quartiere Nalewki, per rinchiedervi dentro 450.000 ebrei polacchi. All’inizio l’obiettivo dei nazisti era forse quello di avere un serbatoio di manodopera schiavistica, la cui organizzazione – come l’intera vita del ghetto, d’altronde – era delegata al locale Judenrat, il consiglio ebraico. Ma nell’estate del 1942, quando iniziarono l’evacuazione del ghetto, le loro vere intenzioni furono chiare. Tra il 22 luglio ed il 12 settembre, 300.000 abitanti del ghetto furono deportati, ufficialmente per essere reinsediati in non meglio precisati territori dell’Est, in realtà avviati ai campi di sterminio, soprattutto a Treblinka. All’interno del ghetto si creò una spaccatura tra lo Judenrat, gli anziani ed i partiti politici, da una parte, incerti sul da farsi e immobilisti, e le organizzazioni giovanili di sinistra, dall’altra, convinte della strategia sterminazionista dei carnefici e decise ad opporsi con ogni mezzo. Alla fine i giovani decisero di fare per proprio conto e fondarono la “Żydowska Organizacja Bojowa” (Żob), l’Organizzazione ebraica di combattimento, cercando di procurarsi quante più armi possibile dai gruppi di resistenza polacchi che, purtroppo, si mostrarono un po’ restii a distrarre risorse per destinarle ad un pugno di ebrei male in arnese e per giunta di sinistra. In ogni caso, alla fine del 1942, la Żob cominciò a colpire collaborazionisti e poliziotti ebraici e quando, all’inizio del 1943, i nazisti cominciarono una seconda ondata di deportazioni, l’Organizzazione, cui nel frattempo si erano aggiunti anche molti “anziani” soprattutto comunisti, diede inizio alla rivolta. I combattimenti durarono dal Pesach, la Pasqua ebraica del 19 aprile, fino al 16 maggio 1943 quando il generale tedesco Jürgen Stroop, comandante la “bonifica”, comunicò a Himmler che la rivolta era stata domata e che il ghetto di Varsavia era stato completamente raso al suolo.


la fine del ghetto


Nel 1952 Jürgen Stroop, dopo essere stato processato da un tribunale polacco, fu impiccato al centro di quello che era stato il ghetto di Varsavia.

Flory la porta chiusa. Come sono sopravvissuta alla Shoah - Van Beek Flory


Flory, ebrea olandese, è una sopravvissuta all'Olocausto. Alle prime avvisaglie di antisemitismo, insieme con il futuro marito Felix cerca la salvezza imbarcandosi per il Sudamerica, ma la nave - carica di civili di un paese non belligerante - viene fatta esplodere in mare dai tedeschi. Scampati fortunosamente alla morte, i due ritornano in patria per scoprire, solo pochi mesi dopo, che duecento anni di pace e una proclamata neutralità sono un ben misero riparo dalla follia nazista. Il 10 maggio 1940 l'Olanda viene invasa e gli ebrei scientemente emarginati, repressi, depredati e infine annientati. Le famiglie si smembrano, i due sposi si danno alla clandestinità e iniziano a collaborare con la resistenza. Improvvisamente, una quotidianità fatta di tranquillità sociale e felicità domestica viene rimpiazzata dagli effetti della persecuzione razziale: fame, fughe, rastrellamenti. Molti dei parenti non ce la fanno, compresa la madre di Flory: prelevata e inviata al campo di concentramento, di lei resta una straziante lettera gettata dal treno, come facevano molti deportati. Ma Flory e Felix conoscono anche la bontà e il coraggio di tutti i connazionali che, a più riprese, li hanno ospitati e nascosti a rischio della vita propria e dei loro cari.

Il ghetto: luogo di segregazione ed eliminazione degli ebrei


Fu nel corso degli anni che vanno dal 1939 al 1941 che i nazisti attuarono un programma di «emigrazione forzata» degli ebrei verso Est ,vale a dire in quella parte della Polonia che veniva denominata Governatorato generale, che trovò la sua attuazione con l'istituzione dei ghetti. Stessa cosa accadde per i cosiddetti «territori incorporati», vale a dire quelle zone d'Europa che dovevano costituire la Grande Germania. Il primo ghetto di grandi dimensioni fu quello di Lodi, aperto nell'aprile-maggio del 1940, che raggiunse i 200.000 abitanti in un'area di 4,14 chilometri quadrati e una media di circa sei abitanti per vano. Nel novembre del 1940, venne istituito il ghetto di Varsavia, il più grande d'Europa, con 47.000-54.000 ebrei rinchiusi in una superficie di 3,36 chilometri quadrati con una densità di persone per vano variabile da sette a dodici. Altri ghetti di minore ampiezza furono quelli di Cracovia (marzo 1941), Lublino (aprile 194I), Radom, Czestochowa, Kielce (maggio-giugno 1941), Lwow, Bialystok e altri ghetti di minori dimensioni che vennero ad aggiungersi nel 1942 (per esempio Plock). Sebbene la creazione di questi quartieri ebraici chiusi non avesse obbedito ad alcun ordine preciso e nemmeno a un piano generale, essa si attuò in tutte le città con modalità simili. «Gli ebrei - veniva ordinato - come regola generale non devono uscire dal ghetto. I tedeschi e i polacchi, per contro, non devono entrare nel ghetto». Una volta effettuati i trasferimenti, i tedeschi circondavano il quartiere ebraico con un recinto guardato a vista da distaccamenti della Polizia d'ordine. In pratica nel ghetto gli ebrei erano fisicamente prigionieri. Anche nel quartiere ebraico più esteso non percorrevano mai più di qualche minuto di cammino da un muro a un altro muro; continuavano a portare segni di riconoscimento (la stella gialla o il bracciale bianco con la stella di David) e la sera, dopo il coprifuoco, dovevano rimanere chiusi nelle case. Fin dall'inizio il più grave problema dei ghetti fu la fame (infatti i tedeschi non prevedevano per gli ebrei rinchiusi grandi apporti di calorie: da 186 al giorno fino a un massimo di 800-900); l'altro grave problema erano le malattie come il tifo e lo scorbuto, che seminavano migliaia di vittime. Prima che cominciassero le deportazioni di massa, dai ghetti ai campi di sterminio (il ghetto infatti fu visto fin da subito come soluzione provvisoria) molti ebrei erano già morti: 83.000 a Varsavia, 45.000 a Lodi. Nei ghetti, più ancora che nei campi di concentramento e sterminio, i bambini e i ragazzi rappresentavano la popolazione ebraica più esposta alle malattie, alle torture e alla morte. Un ghetto «speciale» fu quello di Terezin, che nei suoi tre anni di vita accolse 140. 000 ebrei. Doveva essere un ghetto modello, da mostrare all' opinione pubblica mondiale, per contrastare le voci sui crimini in corso nei territori occupati dai nazisti. A Terezin (Theresienstadt), in Boemia, i morti furono quasi 40.000, mentre gli altri vennero trasferiti nei campi di sterminio.


