sabato 25 febbraio 2012

MASSIMO TEGLIO, L’”AMICO DEGLI EBREI GENOVESI”


Un ex pilota che diventa la ‘primula rossa’ di un’organizzazione (la Delasem) impegnata per strappare dalle grinfie della Gestapo il maggior numero di ebrei. La storia di un genovese che molto ha a che vedere con quella dei più famosi Oskar Schindler o Giorgio Perlasca, l’eroe di Budapest. Un ruolo importante e delicato per l’attore Sergio Castellitto, che affronta, con ‘L’Aviatore’, il nuovo tv movie in onda il 25 gennaio su Canale 5. La pellicola, diretta da Carlo Carlei e prodotta da Rizzoli per Mediaset, trae spunto dal un racconto del giornalista e scrittore statunitense Alexander Stille “Il rabbino, il prete e l’aviatore”. Essa è ambientata in parte a Roma e in parte a Genova (trasposta per ragioni scenografiche a Costanza, Romania). Trattasi di una scommessa importante e destinata a fare vera luce – speriamo con successo – sulla figura di un uomo straordinario la cui storia è ancora assai poco nota al grande pubblico. Ma chi fu, in realtà, Massimo Teglio. Per saperlo occorre fare un tuffo nel passato e ripiombare nel clima cupo di una città provata dai bombardamenti e dagli stenti, una città ove regna l’incertezza e la paura.

Genova, pomeriggio del 2 novembre 1943. Alle ore 17 gli uffici della Comunità Ebraica di Via Bertora sono regolarmente aperti quando all’improvviso due Obersherfuhrers del Judische Bureau, accompagnati da un interprete italiano, certo Luzzatto, e scortati da 22 soldati delle SS, sfondano la porta dell’edificio e arrestano il custode Bino Polacco intento a giocare con i suoi due figli, Carlo e Roberto. I tedeschi puntano i mitra contro Polacco e lo obbligano a consegnare tutti i registri anagrafici della Comunità israelitica genovese, poi lo caricano con i ragazzi e la moglie su un camion e li portano nel carcere di Marassi. In seguito, si saprà che l’intera famiglia Polacco è stata rinchiusa e sterminata in un campo di concentramento tedesco. Con questa prima, rapida operazione, ordinata dal maggiore Sigfried Engel, capo del Servizio di Sicurezza S.D. di Genova, ha inizio il calvario della minoranza ebraica residente nel capoluogo ligure.

Il giorno seguente, grazie ad una delazione, le SS riusciranno ad arrestare in Galleria Mazzini il rabbino Riccardo Pacifici. Il capo spirituale della Comunità, che nelle settimane precedenti aveva trovato sicuro rifugio, per diretto interessamento del cardinale Boetto, presso la sede dell’Arcivescovado, aveva deciso di uscire allo scoperto per aiutare la moglie e i figli a fuggire a Firenze. Sistemata la famiglia in un convento del capoluogo toscano, Pacifici era voluto tornare a Genova per prestare conforto ai suoi correligionari. Ai prelati fiorentini che cercavano di dissuaderlo egli rispose: “Sono disposto a morire per l’ebraismo, ma non per i nazisti”. Dopo averlo ammanettato, le SS trascinarono il rabbino all’interno della Sinagoga di via Bertora, dove venne interrogato e pestato. Alcuni giorni dopo, lo caricarono su una tradotta con destinazione Auschwitz, in Polonia, dove il 12 dicembre 1943 venne ucciso e cremato, assieme a tanti altri correligionari, in uno dei forni del campo.

Proprio in quel drammatico autunno del ‘43 (nel novembre 1943 sono arrestati e deportati 300 ebrei genovesi) a Genova Massimo Teglio stringe le fila dell’organizzazione clandestina “Delasem”, (Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, con sede centrale a Genova) creata dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane nel dicembre 1939 per fornire assistenza ai profughi ebrei diretti in Palestina o oltre Oceano (tra il 1938 e il 1945 l’organizzazione riuscirà a mettere in salvo oltre 30.000 israeliti) . Teglio, uomo coraggioso e di saldi principi morali, era stato uno dei primi ad entrare a fare parte della Delasem. Fiancheggiavano l’organizzazione cittadini comuni, ma anche molti funzionari, ufficiali dell’esercito e dei carabinieri e parecchi prelati dell’Arcivescovado che si adoperarono per procurare rifugio agli ebrei perseguitati dalle forze nazi-fasciste o aiutandoli a fuggire all’estero.

Con lo scopo di realizzare al più presto la cosiddetta “soluzione finale”, nell’inverno tra il 1943 e il 1944, Heinrich Himmler, comandante in capo delle SS, ordinò il rafforzamento delle sue unità operanti in Italia e sul territorio ligure per “liquidare” tutti gli ebrei ancora a piede libero. E fu così che presso l’edificio della Casa dello Studente di corso Gastaldi iniziò ad operare il nucleo S.D. agli ordini del maggiore Engel. E da questa base dipendevano due speciali bureau, il numero “4” e il numero “5”, affidati al comando del tenente Otto Kass. Quest’ultimo creò a sua volta un apposito Ufficio Ebrei che aveva il compito di eseguire le indagini particolari e gli arresti degli israeliti nascosti in città e nella provincia. L’Ufficio disponeva di un folto numero di impiegati e di militi delle SS, coadiuvati da informatori civili e da interpreti. Tutti gli ebrei catturati venivano solitamente tradotti negli scantinati della Casa dello Studente dove venivano sottoposti ad interrogatori estenuanti e non di rado a sevizie. Successivamente, questi disgraziati venivano trasferiti alla IV Sezione delle carceri di Marassi, diretta dal maresciallo E. Poickert. Questi si occupava della segregazione e della “spedizione” in vagoni piombati dei suoi prigionieri, avviati nei campi di concentramento tedeschi e polacchi. Affiancavano la struttura organizzativa nazista delle SS il personale dell’Ufficio Gestapo di via Assarotti, diretto dal maggiore Werner, e le forze di Polizia e della Milizia repubblichine.

All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, a fronteggiare questa efficiente macchina di sterminio, non c’erano che poche decine di uomini, di fede ebraica e cristiana, dotati di grande coraggio, ma di pochi mezzi. E fu proprio per questo motivo che Massimo Teglio, spalleggiato dalla Curia e da non pochi funzionari del Comune, aveva posto le basi per la creazione di una vera organizzazione di salvataggio, iniziando per prima cosa a dedicarsi alla fabbricazione di documenti falsi e lasciapassare per gli ebrei alla macchia e per quelli che si apprestavano a fuggire da Genova. Teglio, uomo tranquillo, ma anche astuto, carismatico e dotato di notevole iniziativa, mise in piedi un laboratorio per la contraffazione di documenti di qualsiasi tipo. Un lavoro che poté portare a compimento grazie alla collaborazione della Ditta Prada e del tipografo Valtolina che fornirono la carta e i timbri a secco di vari comuni italiani, mentre la Curia procurava quelli di gomma delle varie parrocchie italiane (in questa attività prezioso risultò l’apporto fornito da don Repetto, segretario del cardinale Boetto). Teglio, infatti, non era solo. In Questura alcuni funzionari, tra cui il dottor Broccardi-Salmezzi e i commissari Sbezzi, Salmeri, Mollo e Figurati, si adoperarono per favorire l’attività di Teglio e della Desalem, rischiando di essere scoperti e fucilati dai nazi-fascisti. Questi funzionari chiusero spesso un occhio su “movimenti di gente sospetta” segnalati dagli informatori e dai delatori (anch’essi, purtroppo, numerosi) che in cambio di denaro erano disposti a spedire alle camere a gas uomini innocenti, donne e bambini. In Prefettura, operava il dottor Claudio Lastrina, che fino dall’autunno del ‘43 si era messo a disposizione di Teglio per aiutarlo a reperire documenti e timbri falsi. Purtroppo, un giorno Lastrina si tradì e venne arrestato dalle SS che lo deportarono in un non precisato campo in Germania dove, nel 1944, venne fucilato. Presso il Comune di Genova, il vice segretario generale, avvocato Gian Antonio Nanni, e alcuni suoi stretti collaboratori, riuscirono per parecchie settimane a tenere nascosto ai tedeschi l’elenco completo degli ebrei residenti in città, stilato nel 1938 in occasione del varo delle leggi razziali. Anche l’Arma dei Carabinieri si adoperò spesso per coprire in qualche modo Teglio, i membri della Delasem e gli ebrei braccati dalle SS o dalla Gestapo. Molti di questi perseguitati vennero ospitati nel lebbrosario e nel reparto Malattie Infettive dell’Ospedale di Genova. E tutto ciò fu possibile grazie alla connivenza dei professori Cartagenova e Catterina e dei dottori Morra, Vittone, Solimano, D’Antilio e Ciffatte. Persino alcuni plenipotenziari e ufficiali tedeschi di salda fede cristiana, come il console generale Hans Bernard e il console ordinario Alfredo Schmidt (“un austriaco di ottimi sentimenti”, così lo descrisse il cardinale Boetto) collaborarono con la Curia, contribuendo alla salvezza di alcuni ebrei. A dimostrazione che non tutti i tedeschi condividevano i folli progetti di Hitler e di Himmler.

Tra il 1943 e il 1944, la “Delasem”, ormai trasformatasi in una vera e propria organizzazione dotata di mezzi e di sufficiente sostegno finanziario (il denaro veniva procurato attraverso collette e donazioni di cittadini sia ebrei che cristiani e grazie a periodici versamenti da parte dell’Arcivescovado), cominciò a progettare l’espatrio clandestino di interi nuclei di civili ebrei. Per attuare questo piano, che comportava ovviamente difficoltà e rischi di ogni genere, venne chiamato a Genova Raffaele Cantoni, un noto esponente della resistenza ebraica che, dopo essere stato arrestato a Firenze dai nazisti, era riuscito a fuggire buttandosi da un treno in corsa. Giunto nel capoluogo ligure, Cantoni nominò Teglio responsabile della Desalem per tutto il Nord Italia: un incarico prestigioso che dimostrava chiaramente la capacità e il coraggio da lui dimostrato nei mesi precedenti. A Teglio spettò anche il compito di studiare e pianificare i percorsi di fuga più idonei per attraversare l’Appennino, la Pianura Padana, e raggiungere il confine svizzero. A questo riguardo occorre ricordare che nel dicembre del 1943 un primo tentativo di fuga, organizzato dal sacerdote don Rotondi, era finito in tragedia. Giunto in prossimità della frontiera alpina assieme ad un gruppetto di ebrei, il sacerdote era stato arrestato dai tedeschi e rinchiuso nelle carceri milanesi di San Vittore. Teglio decise quindi di organizzare un nuovo e più sicuro sistema di espatrio, cercando per prima cosa di contattare funzionari svizzeri di sua fiducia, come il console Biaggi de Blasys che, a sua volta, era in ottimi rapporti con la direzione della Croce Rossa Internazionale e con il Comando delle Guardie di Frontiera elvetiche. Gli espatri vennero organizzati soltanto per piccoli gruppi di 5 o 6 persone, per consentire una maggiore rapidità di spostamento e di eventuale occultamento lungo il percorso. I nominativi dei fuggitivi venivano preventivamente segnalati da Teglio al console svizzero che, a sua volta, si preoccupava di inoltrare la lista a Berna, affinché le autorità governative approntassero i documenti attestanti il diritto di espatrio e di asilo per i “profughi”. Passati gli Appennini attraverso mulattiere e sentieri, l’itinerario della salvezza si snodava lungo la pianura padana, passava poi da Madonna di Tirano, fino a raggiungere, dopo avere valicato le Alpi lungo i percorsi usati dagli “spalloni”, a Saint Moritz. Si trattava di un viaggio duro, faticoso e pericoloso, ma nessuno dei partecipanti alle spedizioni osò mai eluderlo. La posta in gioco era infatti la vita. In seguito, il punto di espatrio venne spostato (probabilmente per motivi di sicurezza) a Lieto Colle, in provincia di Como. Teglio fece miracoli e in pochi mesi la sua organizzazione riuscì a fare fuggire da Genova decine e decine di ebrei e persino un giovane soldato della RSI, renitente alla leva e condannato a morte in contumacia. La Desalem e Teglio operarono ininterrottamente, anche se fra molteplici difficoltà, fino al 25 aprile del 1945, quando le truppe del generale tedesco Gunther Meinhold di stanza a Genova e nella provincia deposero le armi arrendendosi alle formazioni partigiane.

CARO NONNO TI SCRIVO: Franco, se i ta ciapa...

CARO NONNO TI SCRIVO: Franco, se i ta ciapa...: Ritratto di un ebreo di una certa età e quindi segnato da un’immane tragedia, rievocazione dell’olocausto ebraico attraverso una testimonia...

Franco, se i ta ciapa...


Ritratto di un ebreo di una certa età e quindi segnato da un’immane tragedia, rievocazione dell’olocausto ebraico attraverso una testimonianza straziante, riproposizione di domande scomode o imbarazzanti o angoscianti sul ruolo della Svizzera durante la seconda guerra mondiale? No: il ritratto proposto da Falò non rientra in alcuno di questi schemi. Pur sfiorandoli tutti. Già, perché Gianfranco Moscati, il protagonista della vicenda narrata dal settimanale di informazione della RSI, è – effettivamente – un ebreo italiano di una certa età, che però in Svizzera ha trovato rifugio, insieme a sua madre e ai suoi fratelli, sfuggendo quindi alla deportazione verso i campi di sterminio. La decisione di varcare il confine l’aveva presa lui, il più giovane della famiglia, subito dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, perché il suo datore di lavoro gli aveva detto, a proposito dei soldati tedeschi che calavano in Italia: “Francheto, se i te ciapa i te copa…” Una frase che, nella sua lapidaria concretezza, gli era sembrata fin troppo plausibile. E così, entrò in Svizzera scambiando gli abiti civili con la divisa di un soldato meridionale che voleva tornarsene a casa, finendo quindi nei centri di accoglienza destinati ai militari – ed evitando di chiedere di essere accolto come rifugiato in quanto ebreo. Furbizia? Fortuna? Fatto sta che, durante il suo soggiorno in Svizzera, il giovane Moscati divenne un provetto pelatore di patate. Fu solo a guerra finita che si rese conto della sorte toccata a molti degli ebrei che invece non erano riusciti a scappare o a nascondersi. Tornato in Italia, dopo la liberazione, entrò in contatto con i sopravvissuti dei campi di sterminio, che arrivavano a Milano e che, con l’aiuto delle organizzazioni ebraiche e internazionali, cercavano un luogo in cui ricostruirsi una vita. Moscati ne accompagnò un gruppo in Puglia, tra mille traversie. Successivamente, si stabilì a Napoli, dove trovò un buon lavoro, che gli garantì un’esistenza confortevole e gli permise anche di dedicarsi alla sua passione: il collezionismo. Cominciò a raccogliere, soprattutto, testimonianze della persecuzione degli ebrei, quella persecuzione che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma che aveva spezzato le esistenze tanti suoi conoscenti e sulla quale molti avrebbero preferito far calare un velo di oblio. Ha messo insieme un enorme catalogo dell’orrore: oggetti, documenti, lettere, fotografie, filmati. La sua collezione è ora esposta a Londra, all’Imperial War Museum.

CARO NONNO TI SCRIVO: Storia dello scoutismo

CARO NONNO TI SCRIVO: Storia dello scoutismo: A testimoniare la qualità del lavoro educativo proprio dello scautismo e i valori che sostiene, è importante sottolineare alcuni passaggi de...

Storia dello scoutismo

A testimoniare la qualità del lavoro educativo proprio dello scautismo e i valori che sostiene, è importante sottolineare alcuni passaggi della storia passata e vicina. Diffusosi velocemente in tutto il mondo immediatamente dopo la sua fondazione, durante la seconda guerra mondiale, lo scautismo è stato sciolto in molti paesi europei vittime del nazismo e dal fascismo. Durante gli anni dello scioglimento, gli ideali ed i valori del movimento scout sono stati tenuti in vita da adulti e giovani che hanno partecipato alla guerra di liberazione nei vari movimenti della Resistenza europea.



In Italia, negli anni dal 1926 al 1943 (il periodo chiamato della “Giungla silente”), centinaia di scout hanno continuato la loro attività in clandestinità e partecipato alla Resistenza. In questa dimensione sono da ricordare in particolare due gruppi: il “Lupercale” a Roma e le “Aquile randagie” a Milano. Queste ultime hanno avuto particolare risalto anche per le azioni di resistenza in aiuto a rifugiati e ad ebrei, aiutando questi ultimi ad espatriare in Svizzera attraverso valichi alpini conosciuti durante le attività scout.

CARO NONNO TI SCRIVO: Mani Matter - Us emene lääre Gygechaschte

CARO NONNO TI SCRIVO: Mani Matter - Us emene lääre Gygechaschte: Una bellissima canzone che ci parla dei tanti suonatori di strada, spesso ebrei fuggiti in Svizzera sotto il nazismo, oppure reduci tedesch...

Mani Matter - Us emene lääre Gygechaschte


Una bellissima canzone che ci parla dei tanti suonatori di strada, spesso ebrei fuggiti in Svizzera sotto il nazismo, oppure reduci tedeschi e di altri paesi dell'Europa centrale, che si vedevano per le strade di Berna suonare il violino per guadagnare qualche soldo. Sicuramente una delle vette dell'arte dell'avv. Mani Matter, troppo prematuramente e tragicamente scomparso e che il mio lungo soggiorno in Svizzera mi ha dato modo di conoscere.