Nel 1942 la popolazione di Terezin era di 87.000 abitanti e si dimezzò a causa del tifo. Non è possibile dire con esattezza quanti sono i morti ebrei nel sistema dei ghetti. Il maggiore storico dell'Olocausto, Raul Hilberg, ipotizza un numero di morti pari a 800.000 ebrei tra i quali circa 160.000 bambini e ragazzi.

sabato 22 ottobre 2011

La tragica fine della famiglia Einstein


Una famiglia cancellata dalla crudeltà del nazismo e dell’ideologia: nel 1944 la famiglia Einstein a Firenze fu vittima della furia omicida delle truppe della Wermacht.

“Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. E’ il foglio che la mattina del 4 agosto 1944, fu attaccato ad un albero tra le fiamme di Villa Il Focardo, per spiegare l’eccidio.

La loro tragica fine è stata scelta dalla Provincia per raccontare la Shoa e gli eccidi nazisti con due mostre che si aprono entrambe nel Giorno dalla Memoria.

Robert Einstein era cugino del celebre scienziato Albert Einstein. Alla fine degli anni ‘30 con la moglie Cesarina Mazzetti e le figlie Annamaria e Luce si trasferì a Firenze, in Corso dei Tintori, e acquistò la villa del Focardo, nel territorio di Rignano sull’Arno, per trascorrervi i mesi estivi.


Alla famiglia si unirono le due gemelle Paola e Lorenza, rimaste orfane, figlie del fratello di Nina Mazzetti. Una di loro, Lorenza, racconterà il dramma della famiglia anche in un libro, “Il cielo cade”.

Nel 1943 una divisione della Wermacht occupò la Villa Focardo ma la situazione precipitò nel 1944: Cesarina Mazzetti e le due figlie furono uccise; Roberto Einstein non resse al dolore e si suicidò l’anno seguente la loro morte.

I responsabili della strage non sono mai stati identificati.

BMW, il fondatore Quandt un nazista


Di come Günther Quandt fosse in realtà implicato nell’ascesa nazista è ben documentato da una lunga ricerca effettuata dallo storico Joachim Scholtyseck. Il professore di Bonn è stato incaricato dalla stessa famiglia Quandt nel 2007 di indagare più a fondo nel passato del fondatore in «un esercizio di apertura e trasparenza».
In tre anni di dura e costante ricerca Scholtyseck ha attinto a tutte le fonti disponibili seguito da un team di 10 persone consultando oltre 40 archivi tra cui, oltre a quello familiare, quello importantissimo, per ricostruire la rete di finanziamenti tra le BMW e il governo nazista, della Deutsche Bank. Scholtyseck non si è accontento però solo di documenti ma ha approfondito la ricerca tramite testimonianze di chi fu sottoposto ai lavori forzati durante la guerra in Germania.
Il risultato sono 1200 pagine che analizzano nel dettaglio la storia della famiglia Quandt dalle sue origini al 1954. Se gli eredi avevano davvero sperato che gli storici illuminassero il quadro fosco degli antenati discolpandoli, il tentativo, scrive Die Zeit, è innegabilmente fallito. Scholtyseck presenta una inedita ricchezza di nuove prove che confermano il pesante coinvolgimento del fondatore nella politica nazista.

Mario Carletti


Mario Carletti nacque a Novara il il 7 gennaio 1921. Durante il periodo premilitare frequentò un corso di motorista navale.

Durante la seconda guerra mondiale venne arruolato in Marina e imbarcato sul sommergibile Acciaio.

Partecipò a numerose missioni e venne decorato con la Croce di Guerra.

Durante una licenza a Torino, salvò molti ebrei in attesa di essere deportati, manomettendo nella notte le serrature dei carri merci in cui erano stipati. Sempre a Torino, incrociò casualmente una macchina appartenente alla Casa Reale. Carletti salutò militarmente, l’auto si fermò e a bordo si trovava il Principe Umberto II che invitò il marinaio a salire per accompagnarlo a casa.

Tempo dopo il principe passando in rassegna l’equipaggio del sommergibile Acciaio riconobbe Carletti, che era febbricitante. Il Principe chiese al comandante di lasciare a terra il giovane marinaio e farlo ricoverare.

Carletti si oppose inutilmente e l’Acciaio salpò senza di lui.

Questo salvò la vita di Mario Carletti, perché l’Acciaio venne affondato e non vi furono superstiti.

Carletti salpò invece per la sua ultima missione, a ritrovare i suoi amici ebrei, il 27 luglio 1999.

Eno Mucchiutti


Eno Mucchiutti, nasce nella Trieste del 1919 con la passione della musica e non per la guerra, in cui si trova coinvolto tragicamente dopo essere stato arruolato: un destino che passa dal conservatorio di Torino dove studia canto e musica ai campi di lavoro dei lager tedeschi. Arrestato e deportato ottiene con la musica i privilegi di un trattamento più umano. Ma la crudeltà della guerra e dei lager non fa distinzioni. Dopo il tentativo di fuga ed un sospetto di appartenenza a movimenti partigiani, viene deportato e nel '44 inizia il suo calvario che lo porta in quattro differenti lager, luoghi dove si provano l'orrore e la crudeltà nazista. In condizioni di lavoro terribili, tutti i giorni con la morte a fianco e provato dalla schiavitu' nelle asfissianti gallerie delle cave di Mauthausen, ritrova la vita con la liberazione nel '45 e riprende con coraggio la sua grande passione per il canto e la musica, esibendosi successivamente accanto ai nomi più illustri della lirica, del calibro del grande Pavarotti e Maria Callas."Il cantante dei lager" raccontato da Marco Coslovich, (studioso di storia contemporanea) riporta alla ribalta, dopo anni di silenzio, la testimonianza della determinazione di un uomo che, nonostante le atrocità subite, vuole fortemente la vita e con la sua voce trasmette il silenzio di coloro che non sono più tornati e che hanno lasciato le speranze di vita nelle fredde lande tra dolore e violenza. Una figura generosa, senza ideologie politiche, vittima solo di scelte politiche inquietanti e razziste.