Us emene lääre Gygechaschte

Us emene lääre Gygechaschte
Ziet er sys Inschtrumänt
Und dr Chaschte verschwindet
Und er spilt ohni Bogen
Es Lied ohni Wort
Und er treit e Zilinder
Doch drunder ke Chopf
Und ke Hals und ke Lyb
Keni Arme, no Bei
Das het er alles verloren im Chrieg
Und so blybt no sys Lied
Nume das isch no da
Denn ou e Zilinder
Het er nie kene gha.

Versione italiana

DA UNA CUSTODIA VUOTA


Da una custodia vuota
tira fuori il suo violino,
e la custodia scompare

E suona senza archetto
una canzone senza parole;
porta un cilindro
ma dentro non c'è testa
né collo, né corpo
né braccia né gambe
tutto quanto, lo ha perso in guerra

Così rimane solo la sua canzone
solo questo è quel che rimane;
e neanche di cilindro
ne ha mai avuto uno.

venerdì 10 febbraio 2012

La famiglia Bush e il Terzo Reich


John Loftus, già ufficiale dei servizi segreti, ex inquirente della sezione Crimini di guerra nazisti del Dipartimento della Giustizia USA, Presidente del Museo dell'Olocausto della Florida ed autore di varie pubblicazioni sulle relazioni pericolose tra intelligence statunitense e nazismo:

The Belarus Secret (1982), Unholy Trinity: How the Vatican's Nazi Networks Betrayed Western Intelligence to the Soviets (1992), The Secret War Against the Jews: How Western Espionage Betrayed the Jewish People (1994), Unholy Trinity: The Vatican, the Nazis, and the Swiss Banks (1998).

Ecco un suo articolo tradotto in italiano:

“Per la famiglia Bush è un incubo perenne. Per i loro clienti nazisti la Dutch connection era la madre di tutti i sistemi di riciclaggio del denaro. Dal 1945 al 1949 iniziò nella zona americana della Germania occupata uno dei più lunghi e, come ora appare, futili interrogatori di un sospetto di crimini di guerra nazisti. Il magnate multimilionario dell'acciaio Fritz Thyssen - l'uomo il cui consorzio dell'acciaio era il cuore della macchina da guerra nazista – parlava e parlava e parlava ad un gruppo congiunto di interrogatorio USA-UK. Per quattro lunghi anni, successive squadre di inquirenti tentarono di infrangere la semplice pretesa di Thyssen di non possedere né conti in banche straniere né interessi in società straniere, né beni che potessero portare ai miliardi mancanti in beni del Terzo Reich. Gli inquirenti fallirono completamente. Perché? Perché ciò che l'astuto Thyssen deponeva era, in certo senso, vero. Quello che gli investigatori alleati non capirono mai era che essi non facevano a Thyssen la domanda giusta. Thyssen non aveva bisogno di nessun conto bancario straniero perché la sua famiglia segretamente possedeva un'intera catena di banche. Egli non dovette trasferire i suoi beni nazisti alla fine della II G.M., tutto ciò che doveva fare era trasferire i documenti delle proprietà - azioni, obbligazioni, atti e accordi legali - dalla sua banca di Berlino attraverso la sua banca in Olanda ai suoi amici americani di New York City: Prescott Bush e Herbert Walzer. I soci di Thyssen nel crimine erano il padre ed il suocero di un futuro presidente degli Stati Uniti. Gli investigatori alleati sottostimarono il potere di Thyssen, le sue connessioni, le sue motivazioni ed i suoi mezzi. La ragnatela di società finanziarie che Thyssen aiutò a creare negli anni '20 rimase un mistero per il resto del ventesimo secolo, una quasi perfetta condotta fognaria nascosta sottoterra per spostare il denaro sporco, denaro che rifornì di fondi le fortune postbelliche non solo dell'impero industriale Thyssen... ma anche della famiglia Bush. Era un segreto che Fritz Thyssen si sarebbe portato nella tomba.

Era un segreto che avrebbe condotto l'ex agente dell'intelligence USA William Gowen, ora quasi ottantenne, proprio ad un passo dalla famiglia reale olandese. I Gowen non erano nuovi alle controversie o alla nobiltà. Suo padre era uno degli emissari diplomatici del Presidente Roosevelt presso Papa Pio XII che fecero l'inutile tentativo di persuadere il Vaticano a denunciare il trattamento che Hitler riservava agli ebrei. Fu suo figlio, William Gowen, che prestò servizio a Roma dopo la II G.M. come cacciatore di nazisti ed investigatore del servizio controinformazioni dell'esercito USA. Fu l'agente Gowen che per primo scoprì nel 1949 il canale segreto del Vaticano per portare in salvo i nazisti. E fu anche lo stesso William Gowen che iniziò a far venire alla luce nel 1999 la condotta segreta olandese per contrabbandare il denaro dei nazisti.

Mezzo secolo prima Fritz Thyssen stava raccontando agli investigatori alleati che egli non aveva interessi in società straniere, che Hitler gli si era rivoltato contro ed aveva preso la maggior parte delle sue proprietà. I suoi rimanenti beni (che sapeva comunque persi) erano soprattutto nella zona d'occupazione russa della Germania. I suoi distanti (e non di suo gusto) parenti nelle nazioni neutrali come l'Olanda erano i reali proprietari di una sostanziosa percentuale della restante base industriale tedesca. Come vittime innocenti del Terzo Reich essi premevano sui governi d'occupazione alleati in Germania chiedendo la restituzione delle proprietà che gli erano state sequestrate dai nazisti.

Secondo le norme dell'occupazione alleata della Germania tutte le proprietà possedute dai cittadini di una nazione neutrale che erano state prese dai nazisti dovevano essere restituite ai cittadini neutrali dietro presentazione di appropriata documentazione dimostrante la prova della proprietà. Improvvisamente, parti neutrali di ogni genere, particolarmente in Olanda, pretesero la proprietà di diversi pezzi dell'impero Thyssen. Nella sua cella Fritz Thyssen semplicemente sorrideva ed aspettava di essere rilasciato dalla prigione mentre membri della famiglia reale olandese e del servizio informazioni olandese rimettevano assieme per lui i suoi possedimenti anteguerra.

Gli inquirenti britannici ed americani potevano avere seriamente sottostimato Thyssen ma non di meno essi sapevano che gli veniva mentito. I loro sospetti si concentrarono in particolare su una banca olandese, la Banca voor Handel en Scheepvaart di Rotterdam. Questa banca da anni faceva molti affari con i Thyssen. Per fargli un favore, nel 1923 la banca di Rotterdam prestò il denaro per costruire proprio il primo quartier generale del partito nazista a Monaco. Ma in qualche modo le indagini alleate continuarono a non andare da nessuna parte, le piste sembravano tutte arenarsi.

Se gli investigatori si fossero accorti che Allen Dulles, il capo dell'intelligence USA nella Germania postbellica, era anche l'avvocato della banca di Rotterdam, avrebbero potuto fare domande molto interessanti. Essi non sapevano che anche Thyssen era cliente di Dulles. Non si sono nemmeno mai accorti che era l'altro cliente di Allen Dulles, il barone Baron Kurt Von Schroeder che era il fiduciario dei nazisti per le società Thyssen che ora si pretendevano possedute dagli olandesi. La banca di Rotterdam era al cuore dello schema di copertura di Dulles, ed essa custodiva gelosamente i suoi segreti.

Diversi decenni dopo la guerra il giornalista investigativo Paul Manning, collega di Edward R. Murrow, inciampò sugli interrogatori di Thyssen negli Archivi Nazionali USA. Manning voleva scrivere un libro sul riciclaggio del denaro dei nazisti. Il manoscritto di Manning era un coltello alla gola di Allen Dulles: il suo libro menzionava specificamente la Banca voor Handel en Scheepvaart per nome, sebbene di sfuggita. Dulles si offrì di aiutare l'ignaro Manning con il suo manoscritto e lo mandò verso un vicolo cieco, in cerca di Martin Bormann in Sud America.

Senza sapere di essere stato deliberatamente sviato, Manning scrisse una prefazione del suo libro ringraziando personalmente Allen Dulles per la sua "assicurazione che era sulla pista giusta e doveva continuare così". Dulles mandò Manning ed il suo manoscritto nelle paludi dell'oscurità. Anche l'imbroglio stesso della "caccia a Martin Bormann" venne usato con successo per screditare Ladislas Farago, un altro giornalista americano che esaminava troppo approfonditamente il riciclaggio del denaro dei nazisti. Gli investigatori americani dovevano essere mandati ovunque eccetto in Olanda.

E così la Dutch connection rimase inesplorata fino a quando nel 1994 pubblicai il libro "The Secret War Against the Jews". Come argomento di curiosità storica menzionai che Fritz Thyssen (ed indirettamente il partito nazista) avevano ottenuto i loro primi finanziamenti dalla Brown Brothers Harriman e dalla sua affiliata Union Banking Corporation. La Union Bank era a sua volta la holding della famiglia Bush che controllava molte altre società, compresa la "Holland American Trading Company".