Il cantante del lager




"I francesi mi invitarono, assieme a Fellner e il gruppo musicale, nei loro uffici. Mi chiamavano "italiano piccolo Gigli". Cantammo e suonammo tutta la sera, ma a un tratto la luce lampeggiò tre volte. Era il segnale proveniente dall'ingresso che era entrato il Lager Fùhrer e che bisognava scappare. Sul momento io non capii. Rimasi fermo e perplesso mentre tutti se la davano a gambe levate. Ricordo ancora che la fisarmonica pendeva da una sedia, la chitarra a terra, così pure il violino. Quella esitazione mi fu fatale." Può la bellezza di una voce o una semplice canzone salvare una vita umana? E quello che è successo al baritono Eno Mucchiutti, deportato politico triestino, che ha vissuto undici mesi tra Dachau, Mauthausen, Melk ed Ebensee. Eno, numero 98748, lavora in condizioni estreme nella cava di Mauthausen, percorre più e più volte la famigerata Totestiege ("scala della morte"), scava, ridotto in schiavitù, nelle asfissianti gallerie di Melk. Ma Eno canta. E canta divinamente. I tedeschi lo vengono a sapere, e questo lo aiuta in diversi frangenti, vista la risaputa passione da parte delle SS tedesche verso la musica, specialmente quella italiana. La musica non gli evita le sofferenze, ma in più di una circostanza gli salva la vita. La sua voce, una volta liberata, ha permesso a Mucchiutti di iniziare una carriera di livello internazionale cantando con moltissimi cantanti di fama mondiale nei principali teatri italiani e internazionali.

Adele Zara, ritratto di una donna giusta

Nel Giardino dei giusti delle Nazioni, a Gerusalemme, dedicato a quelli che durante la seconda guerra mondiale (ma anche prima) salvarono cittadini ebrei dalle persecuzioni, tra nomi illustri e conosciuti al grande pubblico come Perlasca e Palatucci, un abitante di Oriago troverebbe inciso anche quello della sua concittadina Adele Zara.

Ma chi era Adele Zara ? Ce lo ricorda la triestina Fulvia Levi, sfollata dalla città giuliana nel luglio del 1943, dopo la caduta del fascismo: La storia della famiglia Levi si intreccerà, con Adele Zara, l’ancora di salvezza.

I Levi (padre, madre e la piccola Fulvia di 13 anni) andarono prima a Venezia dopo non poche peripezie, perchè nella città lagunare vivevano i parenti della sorella sposata, che raggiunsero poi tutti la Svizzera. La famiglia Levi invece, tramite un amico del padre, trovarono ospitalità in una casetta di Oriago, allora borgo contadino, vicino al fiume Brenta. Dopo circa un mese la proprietaria della casa, resasi conto che dava ospitalità a degli ebrei (ricordiamo che in Italia dal 1938 erano state promulgate le leggi razziali), consigliò ai Levi di chiedere aiuto a una famiglia lì accanto.
Era la famiglia di Adele Zara (nella foto), capostipite sempre attenta a quello che succedeva attorno, fumando l’inseparabile sigaro. Con le nipoti di Adele, la piccola Fulvia intrecciò una vera amicizia, così da trascorrere il tempo senza pensare a quello che accadeva fuori della mura di casa.


Continua la testimonianza di Fulvia Levi: “Per quasi due anni fummo assistiti, protetti e curati (la signora Adele era anche infermiera). Passavano i giorni, si può dire tranquilli, anche se per tre volte con la mia famiglia tentammo di passare in Svizzera, senza riuscirci. Troppi erano i controlli, frequenti le retate, nessun appoggio. A noi ebrei era negato qualsiasi diritto di esistere: soprusi, angherie, rastrellamenti ci minacciavano. Le leggi del 1938 erano niente davanti a questa nuova ondata di odio. La vita a Oriago trascorreva fra paure,allarmi, bombardamenti e frequenti visite dei tedeschi, che venivano a rifocillarsi; e di partigiani che si informavano su di noi, con la scusa di venire a acquistare le sigarette nella tabaccheria degli Zara.

Uscivamo pochissimo. Il parroco – quando poteva – mi dava qualche lezione di latino.

Ad un certo momento, mi ammalai gravemente; ricordo ancora il dottor Francesco Bonollo, che mi fece ricoverare all’ospedale di Dolo, facendomi fare le lastre sotto il falso nome di Fulvia Zara. In questa circostanza, la famiglia Zara ci stette ancora più vicina, procurandoci un altro alloggio nella stessa casa. La signora Adele si prese cura di me, mi tenne al caldo, mi procurò le medicine, mi fece da infermiera. Superai così anche la malattia.

Nel marzo del 1944 dovemmo fuggire veramente: la nostra presenza non era più un mistero e i partigiani ci avvisarono. Fummo aiutati a mettere le poche cose che avevamo nella borsa e, dopo un furioso bombardamento, lasciammo Oriago (nella foto a sinistra la signora Levi) e quella casa che era stata il nostro rifugio. Luciano Zara accompagnandoci a Venezia rischiò davvero molto. In città ci trovò un alloggio per la notte. Da allora dovemmo spostarci quasi in continuazione, ma non perdemmo mai i contatti con lcon i nostri protettori. Il 20 luglio del 1944 tornammo ancora una volta a Oriago. La famiglia Zara ci accolse con grande affetto, come fossimo loro familiari. Ricordo ancora il caldo abbraccio della signora Adele, le lacrime che versammo. Tutta quella grande famiglia (erano in 17) si premurò di procurarci medicinali, cibo, assistenza e denaro di cui eravamo sprovvisti.”

“Finalmente – conclude Fulvia Levi . il 28 aprile fummo liberati dai neozelandesi e dagli americani. Un giorno che non dimenticherò mai: due soldati ebrei vollero conoscerci, ci portarono cioccolata e sigarette.. Non mi rendevo conto che la guerra era veramente finita; che papà (foto) non avrebbe più detto “Meglio morire sotto una bomba americana che essere presi dai tedeschi”; che avrei finalmente riavuto una casa tutta mia;che avrei potuto frequentare la scuola, cantare, ballare, come le ragazze della mia età. Ma soprattutto parlare a voce alta, dopo i silenzi dei mesi passati. Avevamo evitato i campi di sterminio. Il mio infinito grazie, anche a nome dei miei genitori, va ai miei salvatori, in particolar modo alla famiglia Zara di Oriago”.


Uno scritto particolare su una targa in pietra d’Istria, riportata in uno storico edicio lungo la riviera del Brenta, in località Oriago di Mira, riporta queste parole : “Tra il 1943 e il 1945 parte della famiglia Levi di Trieste trovò rifugio in questa casa per volontà di Adele Zara (1882-1969) sfuggendo alla deportazione nazista. Per questo il nome di Adele è inciso nel Giardino dei Giusti delle Nazioni a Gerusalemme”. Nelle vicinanze dell’edificio, è stata deposta un’altra targa, sempre dedicata Adele Zara. Dice : “Ad Adele Zara, che coraggiosamente, con la complicità della famiglia e dell’intero paese di Oriago, salvò dalla deportazione Carlo, Elisa e Fulvia Levi di Trieste (1943-1945) mettendo a serio rischio sé stessa e i suoi. Perennemente

grata, Fulvia Levi ricorda e dedica questa targa”.



 

Elisa Springer scrittrice austriaca

Elisa Springer è nata a Vienna nel 1918 in una famiglia di commercianti ebrei di origine ungherese. Sopravvissuta ai campi di sterminio, nel 1946 si trasferisce in Italia in Manduria in provincia di Taranto fino alla sua morte il 20 settembre 2004.

Elisa Springer aveva ventisei anni quando venne arrestata e deportata ad Auschwitz con il convoglio in partenza da Verona il 2 agosto 1944. Scampata dalla camera a gas per miracolo, Elisa vive e sperimenta tutto l'orrore del più grande campo si sterminio nazista.

Ben presto ridotta a una larva umana, umiliata e offesa, anche nel corso dei successivi trasferimenti a Bergen Belsen, il campo dove morì tra gli altri Anne Frank, e a Theresienstadt, riuscirà a tenere vivo nel suo animo il desiderio di sopravvivere alla distruzione.

La sua forza e una serie di fortunate coincidenze, le consentono di tornare fra i vivi, dapprima nella sua Vienna natale e poi in Italia, dove all'inizio della persecuzione nazista contro gli ebrei d'Europa, spinta dalla madre, aveva cercato rifugio. Da questo momento e per cinquant'anni la sua storia cade nel silenzio assoluto, nessuno sa di lei, conosce il suo dramma, nessuno vede o vuole vedere il numero della marchiatura di Auschwitz che Elisa tiene ben celato sotto un cerotto.

Il mondo avrebbe bisogno della sua voce, della sua sofferenza ma le parole non bastano per raccontare il senso del suo dramma sempre vivo.

La vita di Elisa Springer si normalizza con la nascita di un figlio. In quegli anni è proprio la maternità il segno della riscossa contro i suoi carnefici. Cinquant'anni più tardi proprio suo figlio vuole capire e conoscere la storia di sua madre. Elisa per amore di mamma ritrova la forza e le parole che le sembravano perdute. Unico caso di un silenzio così profondo che si interrompe con il racconto della storia della sua drammatica vita, morte e rinascita, il libro di Elisa Springer (Il silenzio dei vivi) assume il peso di quei testi che sanno parlare agli uomini e alla storia.

Rosario Serpe

Nell’inferno e ritorno, il racconto del sopravvissuto:
"Quei due anni nel lager che turbano le mie notti"


La testimonianza di Rosario Serpe, ex internato "Il rientro in bicicletta, dalla Prussia a Trento"



TRENTO. Furono 800 i trentini morti nei campi di concentramento in Germania. Io ringrazio Dio di essere tornato a casa, dopo due anni di prigionia a Stablack, nella Prussia orientale sul Mar Baltico. Da lì rientrai in Italia in bicicletta: dopo tre giorni di viaggio arrivai a Bronzolo, ai primi di agosto del 1945. I miei abitavano in provincia di Siracusa, e non sapevano più niente di me: se fossi vivo o morto. L'8 settembre del 1943 ero militare a Bressanone e ricoverato in infermeria per una dolorosa forma di intercolite.

Il giorno dopo, di mattina presto, eravamo a letto quando fecero irruzione dei soldati tedeschi con il mitra spianato, urlando frasi che non capivo ma che non facevano presagire nulla di buono. Ci portarono nella caserma del 231º Reggimento Fanteria - divisione Brennero.

Nel tardo pomeriggio del 12 settembre ci inquadrarono e ci caricarono su carri bestiame - cavalli 8, uomini 40, prigionieri 60 - proprio come bestie. Dovevano portarci alla stazione ferroviaria: nel tragitto, non ricordo di aver udito nessun commento degli abitanti del luogo. Solo le parole di un’anziana signora: "Pori fioi en do li porta...".

Poi ci fu il viaggio: durò tre giorni e tre notti, con sole tre soste di mezz’ora in aperta campagna per i bisogni fisiologici, adunata a suon di mitra e la paura di buscarsi qualche pallottola. In altre due fermate, in piccole stazioni ferroviarie, ci diedero un po’ di miglio dolce come cibo. Non posso dimenticare il ragazzo che, per tutta la durata del viaggio, continuò a cantare le parole del Nabucco di Verdi: "O mia patria sì bella e perduta".