Era pubblicamente noto che le holding di Bush erano state sequestrate dal governo USA dopo che i nazisti invasero l'Olanda. Nel 1951 i Bush reclamarono dall'Alien Property Custodian la Union Bank assieme alle sue proprietà "neutrali" olandesi. Non l'avevo capito, ma avevo sbattuto contro un pezzo veramente grande della scomparsa Dutch connection. La proprietà di Bush della società d'investimenti olandese-americana era l'anello mancante nelle prime ricerche di Manning nei documenti dell'indagine Thyssen.

Nel 1981 Manning aveva scritto: "Il primo passo di Thyssen in una lunga danza di frodi fiscali e valutarie iniziò [alla fine degli anni '30] quando dispose che le proprie quote nella olandese Hollandische-Amerikanische Investment Corporation venissero accreditate alla Banca Bank voor Handel en Scheepvaart, N.V., Rotterdam, la banca fondata nel 1916 da August Thyssen Senior".

In questo oscuro paragrafo di un libro poco noto, Manning aveva involontariamente documentato due interessanti argomenti: 1) La Union Bank di Bush aveva evidentemente acquistato le stesse azioni societarie che i Thyssen stavano vendendo come parte del loro riciclaggio del denaro dei nazisti, e 2) la banca di Rotterdam, lungi dall'essere un ente neutrale olandese, venne fondata dal padre di Fritz Thyssen. In retrospettiva, io e Manning avevamo scoperto terminali diversi della Dutch connection.

Dopo aver letto l'estratto del mio libro sulla proprietà di Bush della Holland-American trading Company, l'agente del servizio informazioni USA in pensione William Gowen cominciò a mettere insieme le tessere del puzzle. Mr. Gowen conosceva ogni angolo dell'Europa per il suo passato di figlio di un diplomatico, agente del servizio informazioni americano e giornalista. William Gowen merita tutto il credito per la scoperta del mistero di come gli industriali tedeschi nascosero il loro denaro dagli Alleati alla fine della II G.M. Nel 1999 Mr. Gowen andò in Europa, a proprie spese, per incontrare un ex membro dell'intelligence olandese che aveva informazioni interne dettagliate sulla banca di Rotterdam. Lo scrupoloso Gowen prese nota della dichiarazione e quindi la fece leggere e correggere dalla sua fonte per evitare errori. Qui, sommariamente, si racconta come i nazisti nascosero il loro denaro in America.

Dopo la I G.M. August Thyssen era stato seriamente danneggiato dalla perdita di beni dovuta alle dure condizioni del trattato di Versailles. Egli era determinato a che ciò non accadesse mai più. Uno dei suoi figli si sarebbe unito ai nazisti, l'altro sarebbe rimasto neutrale. Non importava chi vincesse la prossima guerra, la famiglia Thyssen sarebbe sopravvissuta con il suo impero industriale intatto. Fritz Thyssen si unì ai nazisti nel 1923: suo fratello minore sposò una nobile ungherese e cambiò il proprio nome in quello di barone Thyssen-Bornemisza. Il barone più tardi reclamò la cittadinanza ungherese ed anche quella olandese. In pubblico fingeva di detestare il suo fratello nazista, ma in privato si incontravano a consigli di amministrazione segreti in Germania per coordinare le loro operazioni. Se un fratello veniva minacciato della perdita della sua proprietà, avrebbe trasferito le proprie società all'altro.

Per aiutare i suoi figli nel loro gioco di scatole vuote, August Thyssen durante gli anni '20 costituì tre diverse banche - la August Thyssen Bank a Berlino, la Bank voor Handel en Scheepvaart a Rotterdam e la Union Banking Corporation a New York City. Per proteggere le loro holding tutto ciò che i fratelli dovevano fare era spostare i documenti delle società da una banca all'altra. E questo fecero piuttosto regolarmente. Quando Fritz Thyssen "vendette" la Holland-American Trading Company per una perdita fiscale, la Union Banking Corporation di New York comprò le azioni. Similmente, la famiglia Bush investì i camuffati profitti nazisti in società americane dell'acciaio e di produzione che divennero parte del segreto impero Thyssen.

Quando i nazisti invasero l'Olanda nel maggio del 1940 investigarono nella Banca voor Handel en Scheepvaart di Rotterdam. Fritz Thyssen era sospettato di dagli ispettori di Hitler di essere un evasore fiscale e di trasferire illegalmente la sua ricchezza al di fuori del Terzo Reich. Gli ispettori nazisti avevano ragione: Thyssen pensava che le politiche economiche di Hitler avrebbero fatto diminuire la sua ricchezza attraverso una disastrosa inflazione. Egli contrabbandava all'estero i suoi profitti di guerra attraverso l'Olanda. Ma i forzieri di Rotterdam non contenevano indizi su dove fosse andato a finire il denaro. I nazisti non sapevano che tutti i documenti comprovanti la segreta proprietà di Thyssen erano stati tranquillamente rispediti alla banca August Thyssen a Berlino, sotto la benevola supervisione del barone Kurt Von Schroeder. Thyssen passò il resto della guerra agli arresti domiciliari di lusso. Egli aveva giocato Hitler, nascosto i suoi immensi profitti, ed ora era tempo di giocare gli americani con lo stesso trucco delle scatole vuote.

Appena Berlino cadeva in mano degli alleati venne il momento di rispedire i documenti a Rotterdam cosicché la banca "neutrale" potesse pretendere le proprietà con la benevola supervisione di Allen Dulles, che, come capo dell'intelligence dell'OSS a Berlino nel 1945, era ben piazzato per gestire qualsiasi tranquilla indagine. Sfortunatamente, la banca August Thyssen durante la guerra era stata bombardata ed i documenti erano sepolti nei forzieri sotterranei sotto le rovine. Ancora peggio, i forzieri si trovavano nella zona sovietica di Berlino. Secondo la fonte di Gowen, il principe Bernardo comandava una unità dell'intelligence olandese che nel 1945 tirò fuori i documenti societari incriminanti e li riportò alla banca "neutrale" di Rotterdam. Il pretesto era che i nazisti avevano rubato a sua moglie, principessa Giuliana, i gioielli della corona, ed i russi diedero agli olandesi il permesso di scavare tra i forzieri e recuperarli. L'operazione Giuliana fu una truffa olandese agli Alleati che cercavano ovunque i pezzi mancanti della fortuna Thyssen.

Nel 1945 l'ex direttore olandese della banca di Rotterdam riprese il controllo solamente per scoprire che sedeva su una grande pila di attività naziste nascoste. Nel 1947 il direttore minacciò di informare le autorità olandesi, e venne immediatamente licenziato dai Thyssen. L’ingenuo direttore di banca allora fuggì a New York City dove aveva intenzione di parlare con il presidente della Union Bank, Prescott Bush. Come ricordava la fonte olandese di Gowen, il direttore intendeva "rivelare [a Prescott Bush] la verità sul barone Heinrich e la banca di Rotterdam, perché alcuni o tutti degli interessi di Thyssen nel gruppo Thyssen potessero essere sequestrati e confiscati come proprietà del nemico tedesco. "Il corpo del direttore venne ritrovato a New York due settimane più tardi".

Allo stesso modo nel 1996 il giornalista olandese Eddy Roever andò a Londra per intervistare il barone, che era vicino di Margaret Thatcher. Il corpo di Roever venne scoperto due giorni dopo. Forse, osservò laconicamente Gowen, era solamente una coincidenza che entrambe morissero d’infarto immediatamente dopo aver tentato di scoprire la verità sui Thyssen.

Né Gowen né la sua fonte olandese sapevano delle sostanziose prove negli archivi dell'Alien Property Custodian o negli archivi dell'OMGUS. Assieme, i due separati gruppi di documenti USA si sovrapponevano a vicenda e supportavano direttamente la fonte di Gowen. Il primo gruppo di archivi conferma assolutamente che la Union Banking Corporation di New York era posseduta dalla banca di Rotterdam. Il secondo gruppo (citato da Manning) che a sua volta la banca di Rotterdam era proprietà dei Thyssen. Non sorprende che queste due agenzie americane non resero mai noti i documenti Thyssen. Come documentò il noto storico Burton Hersh:

"L'Alien Property Custodian, Leo Crowley, era nel libro paga della banca di New York J. Henry Schroeder dove nel consiglio di amministrazione sedevano Foster and Allen Dulles. Foster riuscì a farsi nominare consigliere legale speciale per l'Alien Property Custodian mentre simultaneamente rappresentava interessi [tedeschi] contro il custode".

Non meraviglia che Allen Dulles avesse diretto Paul Manning a caccia di farfalle in Sud America. Egli era molto vicino a scoprire il fatto che la banca di Bush a New York City era segretamente posseduta dai nazisti, prima durante e dopo la II G.M. La proprietà di Thyssen della Union Banking Corporation è provata, e concretizza un capo d'imputazione per tradimento nei confronti delle famiglie Dulles e Bush per aver dato aiuto e sostegno al nemico in tempo di guerra.

Il primo fatto chiave che deve essere provato in ogni indagine criminale e che la famiglia Thyssen possedeva segretamente la banca di Bush. A parte la fonte di Gowen ed i documenti gemelli americani, un terzo gruppo di documentazione proviene dalla stessa famiglia Thyssen. Nel 1979 l'attuale barone Thyssen-Bornemisza (nipote di Fritz Thyssen) preparò una storia scritta della famiglia da condividere con i suoi alti dirigenti. Una copia di questo topo di trenta pagine intitolato "La storia della famiglia Thyssen e loro attività" venne procurata dalla fonte di Gowen. Essa contiene le seguenti ammissioni di Thyssen:

"Così, all'inizio della II G.M. la Banca voor Handel en Scheepvaart - una ditta olandese il cui unico azionista era un cittadino ungherese - era diventata la holding delle società di mio padre. Prima del 1929 egli deteneva le quote della Banca August Thyssen, ed anche sussidiarie americane e la Union Banking Corporation di New York. Le azioni di tutte le affiliate [nel 1945] erano nella Banca August Thyssen nel settore orientale di Berlino, da dove riuscii a farle trasferire in occidente all'ultimo momento. […]. Dopo la guerra il governo olandese ordinò un'indagine sulla situazione legale della società holding e, in attesa del risultato, nominai un olandese ex direttore generale di mio padre che si era rivoltato contro la nostra famiglia. In quello stesso anno, il 1947, ritornai in Germania per la prima volta dopo la guerra, travestito da autista olandese in uniforme militare, per stabilire i contatti con i nostri dirigenti tedeschi. […]. La situazione del gruppo cominciò gradualmente ad essere risolta ma non fu prima del 1955 che le società tedesche vennero liberate dal controllo alleato ed in seguito rilasciate. Fortunatamente le società del gruppo soffrirono poco dallo smembramento. Infine, fummo nella posizione di concentrarci su problemi puramente economici – la ricostruzione ed ampliamento delle società e l'espansione dell'organizzazione. […]. Il dipartimento creditizio della Banca voor Handel en Scheepvaart, che funzionava anche come società holding del gruppo, si fuse nel 1970 con la Nederlandse Credietbank N.V. che aumentò il suo capitale. Il gruppo ricevette il 25%. La Chase Manhattan Bank detiene il 31%. Per la nuova società holding venne scelto il nome di Thyssen-Bornemisza Group".

Dunque, gli archivi gemelli USA, la fonte olandese di Gowen e la storia della famiglia Thyssen confermano tutte indipendentemente che il padre ed il nonno del Presidente Bush facevano parte del consiglio di amministrazione di una banca che era segretamente posseduta dai principali industriali nazisti. La connessione di Bush con queste istituzioni americane è pubblicamente nota. Quello che nessuno sapeva, finché la brillante ricerca di Gowen non lo portò alla luce, era che i Thyssen erano i datori di lavoro segreti della famiglia Bush.

Ma cosa sapeva la famiglia Bush dei suoi collegamenti nazisti e quando lo seppe? Come manager anziani della Brown Brothers Harriman, dovevano aver saputo che i loro clienti americani, come i Rockefeller, stavano investendo pesantemente nelle società tedesche, compreso il gigante Vereinigte Stahlwerke di Thyssen.

NOTA BENE: tutti questi industriali erano generosi sostenitori dell’eugenetica e delle campagne di sterilizzazione/castrazione delle persone giudicate inadatte alla procreazione.

Come ripetutamente documenta il noto storico Christopher Simpson, è argomento di dominio pubblico che gli investimenti della Brown Brothers nella Germania nazista ebbero luogo con i servizi della famiglia Bush.

Quando scoppiò la guerra Prescott Bush venne colpito da un caso di morbo di Waldheimer, un'improvvisa amnesia del suo passato nazista? Oppure egli credeva veramente che i nostri benevoli alleati olandesi possedessero la Union Banking Corporation e la sua società madre di Rotterdam? Dovrebbe essere ricordato che nel gennaio del 1937 egli assunse Allen Dulles per "coprire" i suoi conti. Ma coprire da chi? Si aspettava che la piccola felice Olanda dichiarasse guerra all'America? L'operazione di copertura aveva senso solamente come anticipazione di una possibile guerra con la Germania nazista. Se la Union Bank non era il condotto per riciclare gli investimenti nazisti di Rockefeller in America, allora come avrebbe potuto la Chase Manhattan Bank controllata da Rockefeller finire a possedere dopo la guerra il 31% del gruppo Thyssen?

Si dovrebbe notare che il gruppo Thyssen (TBG) ora è la maggiore conglomerata industriale della Germania, e, con un patrimonio netto di più di 50 miliardi di dollari, una delle più ricche società al mondo. La TBG è talmente ricca che ha persino acquistato le società della famiglia Krupp, famoso fabbricante di armi di Hitler, lasciando i Thyssen gli indiscussi campioni di sopravvivenza del Terzo Reich. Dove hanno preso i Thyssen il denaro per partire con la ricostruzione del loro impero con tale velocità dopo la II G.M.?

Le enormi somme di denaro depositate nella Union Bank prima del 1942 sono la migliore prova che Prescott Bush servì consapevolmente da riciclatore del denaro per i nazisti. Tenete a mente che i libri ed i conti della Union Bank nel 1942 vennero congelati dall'Alien Property Custodian USA e non vennero restituiti alla famiglia Bush fino al 1951. A quel tempo, le azioni della Union Bank, che rappresentavano il valore di milioni di dollari di azioni industriali e di obbligazioni, vennero sbloccate per la circolazione. La famiglia Bush credeva realmente che tali enormi somme provenissero da aziende olandesi? Si potrebbero vendere bulbi di tulipano e scarpe di legno per secoli e non raggiungere quelle somme. Una fortuna di questa misura poteva essere arrivata solamente dai profitti che Thyssen fece riarmando il Terzo Reich e quindi nascosti, prima dagli ispettori fiscali nazisti e poi dagli Alleati. I Bush sapevano perfettamente bene che la Brown Brothers era il canale del denaro americano nella Germania nazista, e che la Union Bank era la conduttura segreta per riportare dall'Olanda in America il denaro nazista. I Bush dovevano aver saputo di come funzionava il circuito segreto del denaro poiché essi erano nel consiglio di amministrazione in entrambe le direzioni: fuori dalla Brown Brothers, dentro la Union Bank.

Inoltre, la misura del loro compenso è commensurata con il loro rischio come riciclatori del denaro nazista. Nel 1951 Prescott Bush e suo suocero ricevettero una quota delle azioni della Union Bank, ciascuna del valore di 750.000 dollari. Un milione e mezzo di dollari erano un sacco di soldi nel 1951. Ma allora, dal punto di vista di Thyssen, comprare i Bush era stato il miglior affare della guerra.

Il punto decisivo è grave: E' abbastanza disdicevole che la famiglia Bush abbia aiutato a raccogliere per Thyssen il denaro da dare a Hitler per il suo avvio negli anni '20, ma dare aiuto e sostegno al nemico in tempo di guerra è tradimento. La banca di Bush aiutò i Thyssen a fabbricare l'acciaio che uccideva i soldati alleati. Per quanto possa sembrare negativo aver finanziato la macchina bellica nazista, aver aiutato ed assistito l'Olocausto era peggiore. Le miniere di carbone di Thyssen utilizzavano schiavi ebrei come se fossero materiali usa e getta. Vi sono sei milioni di scheletri nell'armadio della famiglia Thyssen, ed una miriade di domande criminali e storiche cui deve essere data risposta sulla complicità della famiglia Bush.

Il carisma di Hitler: come è nata l’invenzione di un messia tedesco


Carismatico: l’aggettivo ricorre d’obbligo (insieme – come ovvio – a quello di diabolico), nel giudizio della generazione a lui contemporanea. Ed è proprio dal carisma di Adolf Hitler che si fa discendere l’ipnosi collettiva (e nefasta) di un popolo nei confronti del proprio dittatore.

Una ipnosi inspiegabile se si considerano l’aberrazione di certi crimini, a meno che non si debba affermare che un intero popolo, in un dato periodo storico, è stato preda di una pazzia totalizzante.

L’ipotesi, come ovvio, è da scartare. E allora resta l’interrogativo: “Come poté un individuo tanto comune, banale, così poco corrispondente alle concezioni borghesi di cultura e di carriera come Adolf Hitler, conseguire un simile risultato?”.

La domanda è alla base di un interessante saggio da poco pubblicato da Feltrinelli e intitolato appunto Il carisma di Hitler. A firmarlo, Ludolf Herbst, docente di storia contemporanea e autore di numerosi saggi sul tema.