Non lo rividi più. La sera del 15 settembre il treno si fermò: c’e ra stato un forte acquazzone ed era buio quando ci fecero scendere per portarci in un campo di concentramento che invece era illuminato a giorno. Ci chiusero in un recinto di filo spinato, dove si trovava una baracca che avrebbe potuto contenere al massimo 150 persone in letti a castello, ma dove eravamo il più di 300. Io e gli altri del mio convoglio dormimmo per terra, con lo zaino per cuscino e il pastrano come lenzuolo e coperta. Con me c’erano alcuni militari trentini di Trento e di Rovereto.

All'ingresso del campo c’era la scritta: "Arbeit macht frei", proprio come ad Auschwitz. "Il lavoro rende liberi": altro che, dovevamo fare i lavori più umili. Hitler aveva risolto il problema della manodopera... Il cibo era scarso: andavamo nei bidoni a cercare le bucce di patate. Ero arrivato al punto di pesare 46 chili.

L’unico aspetto positivo fu che imparai un po’ di francese e di tedesco che mi tornarono utili poi nella vita. I francesi erano stati i primi a finire nel campo. Uno di loro al nostro arrivo disse: “Guarda qui, arrivano anche quelli che hanno dichiarato guerra alla Francia”.

Alle nuove generazioni non ho nulla da dire. Solo chi ci è passato non può dimenticare. A distanza di 70 anni andare indietro con la memoria mi riempie di dolore. Ero un ragazzo di 23 anni e non sapevo una parola di tedesco: cercate di mettervi nei miei panni.

Per anni, dopo essere tornato a casa mi sono svegliato in preda agli incubi nel cuore della notte. Mi ritengo fortunato. Tanti sono rimasti lì per sempre. Senza le carezze di una mamma o di una sposa. Senza una tomba, dimenticati anche da morti.

Rosario Serpe * ex Imi matricola 1º A. 1113

Presidente Federazione provinciale Anei (Associazione nazionale ex internati) - Trento

HELGA E PETER NEL BUNKER DI HITLER

Berlino 1945 – fine dell’inferno.
Peter e io giocavamo tra le rovine…


Helga e Peter 1943 circa



 
Da “Il rogo di Berlino” Helga Schneider


Un pomeriggio piovoso, appena tornati dal rifugio dopo un attacco aereo pesantissimo, Peter mi trascina nella gelida sala da pranzo per farmi una comunicazione importante: “Lo sai che andremo nel bunker della Cancelleria? “. Sta lì, gambe divaricate, pugni sui fianchi e sguardo elettrizzato, in attesa della mia reazione.

” Chi è che andrebbe nel bunker? ” domando con scarso interesse.

“Tu e io! “.

” E perché dovremmo andarci? ” dico, non prendendolo troppo sul serio; ogni tanto si diverte a inventarsi delle fandonie solo per provocare una qualche reazione.

“Per mangiare le salsicce di fegato e vedere il Führer! ” esclama, agitato, calzoncini alla tirolese con bretelle, ciuffo ribelle sul naso insolente, pallore da tempo di guerra, sguardo deluso per le mie mancate grida di giubilo.

 
Lavandino nel bunker di Hitler – foto 1973 circa




Nel bunker – cassaforte dietro il letto di Hitler



Nel dicembre del 1944, mio fratello ed io, insieme a un gruppo di bambini e madri berlinesi, siamo stati “I piccoli ospiti” nel bunker di Adolf Hitler, che si trovava sotto la Nuova Cancelleria del Reich.

Null’altro che un’operazione propagandistica decisa dal ministro Joseph Goebbels, ma il ricordo di quella visita, la vista di Hitler e l’atmosfera claustrofobica ed angosciante di quel luogo sinistro, sarebbero rimasti indelebilmente incisi nella mia memoria.

Berlino, dicembre 1944

Ricomincio a sbirciare fuori dal finestrino. Dopo la vista dei cadaveri non vorrei più guardare, ma quel funesto spettacolo mi attira come una calamita. Per settimane non ci siamo mossi dalla Lothar-Bucher-Strasse, abitazione e rifugio, in una folle girandola di allarmi e cessati allarmi, di terrore e cessato terrore, così sento una necessità urgente e irreprimibile di capire che cosa sia successo altrove nel frattempo, ma ciò che vedo mi atterrisce. Ovunque giri lo sguardo, mi imbatto in tetri ruderi e cumuli di macerie senza fine. Poco dopo percorriamo un’intera strada in fiamme, mentre il cielo si è tinto di viola. Il bus si sposta bruscamente sulla sinistra e striscia lungo le traversine del tram per evitare che ci cadano addosso le facciate roventi delle case. La vettura si riempie di fumo e di un odore di incendio che secca la gola; fuori pioviggina cenere.

Proseguiamo. Nel bus sta crescendo l’agitazione.

Dappertutto si vedono rottami, tram rovesciati e crivellati come colabrodo; un magro cavallo tira un carretto carico di cadaveri.

Cadaveri, cadaveri, macerie ed edifici in fiamme: sembra che non ci sia nient’altro in questa città; nel bus pieno di bambini che si agitano e strillano di paura mi viene il fiato grosso dall’angoscia. Due di loro hanno accanto le madri, le quali però si preoccupano di tranquillizzare solo le proprie creature; il resto tocca a Marianne. Nel gran trambusto Peter si è svegliato e, guardandosi intorno attonito, decide di cercare rifugio dal suo disorientamento nel bavero del mio cappotto bisbigliando: “lo non ci vengo, voglio tornare a casa…”.

Stringo con un braccio le magre spalle di mio fratello e continuo a sbirciare fuori dal finestrino come ipnotizzata. In che mondo vivo? E che fine ha fatto quella città di cui Opa ogni tanto si compiace di decantare le passate meraviglie? Era una città splendida, viva, con milioni di abitanti che lavoravano, producevano e si organizzavano la vita con quel la perfezione di cui sono capaci i tedeschi. Una città ricca con strade sempre illuminate a giorno, vetrine fastose e gente elegante che passeggiava per il Kurfürstendamm o Unter den Linden. Gente che affollava i ristoranti, i caffè, i cinematografi, i teatri le sale da concerto. Gente che strepitava dentro a Palazzo Titania assistendo ai tanti avvenimenti sportivi. Gente che amava, che si sposava, aveva dei figli e li cresceva con sani princìpi. Una città moderna dotata di un’efficiente sotterranea e di un’altrettanto funzionale sopraelevata. Che cosa è successo per trasformare tutto in un immenso cimitero a cielo aperto?

Vicino alla Porta di Brandeburgo ci imbattiamo in un posto di blocco. Un gruppo di SS agita le palette. L’autista sbuffa: “Merda!”. Herr Klug è anziano e indossa un’uniforme logora, con toppe di pelle cucite ai gomiti. La sua nuca è bianca con la sfumatura alta e le esili spalle si curvano, stanche, sul grosso volante. Una SS si avvicina alla portiera, la spalanca bruscamente, si introduce nella vettura e grida: “Heil Hitler! Prego, documenti e lasciapassare! “. Marianne non si scompone. Si alza con calma e gli porge un plico. La SS lo esamina minuziosamente. E’ un uomo molto giovane dagli occhi così chiari che sembrano di ghiaccio. E’ un ragazzone alto che tocca con la testa il tetto del bus, fasciato dall’uniforme come se gli fosse stata cucita addosso. Nel bus è calato un preoccupato silenzio.

Peter alza la testa, fissa la SS, mormora: “lo non ci vengo”, e si rifugia di nuovo contro il mio bavero.

La SS è soddisfatta. Grida: “Tutto a posto!”, grida ” Heil Hitler!” e salta giù dalla vettura. “Maledetti!” sbotta Herr Klung.

“Per favore, tenga a freno la lingua!” lo riprende Marianne.

“Tenga a freno ’sti coglioni” ringhia l’autista, e rimette in moto.

Il bus riparte verso la Porta di Brandeburgo, che si staglia contro un cielo squamoso il cui innocente azzurro è stato sopraffatto dal rosso scarlatto degli incendi. Dopo pochi minuti ci fermiamo di nuovo: siamo arrivati.

Il video mostra le ultime immagini del bunker realizzate nel 1980


Berlino, inizio maggio 1945


Frau Bittner lo pregò di resistere. Appena all’esterno la situazione fosse stata più sicura, qualcuno sarebbe uscito per prendere l’acqua; ma lui non l’ascoltò. Si lasciò cadere dal letto facendosi venire le convulsioni, che durarono per circa una mezz’ora. Quando stette meglio la madre prese le taniche e salì le scale. Kurt si oppose: «Mamma, dove vai? Vuoi fare l’eroina? Torna giù da quella scala, piuttosto ci vado io!».

Ma lei era già uscita senza voltarsi indietro. Kurt rimproverò il fratellino, ma non servì. «Ho sete!»ribadì Egon, e non ci fu nulla da aggiungere. Rimanemmo in un silenzio imbarazzato e a un tratto realizzai che da circa un’ora non si sentivano più gli spari.

Frau Bittner era uscita da non oltre tre minuti e già era di ritorno. Posò le taniche, scivolò su una sedia, il volto bianco come farina. Herr Hammer si incuriosì. Si rizzò sulla branda, starnutì a ripetizione e domandò con la sua voce da raffreddato cronico: «Che cosa c’è, Frau Bittner, si sente male?».

Lei scosse il capo, afferrò al volo una forcina che stava cadendo insieme a una ciocca di capelli, fissò pensierosa la sua forcina e infine rispose, stranita: «La guerra è finita»

La frase ebbe l’effetto di una miccia. «Cosa?!» gridò Herr Hammer, e saltò d’un balzo dal suo giaciglio. «Dove l’ha sentito? Chi l’ha detto?».

«Lo stanno gridando fuori».

Opa era già in piedi e corse verso la radio. Tornò quasi subito, era raggiante: «Berlino ha firmato la resa. La guerra è finita!».

Ci fu un’esplosione di gioia, di giubilo, scorsero lacrime incredule. La fiamma della candela vacillava agitata, forse spaventata dall’insolito movimento dell’aria, e ricamava astrusi anelli di fumo. La guerra era finita!

Euforia, salti, baci, lacrime. Il vecchio che si urinava sempre addosso stavolta si urinò addosso per la commozione, Frau Mannheim, che non avevo mai visto sorridere, era così raggiante che esibiva il buco di tre denti mancanti. Herr Hammer starnutiva e piangeva. Peter piangeva perché non capiva il motivo di tanto trambusto. Egon piangeva e voleva l’acqua. Gudrun si era alzata dalla branda e piangeva ma non riusciva a parlare. Io avevo un gran nodo alla gola e andai ad abbracciare Opa. Fu un momento irripetibile.

Euforia, gioia incontenibile, folle sollievo. Ci si abbracciava. Si fraternizzava. Di colpo tutto fu cancellato: liti, cattiverie gratuite, grettezza e intolleranza, malignità e battute pesanti; le durezze arcigne, la mancanza di solidarietà, spesso di sensibilità, talvolta di umanità. Tutto superato, tutto giustificato. C’era la guerra, ora era finita. Poi la cantina non contenne più la nostra felicità e ci precipitammo sulla strada. La gente gridava: «La guerra è finita!». E ci corsero incontro delle persone, e furono nuovi abbracci e riso e pianto, mentre i cuori scoppiavano. La guerra era finita! Sentivo una grande, traboccante, incontenibile gioia. La matrigna mi abbracciò e mormorò, travolta dall’emozione: «Ora si metterà tutto a posto, vedrai», ma non capivo se parlava di se stessa, di me o del destino della Germania.

Continuava ad arrivare altra gente che gridava: «La guerra è finita! La guerra è finita! Hurrà!». Erano spettri ubriachi di gioia. La capitolazione ci aveva resi di nuovo esseri umani, sancendo il primo dei nostri diritti, quello alla speranza. La guerra era finita, la Germania nazista vinta e noi, oltre a essere sopravvissuti, sia pur macilenti, sporchi, affamati e assetati, eravamo di nuovo uomini. Ma come era Berlino quando finalmente le armi tacquero?