Con l’aiuto delle categorie fornite dalla sociologia del potere di Max Weber, Herbst sostiene che Hitler, grazie alla collaborazione di una piccola cerchia di seguaci, riuscì a inventare una leggenda del Fuhrer carismatico per sfruttare in favore del partito nazista le aspettative messianiche del popolo tedesco scosso dalla crisi fra le due guerre mondiali.

Uno stratagemma arguto, ma pur sempre uno stratagemma, che grazie a un incessante bombardamento che oggi definiremmo mediatico portò al suo nefasto risultato.

Il Tiranno, da seduttore a idolo infranto


Il saluto ai soldati bambini e la morte nel bunker

Adolf Hitler con gli ultimi combattenti del Reich: alcuni bambini che il dittatore nazista incontra fuori dal suo bunker, a Berlino. Il 30 aprile 1945 si suiciderà e il suo cadavere sarà bruciato.

lunedì 6 febbraio 2012

ANGIOLINO MASCIA: 20 mesi nell’inferno di un lager nazista

Molto spesso la grande storia, ci scorre accanto. Anche nei suoi risvolti più drammatici e non lo sappiamo o facciamo finta di saperlo. Nella ricorrenza della giornata delle memoria, pubblichiamo un ricordo dell’Aviere ANGELOMARIA MASCIA (Cercemaggiore 1921 – Toro 1985),catturato in Albania e deportato dai nazisti il 9 settembre 1943 nel Campo di Concentramento di Goerlitz (Stammlager VIII A); liberato dalle truppe alleate il 20 aprile 1945.

Insignito della Medaglia d’Onore concessa dal Presidente della Repubblica alla memoria.
 
Torino, settembre 1941 il ventenne aviere Angiolino Mascia
 


70 anni dopo, Altilia giugno 2011, Medaglia d’onore alla memoria

20 MESI NELL’INFERNO DI UN LAGER NAZISTA
Medaglia d’onore alla memoria di Angelomaria Mascia
internato militare italiano in Germania (1943-1945)


2 giugno 2011 Festa della Repubblica. Una celebrazione particolarmente solenne quella di quest’anno nella ricorrenza del 150mo anniversario d’Unità d’Italia: in programma presso il teatro romano di Altilia-Saepinum la consegna delle medaglie di onore ad alcuni internati militare molisani nei lager nazisti ed a i familiari dei deceduti. Un colpo d’occhio particolarmente commovente e suggestivo: le bandiere e i labari delle associazioni d’arme, i gonfaloni comunali e della Provincia di Campobasso, le fasce tricolori di innumerevoli sindaci, stretti attorno alle massime autorità civili e militari della regione, e al Prefetto Stefano Trotta nel ruolo di padrone di casa.


Tra gli insigniti della medaglia d’onore concessa dal Presidente della Repubblica in forza della legge n. 296 del 2006, c’è l’aviere Angelomaria Mascia, detto Angiolino, nato a Cercemaggiore nel 1921, e proprio il 27 gennaio, quasi una predestinazione la sua. Catturato dalle forze armate tedesche in Albania, il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, fu internato nel campo di concentramento nazista di Goerlitz, lo Stammlager VIII A. A Goerlitz Angiolino resterà rinchiuso fino alla liberazione avvenuta il 20 aprile 1945 per mano dalle truppe alleate, che lo tratterranno prigioniero per altri 4 lunghi mesi fino al 2 settembre 1945 quando finalmente potrà rientrare in patria, ponendo fine a una odissea iniziata con la chiamata alle armi di 4 anni prima, nel maggio 1941. Oltre quattro anni di peregrinazioni, segnati pesantemente dalla campagna di guerra in Albania e soprattutto da venti mesi di vita dura nel campo di concentramento, per aver rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e di continuare la guerra nazifascista: per aver scelto con l’internamento la fedeltà alle stellette della patria.

Torino, 1941, a dx Angiolino con divisa e stellette dell’Aeronautica,
con il commilitone Giovanni Felice

Purtroppo Angiolino Mascia non ha avuto la soddisfazione di ritirare il riconoscimento dalle mani del prefetto Trotta e di fregiarsi della medaglia d’onore a risarcimento delle pene patite durante i lunghi anni della sua giovinezza in armi. A ritirare la medaglia conferita alla memoria di Angiolino, scomparso prematuramente nel 1985 a Toro dove si era sposato e trasferito fin dal 1952, ha provveduto a nome della famiglia tutta il figlio Giovanni, commosso oltre ogni dire, anche per la significativa presenza del sindaco di Cercemaggiore, Gino Donnino Mascia, nell’occasione della cerimonia invitato dal prefetto ad affiancarlo.



Altilia, 2 giugno 2011 A nome della famiglia, Giovanni Mascia ritira dal Prefetto Trotta la medaglia di onore alla memoria del padre Angiolino

Commosso il figlio, al ricordo dei ripetuti tentativi per attingere dalla viva voce del padre scomparso i particolari della tragedia epocale di circa un milione di italiani in armi, e le motivazioni che avevano spinto lui, insieme ad altri 650 mila soldati come lui, a preferire la prigionia nei lager tedeschi al passaggio dalla parte nazifascista. Le motivazioni sue e di altri centinaia di migliaia di sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista, la misera fine delle guerre di Mussolini e lo sfacelo delle forze armate all’8 settembre. Commosso perché il padre poco più che ventenne aveva avuto tutte le ragioni di questo mondo a sentirsi tradito dal re e da Badoglio che lo avevano abbandonato senza ordini nelle mani dei tedeschi. Eppure aveva resistito a durissimo prezzo e non era passato nelle file del nemico e dei suoi alleati.

Commosso perché il padre contadino e falegname tuttofare, poi mugnaio in pianta stabile, a venti anni, con la sola quinta elementare, di sicuro avrebbe avuto difficoltà a esplicitare la scelta della resistenza, magari inconsapevole. O magarti dettata dalla convinzione che non avendo tradito nessuno, non voleva avere niente a che fare con i tedeschi, preferendo restare tra i reticolati dei lager piuttosto che immaginare di continuare a combattere contro altri italiani sotto il comando nazista.

Certamente avrebbe avuto grande difficoltà a ricordare i sentimenti provati nei confronti di ufficiali e commilitoni che, al contrario, finendo per cedere agli inviti minacciosi dei carcerieri e alla propaganda ricattatoria degli ufficiali repubblichini, avevano via via aderito al Terzo Reich e alla Repubblica Sociale Italiana. Chissà se in costoro aveva avuto il sopravvento il desiderio di scampare alla misera sorte personale e porre un freno alla fame devastante, oppure quello di evitare possibili ritorsioni alla famiglia lontana, o proprio la speranza di riabbracciarli presto, i propri cari, magari la fidanzata o la moglie, i figli piccoli, o infine l’aspirazione di poter finalmente tornare a un lavoro libero, alla vita. O semplicemente sarà stato per il fisico fiaccato e le forze che erano venute meno…


Albania 1942, Con camper e tende



Albania 1942, A mensa sulla spiaggia


Albania 1942, La nuotata


Si può soltanto immaginare il dramma di chi ha vissuto e affrontato queste terribili alternative. Ma senza scendere a scandagliare la sacralità delle scelte più intime e sofferte, al figlio sarebbe bastato parlare della vita di tutti giorni a cominciare dalle foto che ritraevano il giovane padre, nell’elegante divisa azzurra dell’aeronautica nel settembre 1941 a Torino Mirafiori: le foto che lui aveva spedito con gli inevitabili baci alla madre a Cercemaggiore. Gli sarebbe bastato commentare le non poche foto scattate nel 1942 in Albania, davanti a un tavolo da lavoro, addossato a una baracca di legno posta ai margini di un bosco, o davanti allo stesso tavolo trasformato nella mensa approntata sulla spiaggia in riva al mare. Il mare d’Albania: meta di frequenti nuotate ben documentate dagli scatti virati con la seppia. Certo, le foto in costume da bagno, sul bagnasciuga o tra le onde, o le foto scattate a commilitoni sorpresi seminudi o in tuta da lavoro tra le spighe rigogliose dei campi di grano, lascerebbero pensare a momenti di beata spensieratezza anziché alla vigilia di un dramma senza confronti.