Era una distesa di rovine ardenti il cui riverbero rischiarava la notte sino a farla sembrare giorno. Un rogo sconfinato il cui ventre conteneva un residuo di umanità in condizioni catastrofiche. Le strade erano gremite di cadaveri il cui fetore si alzava verso il cielo; la prolungata mancanza di acqua aveva trasformato la città in una latrina a cielo aperto. Da molto tempo non c’era elettricità, né gas, né acqua, né riscaldamento, né alcuna distribuzione di viveri o medicinali; e le strutture sanitarie erano paralizzate. Infuriavano le malattie infettive, per cui pidocchi, cimici e ratti regnavano sovrani. Nessuno era andato più a scuola, nessuno lavorava. Dalle cantine, dai rifugi e dagli ingressi della sotterranea uscivano poveri spettri sudici e coperti di cenci, provati nell’organismo e nella mente. Erano tedeschi, i rappresentanti della razza superiore, secondo Adolf Hitler, della razza dominatrice. In realtà erano solo ombre.

Doveva essere un crepuscolo eroico quello che Goebbels aveva ipotizzato nell’eventualità di una sconfitta, ma la fine del Terzo Reich fu mesta, ingloriosa e miserabile.

Berlino distrutta – 1945





Io, piccola ospite del Führer

Helga Schneider

“Si può davvero definire Adolf Hitler ‘un essere umano’?”

Parte da una domanda semplice e impossibile questo breve, intensissimo romanzo, in cui Helga Schneider torna a scavare nella memoria per raccontare un altro tassello di quella drammatica storia del Novecento di cui è da sempre appassionata testimone.

Nell’ultimo inverno di guerra, in una Berlino ormai in fiamme, la piccola Helga, suo fratello Peter e alcuni altri bambini “privilegiati” vengono portati in visita nel bunker di Hitler. Per ventiquattr’ore si aggireranno come topini in trappola tra i corridoi di “quell’angusto dedalo di morte”, in attesa dell’incontro con il Fuhrer del Terzo Reich. In quell’ultima dimora dall’”architettura senza futuro”, pervasa da un odore nauseabondo di muffa e diesel, potranno finalmente mangiare un pasto completo, lavarsi i denti con il dentifricio e, con l’aiuto di una lampada al quarzo, riacquistare un aspetto sano. Il grande Fuhrer non potrebbe tollerare la vista di bambini emaciati, né l’idea di venire a contatto con una qualche malattia…

L’intensità di questo ricordo – già in parte evocato nel Rogo di Berlino – s’intreccia qui ad altri frammenti di vita privata, arrivando a comporre per brevi tratti un quadro piú ampio: all’esperienza allucinante del bunker si affianca l’estraneità di un padre costretto a combattere una guerra delirante, l’assenza di una madre che ha sacrificato tutto per la causa nazionalsocialista, l’insensibilità di una matrigna e di una zia che sino alla fine non si rassegneranno ad accettare la disfatta del Terzo Reich, né ad ammettere la spietata follia su cui è stato edificato un simile sogno di grandezza.

Con la consueta felicità narrativa, che unisce all’esattezza del dettaglio il calore della scrittura, Helga Schneider riesce ancora una volta a ricostruire con vivezza e con dolore il clima di quegli anni: l’enfasi sinistra dell’ascesa al potere, le aspirazioni di Hitler e dei suoi fedelissimi (primo fra tutti Goebbels), lo stato di crescente paura e disperazione della gente comune. Ne viene fuori un racconto bruciante, capace di ricostruire attraverso gli occhi inconsapevoli dell’autrice bambina le illusioni, lo spaesamento e le sconcertanti certezze di un intero popolo a cui, attraverso un uso capillare e spregiudicato della propaganda, fu negato sino all’ultimo anche “il diritto di pensare”.

giovedì 20 ottobre 2011

Zarah Leander

"Non voglio assolutamente andare negli Stati Uniti e a Hollywood, vorrei restare in Europa"
Intervista al giornale svedese "Svenska Dagbladet", dicembre 1936


Nella primavera del 1940 la rivista cinematografica svizzera Schweizer Film Zeitung propone ai lettori un sondaggio: vengono chiesti il nome dell'attore e dell'attrice preferiti. La Svizzera è in quel periodo un grande consumatore di film, un po' perché manca nel paese quasi del tutto una produzione nazionale, un po' perché, a causa della presenza di più lingue nazionali, vengono proiettati film prodotti in tutto il mondo. La fanno da padrone gli Stati Uniti con il 49% dei film proiettati, seguono la Francia 22%, la Germania 15%, l'Inghilterra 4% e l'Italia 3%. Se tra gli uomini la supremazia di Hollywood è decretata dal fatto che ai primi tre posti troviamo Tyrone Power, Spencer Tracy e Clark Gable, nella lista delle preferenze femminili troviamo al primo posto l'attrice svedese, nonché star della Ufa, Zarah Leander che supera Jeanette MacDonald e Greta Garbo. Bette Davis è all'ottavo posto e bisogna scendere addirittura al sedicesimo per trovare la Dietrich.


Volendo fare la storia con i se (cosa che so dai molti ritenuta assurda): se la Germania e l'Italia non avessero dichiarato guerra agli USA, cosa che potevano benissimo non fare, se si fosse giunti a un armistizio con l'Inghilterra, se gli Stati Uniti non avessero condotto la più grande dittatura mediatica e culturale della storia, Zarah Leander sarebbe divenuta la star cinematografica più famosa del pianeta.

Svedese di nascita, per esattezza è nata a Karlstad nel 1907, comincia la sua carriera a Stoccolma, negli spettacoli di rivista. Il suo nome diviene talmente famoso che è quasi automatico che nel '30 inizi una carriera cinematografica. Dopo 3 film di successo nel suo paese, decide di fare il grande salto e approda a Vienna dove gira Premiere, un film ambientato nel mondo del teatro. Benchè il film abbia qualche pecca nella scelta dei costumi e nella tecnica di ripresa, Zarah dimostra di avere le qualità per divenire una star a livello europeo.