Albania 1943, Città albanese, forse Durazzo


Al figlio sarebbe bastato commentare insieme ad Angiolino le foto di una città albanese, probabilmente Durazzo, caratterizzata dalle croci di un cimitero in primo piano e dal minareto con la moschea nel profilo del retrostante abitato, che sembrava distendersi su un ben circoscritto braccio di mare. Gli sarebbe bastato sapere come sia avvenuto che queste scene idilliache abbiano potuto lasciare poi spazio a un anno di successiva campagna di guerra, sempre in Albania, con i successivi trasferimenti da Durazzo alla valle del Devoli, a Shiak, a Koritza, a Valona. E soprattutto cosa davvero sia successo quel fatidico 8 settembre, quando i soldati italiani furono sopraffatti da una piena di sentimenti e informazioni contrastanti tra la fine sperata della guerra e la tragica realtà della cattura per opera dei tedeschi. Ecco, gli sarebbe piaciuto apprendere i particolari di quei giorni di deportazione dai Balcani a Goerlitz, attraversando mezza Europa in treno. E chissà che ad Angiolino come a migliaia di suoi compagni il viaggio verso l’inferno non sia apparso sulle prime come il viaggio del sognato ritorno a casa, per tramutarsi di lì a poco nell’incubo della nuda realtà fatta dapprima di vagoni piombati, di un ammasso di corpi costretti in spazi angusti, di divise che cominciavano a sfilacciarsi addosso, a incrostarsi al sudore e alla sporcizia, di ore e ore interminabili al ritmo ossessivo e rombante del treno, che li portava diritto al filo spinato del lager di arrivo, con le torrette di avvistamento e le baracche di legno inadeguato già nei primi giorni di ottobre a fronteggiare l’inverno imminente.



Particolare del foglio matricolare di Angelomaria
con gli estremi della campagna di guerra in Albania,
la cattura, la deportazione e la liberazione

Gli sarebbe piaciuto parlare di tutto questo e di apprendere del comportamento dei compagni di viaggio, e della scorta prima e dei carcerieri poi. E di tante altri orribili aspetti: delle adunate senza fine per costringerli all’aperto, seminudi, a sfidare i rigori del freddo; degli interminabili rituali di disinfestazione degli abiti a brandelli da celebrarsi nudi, ma questa volte nelle baracche; delle latrine, ammesso che ci fossero state latrine nelle baracche o nel campo, e non pochi bidoni vuoti di benzina e il nudo pavimento delle baracche a disposizione di centinaia, migliaia di uomini; e della pulizia personale, ammesso infine che ci fosse al possibilità di accedere all’acqua per provare a continuare a considerarsi persone e non il numero che erano diventati.



Lo Stalag VIII A (o Stammlager VIII A), il campo di concentramento dei prigionieri di guerra della Seconda Guerra Mondiale, situato in prossimità di Goerlitz, a quei tempi in Germania, (oggi Zgorzelec, in Polonia)


Più di tutto gli sarebbe piaciuto sentire raccontare della fame, della fame spaventosa alla quale erano stati abbandonati, insieme al freddo e alla sporcizia, perché stremasse la loro resistenza e li costringesse all’adesione al nazifascismo. La fame che li portava a vendere nel più lurido dei mercati neri quel poco che avevano, un orologio, le stellette, le scarpe per un po’ di pane secco, una scatola di tonno, e sfuggire il tal modo alla pazzia. La sbobba di acqua calda con qualche grumo di patate o di carote, con la quale provare ad acquietare lo stomaco una volta al giorno, e la fetta di pane che sarebbe dovuta bastare fino al giorno dopo e spariva subito dopo, certo non bastavano a placare i morsi della fame, per sfuggire ai quali non restava che dormire, per chi ci riusciva. La fame sarà stata disumana se tra le poche righe che Angiolino n. 17619 dallo stalag VIII A n. 17002 riusciva a spedire al “caro padre”, a Cercemaggiore, non mancava mai, con l’assicurazione di stare bene in salute e così sperare pure dei cari e nonostante la pietosa bugia che il mangiare fosse sufficiente, la richiesta a mandargli prima possibile il pacco con “pasta, riso, conserva, formaggio e altro genere a tuo parere”.



1943/1945, Lettere di Angiolino dallo Stammlager VIII A al padre. A parte le solite frasi sullo star bene in salute, era sempre pressante la richiesta di cibo


Di tante altre cose ancora gli sarebbe piaciuto sentire: dei maltrattamenti inevitabili subiti, delle umiliazioni che erano costretti a sopportare, dell’affanno del lavoro coatto (in campagna presso un contadino o se no dove?) , dei giacigli senza materassi e senza coperte cui affidare i corpi debilitati, delle febbri e dei deliri degli ammalati, dello strazio degli appelli mattutini ai quali giorno dopo giorno mancava sempre qualcuno che non ce l’aveva più fatta ed era stato portato via dalla carrozza dei morti. E poi finalmente, dopo tanta miseria, gli sarebbe piaciuto sentirsi riallargare il cuore al racconto della liberazione avvenuta in quel fatidico, luminoso 20 aprile quando le truppe alleato avevano sfondato i cancelli del lager e reciso il filo spinato della recinzione.


1941-1945 Angiolino Mascia, prima e dopo la detenzione
nel Campo di Concentramento di Goerlitz (Stammlager VIII A)
Al figlio di Angiolino Mascia nato e Cercemaggiore e vissuto poi a Toro, sarebbe piaciuto visionare insieme al padre, internato militare italiano n. 17619 dallo Stammlager VIII A n. 17002 di Goerlitz, alcuni pass alleati successivi alla liberazione dal lager, e un documento di quei giorni, per commentare amaramente tra i segni distintivi del deportato il “braun” dei capelli. Probabilmente il padre non lo aveva mai notato. Ma per i seguaci dell’arianesimo puro, un aviere italiano che aveva rifiutato di combattere ai loro ordini, non poteva avere i capelli biondi. E così lui che non solo li aveva biondi ma di un biondo tendente quasi all’albino si era ritrovato con i capelli “braun”, cioè scuri, tra i suoi tratti somatici caratteristici. Al figlio sarebbe piaciuto chiedere conto della città dove il padre era stato condotto dopo la liberazione, di quella Delmenhorst, della quale s’era portato dietro una cartolina, ridotta poi a un brandello di cartolina, dove comunque si riconosceva il mercato coperto dalla curiosa struttura circolare, a forma di torta nuziale. E ancora chiedere di un paio di foto di una giovane donna tedesca con due splendidi bambini biondi, e della tessera della croce rossa per il viaggio di ritorno dei deportati , i quali a Bressanone erano stati accolti dal comitato parrocchiale che aveva offerto loro una immaginetta con sovraimpressa la preghiera della Madonna del Buon Ritorno con l’esortazione a essere comunque grati alla Vergine per la grazia loro accordata. Ecco, gli sarebbe piaciuto parlare, e parlare a lungo di queste cose e del ritorno alla vita di tutti i giorni. Ma erano passati ventisei anni dalla sua morte e non era più possibile farlo. Così come era stato impossibile farlo quando suo padre era in vita.


Aprile 1945, Un documento di riconoscimento del prigioniero



Aprile 1945, tessere varie, tedesche e degli Alleati


1945-Cartolina della città tedesca di Delmenhorst, dove Angiolino fu portato dagli Alleati


Durante le lunghe partite a scacchi delle serate invernali, Angiolino Mascia non aveva mai accennato ai venti mesi passati nell’inferno del lager nazista, dove chissà da chi e chissà come aveva imparato il nobile gioco sì, ma poche o nessuna parola tedesca, lui che coi tedeschi aveva avuto così strettamente a che fare, per un paio di interminabili anni. Né il figlio né altri gli avevano mai sentito pronunciare una parola tedesca, a parte l’inevitabile “schnell”, “presto, subito”, retaggio di ordini che non ammettevano repliche e indugi. Né tantomeno lo aveva sentito parlarne in altra sede. Il figlio lo ricorda già ammalato e prossimo alla fine, degente in ospedale, restarsene impassibile davanti alle sue reiterate richieste.

– Papà è mai possibile che io debba sfogliare libri e riviste, rovistare archivi, intervistare altri testimoni, e non possa avere una sola informazione da te?

– E che ti devo dire! – fu la sua placida risposta. – Sono cose passate…

Ecco, probabilmente Angiolino si era riportato dal lager un solo desiderio: dimenticare tutto, perché tutto gli era apparso brutto, duro, doloroso, vergognoso da ricordare. E non ha mai voluto spendere parole per farlo. Ed ecco perché, in un magnifico pomeriggio che sembrava sospeso nel tempo senza tempo di Altilia-Saepinum, nel ritirare la medaglia d’onore alla sua memoria, il figlio si è particolarmente commosso. Non poteva non commuoversi nel dire grazie ancora una volta alla memoria del padre, per i quattro anni di sacrificio e di dolore offerti alla patria e per la lezione morale insita nella scelta di resistere e nella consegna del silenzio eloquente di una vita intera.

Addio ad un altro testimone dei tragici fatti di Avasinis del 1945: "Nena di Fracàs"


Se ne è andata (05/02/2012) anche  "Nena di Fracas", Elena Rodaro di Avasinis, una dei pochi testimoni di quel tragico eccidio del 2 maggio 1945.
Nena ricordava innanzitutto l'arrivo delle SS in paese: "Quando sono entrate le SS, i partigiani hanno sparato qualche colpo dall'alto. Entrati in paese, non hanno fatto interrogatori: hanno iniziato a sparare contro chiunque avessero incontrato" e poi citava alcuni dei tanti casi di violenza: "In una stanza erano rinchiusi una quindicina di persone, tra uomini e donne: le SS hanno fatto fuoco a bruciapelo contro tutti.