Nel frattempo la Dietrich ha forti attriti con la dirigenza del Partito Nazionalsocialista e decide di lasciare definitivamente la Germania scappando negli USA (cosa che i tedeschi, anche dopo la guerra, non le perdoneranno mai). La UFA, che ormai è diventata la più grande casa di produzione cinematografica europea, cerca una nuova diva di punta per rimpiazzare la Dietrich e la trova proprio nell'attrice svedese. Decide di puntare su di lei e nel '37 esce Zu neuen Ufern (Verso nuove sponde). Non è una grandissima produzione, la UFA non vuole rischiare troppo, ma il tutto è studiato alla perfezione. La voce baritonale della Leander colpisce il pubblico e fa presto dimenticare quelle della Dietrich o della Garbo. Il partner della Leander nel film è Viktor Staal, che nella realtà è suo vicino di casa. I due trascorrono il tempo libero insieme e si parla già di una loro storia d'amore.

Il film è un successo, ma bisogna aspettare la seconda pellicola degli studios di Babelsberg per decretarla definitivamente diva. La Habanera, con il suo esotico kitsch, è un successo senza precedenti: la Leander interpreta una svedese che, in viaggio a Puerto Rico, si innamora di un propietrio terriero e lo sposa. Ma l'uomo si dimostra ben presto il contrario di quello che lei aveva sperato: violento e senza cuore. Così, durante una terribile epidemia scoppiata sull'isola, cercherà di scappare da quell'esotica reclusione insieme al figlio (nella foto a fianco, a cui cerca nel frattempo di dare una cultura europea insegnandogli tra l'altro, tra una canzone e un'altra, concetti a lui sconosciuti come la neve o la crema di nocciole!). Un'indimenticabile baracconata del film è quando la Leander canta Der wind hat mir ein Lied erzählt (Il vento mi ha raccontato una canzone) nel cortile della villa, tra oleandri, agavi e palme, vestita da nobildonna spagnola con addirittura tre tirabaci sulla guancia sinistra.




Nel film Der Blaufuchs (La volpe blu) la Leander strizza l'occhio ai vari capi nazisti più o meno notoriamente omosessuali con la famosa canzone Kann denn Liebe Sunde sein? (Ma l'amore può essere peccato?, il video qui sopra). Con questo film la Leander diviene e rimarrà anche nei decenni seguenti, una delle icone più amate dagli omosessuali tedeschi, nazisti o meno.

Kann denn Liebe Sünde sein? (Ma l'amore può essere peccato?)
Darf es niemand wissen, wenn man sich küßt, (Nessuno deve sapere, quando ci si bacia,)
wenn man einmal alles vergißt, vor Glück? (quando tutto si dimentica, per la felicità?)
Jeder kleine Spießer macht das Leben mir zur Qual, (Ogni piccolo borghese rende la mia vita un tormento)
denn er spricht nur immer von Moral (poiché parla solo e sempre di morale)

Intanto nuovi film vengono prodotti tra alti e bassi e la Leander, insieme agli eserciti tedeschi, sembra avviata ormai al trionfo mondiale. Sarebbe interessante ripercorrere attraverso le canzoni della Leander, la storia di quel periodo: Hitler nel 1940 entra a Parigi e lei canta Merci, mon ami, es war wunderschön (Grazie, amico mio, è stato bellissimo); nel '41 l'Ungheria, paese amico, entra in guerra a fianco della Germania e lei canta Von der Puszta will ich träumen (Voglio sognare la puszta). Poi però le cose cominciano a cambiare.


Nel film Die große Liebe (Il grande amore) del 1942 Zarah Leander è di nuovo con il bel Viktor Staal. Canta due celeberrime canzoni: Ich weiß, es wird einmal ein Wunder gescheh’n (Lo so, succederà un miracolo) e Davon geht die welt nicht unter (Per questo non casca il mondo), canzoni che, mentre si scatena in tutta la sua furia la guerra contro l’Unione Sovietica, acquistano un significato tutto particolare. Non c’è una famiglia (e la mia non era certo un’eccezione) in cui almeno un uomo non sia lontano da casa, in servizio o addirittura al fronte, e queste canzoni riaccendono in ognuno la speranza che possa succedere davvero un miracolo, persino in coloro che ormai dubitano che per sé, per l'Asse, o per la stessa Germania, questa guerra avrà una felice fine.



Nel video qui sopra, Zarah canta Ich weiß, es wird einmal ein Wunder gescheh’n, (Lo so, succederà un miracolo). Le "signorine" che costituiscono il coro e la scena, in realtà sono soldati delle SS della compagnia della guardia di palazzo del Führer e non, come si era detto in un primo momento, semplici soldati tornati dal fronte. Il motivo principale di questa scelta è dato semplicemente dalla strabordante corporatura della Leander (ZDF Dokumentation, Hitler und seine Frauen).



Nel video qui sopra, sempre tratto dal film Il grande amore, Zarah tiene un concerto per le truppe tedesche stazionate a Parigi. Canta Davon geht die welt nicht unter (Per questo non casca il mondo) e nei suoi occhi velati di malinconia sembra emergere il dubbio per l’esito del suo amore per Viktor Staal e quello per le sorti della guerra... Il film, il penultimo prima della fine della guerra, fu il suo più grande successo: venne visto da 27 milioni di spettatori!




Zarah aveva fatto la sua scelta, non solo per la carriera, ma anche ideologica. Rimane a Berlino fino all'autunno del '43, ma la situazione è critica, i bombardamenti sempre più frequenti. Così si trasferisce nella sua tenuta di Lönö, in Svezia. Finisce la guerra, cade il Terzo Reich e anche lei cade in depressione. Ma inaspettatamente nel 1948 arriva dalla Germania la richiesta per un nuovo film. Zarah ormai a causa dell'alcool, più che una donna all'inizio dei quaranta, sembra una cinquantenne. Il film si intitola Gabriela e segue all'incirca le linee dei film anteguerra. Ovviamente non è un successo, ma nemmeno un flop. Si va al cinema a vederla più per nostalgia che per altro, per quella sorta di irrfrenabile attrazione per il kitsch che ha il popolo tedesco. Zarah capisce che il cinema non può più essere il suo centro e riprende la sua carriera nel teatro e nel varietà, con varie tournee e anche con apparizioni televisive. Il suo ultimo film lo gira in Italia nel 1966 per la regia di Luciano Salce Così imparai ad amare le donne, dove Zarah canta un suo vecchio cavallo di battaglia Eine Frau wird erst schön durch die Liebe. Zarah muore nel giugno del 1981: non rinnegherà mai il suo passato e non metterà mai piede negli Stati Uniti.