C'era una donna che aveva appena fatto il formaggio: l'hanno uccisa subito, senza fare nessun interrogatorio. Più avanti hanno fatto fuoco in una stalla dove erano andati a rifugiarsi diversi: se ne sono salvati solo due. Dopo sono entrati in canonica dove hanno ucciso a bruciapelo le famiglie che erano lì e hanno ferito il parroco che si è finto morto imbrattandosi col suo sangue. Poi hanno proseguito, uccidendo chiunque incontrassero. Hanno quindi portato una trentina di corpi in una roggia con dei carretti, altri ne hanno buttati sotto il ponte del Cjanal..."

Raccontava poi della straziante ricerca dei corpi degli uccisi, sinistramente nascosti dagli assassini: "Non si trovavano i cadaveri...... Mia madre cercava mia sorella come una disperata, ma non la trovava. Era stata mia suocera, che era rimasta nascosta nel solaio, a dirle che aveva visto i tedeschi caricare i corpi sui carretti e portarli lontano. Si vedevano solo i piedi e le braccia spuntare, li avevano coperti. Pensavamo li avessero portati al cimitero e infatti mia madre, mio fratello e la moglie di Vittorio sono andati a cercarli prima in cimitero, ma non c'era nessuno. Allora sono tornati indietro e mia madre ha preso il viottolo di campagna, dopo aver visto le tracce dei carretti sul fango bagnato di pioggia. Quando è arrivata alla roggia e ha visto il mucchio di cadaveri. Avevano scaricato i carretti: ce n'era di qua e di là del ponte e alcuni fin nel Cjaneglàt. Mio fratello ha preso mia sorella in braccio, altri sono andati a prendere il carretto. I morti, infatti, avevano quasi ostruito il corso della roggia e l'acqua ormai vi scorreva sopra. Sono cose che non si possono nemmeno raccontare, c'è solo da pregare che non si ripetano!"

Dopo aver raccontato delle uccisioni di sbandati dell'esercito tedesco, ritenuti responsabili dell'eccidio, e della vendetta operata contro dei cosacchi, individuati come collaboratori, il ricordo di Nena andava allo strazio dei funerali delle vittime: "Americani o inglesi non si sono mai visti ad Avasinis, non si è visto nessuno... Abbiamo solo avuto la preoccupazione di seppellire i morti.

A Osoppo e a Gemona le campane suonavano a festa; ad Avasinis la campana a morto avrà suonato per mezza giornata.... Poi c'è stato di nuovo il silenzio."

La testimonianza di Matìe di Bordan


Nel libro di Anselmo Picco "Cuant che las caneles a cressevin tai boçs da conserve", vi sono diverse testimonianze dirette che si rifanno alla dura esperienza della deportazione nei lager tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

Un contributo significativo, nel giorno della "Giornata della Memoria", può venire, per esempio, dal racconto della esperienza di Mattia Picco di Bordano, classe 1920 (Matìe da Menone per i suoi compaesani).

Soldato del XXXIII Corpo di Fanteria, sul fronte jugoslavo, venne catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre e mandato prima nel Campo IV B nei pressi di Berlino poi, nelle vicinanze, a lavorare nella fabbrica dell'Arado, dove si costruivano aerei da guerra. Durante l'estate del '44 venne trasferito in un campo vicino a Lubecca, per ritornare poi presso Berlino, sino alla Liberazione. Ecco uno stralcio del suo racconto sugli ultimi giorni passati nel Lager e sulle peripezie vissute per ritornare a casa:

A questo punto i tedeschi cominciarono a distruggere tutti i macchinari della fabbrica. Restammo tre giorni in balia degli eventi, però il cibo ci veniva distribuito regolarmente. Il terzo giorno ci radunarono in mezzo al cortile della fabbrica dove ci divisero in due gruppi: uno lo mandarono nella baracca e l'altro lo mandarono a cercare un superiore tedesco morto nel bombardamento. Io ero fra questi ultimi ma l'ufficiale tedesco non lo trovammo. (...)


Il giorno seguente il mio amico milanese venne a cercarmi perchè dovevano radunarci e poi scortarci in marcia fino all'autobahnn (autostrada). Ci fecero prendere però una strada secondaria perchè sull'autostrada si stavano ritirando le truppe tedesche in fuga dal nemico. Noi eravamo in mezzo a due fuochi: da una parte i russi, dall'altra gli americani. Ci fecero attraversammo il fiume Elba su un battello e poi ci abbandonarono al nostro destino. Camminammo per tre giorni nel bosco, allo sbando, finchè ci imbattemmo in un soldato delle SS che parlava bene l'italiano perchè aveva combattuto in Abruzzo e che ci regalò un po' di biscotti . Continuammo a camminare ancora per tutta la notte e incontrammo un gruppo di neri (americani) fatti prigionieri dai tedeschi. Proseguimmo e, giunti in un campo, vedemmo tante bandiere bianche. Pensavamo di trovarci in un ospedale, invece era un campo di soldati americani. Lì ci alloggiarono in una specie di teatro e ci diedero da mangiare. Restammo in questo luogo un paio di giorni. Poi ci fecero riattraversare il fiume Elba e ci portarono ad Allen Sud Salen in una caserma diroccata in seguito ad un bombardamento. Lì incontrai persone di ogni razza.

Ci fermammo in questo campo fino agli ultimi giorni di giugno. Ci davano da mangiare regolarmente, e il cibo era sicuramente migliore di quello che ci distribuivano i tedeschi. Ricordo ancora il sapore di una zuppa, una specie di “panade”. Nel frattempo noi avevamo preso nella cantina della caserma tedesca dei piselli, della farina, della margarina e anche un po' di cioccolata. (...) In luglio da qui, ci trasferirono nella fortezza di Ulm: lì c'erano diversi friulani fra i quali alcuni di Gemona. Il campo era comandato dai francesi che non ce l'avevano “molto buona” con noi italiani, perchè ci accusavano di averli “pugnalati alla schiena”.

Ci perquisivano tutti e se ci trovavano addosso roba di valore ce la prendevano e se la tenevano loro. Passati quindici giorni circa, ci accompagnarono in stazione e ci inviarono verso l'Austria. Mentre aspettavamo il nostro convoglio, c'era un treno americano fermo sui binari: noi italiani salimmo e raccattammo tutto ciò che poteva esserci utile, soprattutto cioccolata, biscotti e gallette. Avevamo paura ma tutti andammo ugualmente a rubare qualcosa. Giunti in Austria, in una caserma, ci fecero lavare e in seguito visitare. Poi ci mandarono al Brennero dove militari italiani ci diedero dei panini e qualcosa da bere. Ripartimmo in treno e nei pressi di Verona a Pescantinas, ci fermarono in un binario morto. Qui incontrai alcuni conoscenti di Braulins i quali mi informarono che lo Stato aveva messo a disposizione alcune corriere per raggiungere le varie regioni d'Italia. Quella diretta in Friuli era ormai al completo così restammo a piedi. Per fortuna passò un camion diretto in Friuli, per la precisione a Nimis, che trasportava scarti di sedie. Ci diede una passaggio fino a Tricesimo dove arrivammo a mezzanotte passata. Sulla strada viaggiavano tanti camion inglesi che riconobbi perchè trascinavano dietro al mezzo la solita catena di circa cinquanta centimetri ( di cui però ignoravo e ignoro tutt'ora l'utilizzo). Nessuno di loro ci caricò. Per fortuna più tardi si fermò un camioncino, con a bordo i fratelli Tono e Bono di Venzone, i quali gestivano una macelleria. Per prima cosa si assicurarono che non avessimo pidocchi e al nostro diniego ci fecero salire. Facevano anche i contrabbandieri e avevano il furgone carico di mais. Ci chiesero di dove eravamo e noi rispondemmo che uno era di Braulins, che uno era di Bordano e che il terzo, che si era unito a noi, abitava ad Osoppo. Quest'ultimo scese all'altezza del bivio che dall'attuale ristorante “Il Fungo” porta ad Osoppo, mentre io e Antonio Feragotto (suocero di Pieri Pacheti) scendemmo in Campagnola all'incrocio dove attualmente c'è il semaforo. Siccome il ponte di Braulins era stato distrutto attraversammo il Tagliamento a nuoto, perchè a causa del buio, non avevamo visto che poco più a valle avevano costruito un ponte provvisorio. Antonio mi chiese se volevo passare la notte a casa sua, ma io desideravo arrivare a Bordano, così mi incamminai verso il mio paese. La prima persona che incontrai fu Tonine, la sorella di Letizia , la quale, quando mi riconobbe, cominciò a gridare ad alta voce il mio nome. Chiamò i miei genitori che, da quando la nostra casa era stata bruciata, dormivano sul fienile. Era il 29 luglio e ricordo che era domenica.