venerdì 22 giugno 2012

Sophie Freud parla della famiglia


L’avanzamento nazista in Europa durante la seconda guerra mondiale obbligò l’adolescente Sophie Freud (figlia di Martin, figlio di Sigmund) a fuggire insieme alla madre, da Vienna alla Francia e da qui negli Stati Uniti, a Baltimora.

Nel suo diario la giovane Sophie raccontava del lungo viaggio in nave da Lisbona a Baltimora come un viaggio piacevole, in cui lei era corteggiata da un gruppo di polacchi che le facevano molti complimenti.

Sophie Freud, 83 anni, ha letto questo suo diario lo scorso 7 Febbraio 2008, presso la Carnegie Mellon University, dove è stata invitata per parlare della sua vita.

La nipote del leggendario Sigmund Freud, autrice del libro “Living in the Shadow of the Freud Family” è stata invitata non solo in quanto nipote del fondatore della psicoanalisi, ma anche in quanto madre di George Loewenstein, che insegna proprio in quella Università. (La Freud è stata sposata per 40 anni con Paul Loewenstein, dal quale è ora divorziata.).

Mrs. Freud è stata insegnante presso il Simmons College di Boston, dove insegnava nel Corso per assistenti sociali; ora è in pensione. Il figlio è invece professore di psicologia ed economia nel corso di scienze sociali presso l’Università CMU.

La Freud ha letto, durante la conferenza, degli estratti di lettere che lei stessa aveva inviato a suo padre, Martin Freud, e a sua madre, Esti Drucker Freud, la quale non andava d’accordo con il marito e per questo era stata allontanata dalla famiglia Freud.

Quando Esti chiese, ad esempio, al suocero Sigmund di spendere una parola per farla riconciliare con il figlio Martin ricevette un rifiuto: “Mi dispiace, non posso farci nulla,” le scrisse Sigmund, “Tu rendi difficile la vostra vita in comune”.

Sono state anche citate le parole che Sigmund Freud scrisse ad un altro parente a proposito della nipote Sophie, “E’ una maliziosa meshugah (pazza, in lingua ebraica) ed è anche matta in senso medico”.

“Questa fu la diagnosi” ha raccontato in modo impassibile Sophie Freud leggendo la lettera.

E’ a queste lettere e ad altri documenti, fra cui un’autobiografia scritta da sua madre Esti Freud negli anni settanta -che nella conferenza ha fatto riferimento la signora Sophie, la quale ha raccontato in particolare la storia di sua madre e suo padre. Si erano conosciuti durante la prima guerra mondiale, mentre lui svolgeva il serivizio militare nell’esercito autroungarico e poi divenne prigioniero di guerra in Italia.

In una lettera Esti accettò la sua proposta di matrimonio. “Hai catturato tutti i miei pensieri” lei gli scrisse “Sono pronta per diventare la tua migliore e più fedele amica per tutta la vita”

Ma l’amore finì presto. Esti, che veniva da una famiglia agiata, non era preparata ad assumersi le responsabilità della conduzione di una casa e di una famiglia. Il loro matrimonio finì prestissimo.

Oltre a Sophie, che nacque nel 1924, dal loro matrimonio nacque, Walter, nato nel 1921.

Martin ed Esti si separarono quando i Freud fuggirono nel 1938 dall’Austria. Martin e Walter andarono a Londra con Sigmund, gli altri figli e gli altri nipoti, mentre Esti e Sophie andarono a Parigi con altri parenti. La coppia non si riconciliò mai ed i figli ebbero cattivi rapporti con il genitore che non si prendeva direttamente cura di lui (o di lei).

Walter non perdonò mai Esti di averlo punito quando era un bambino. Walter ricordò in seguito un episodio in cui la madre gli chiese: “Chi pensi che sia la migliore madre del mondo?” E lui rispose: “Mrs. Shaw (la madre di un suo amichetto)”. Per questo Esti lo picchiò.

Sophie ha menzionato naturalmente la fine orribile che fecero le sue pro-zie (sorelle del nonno Sigmund) in un campo di concentramento. Anche Sophie e la madre avrebbero potuto subire lo stesso destino, quando i nazisti invasero la Francia se le due donne, impossibilitate a prendere un treno, non fossero fuggite in bicicletta.

Malgrado i rapporti non ottimi fu proprio Martin che suggerì ad Esti, nel Dicembre del 1941, di andare negli Stati Uniti. Si limitò solo al consiglio: niente soldi e per questo madre e figlia impiegarono un anno prima di poter giungere a Baltimora.

Sophie ebbe così la possibilità di studiare e di laurearsi in filosofia presso la Florence Heller School of Social Welfare presso la Brandeis University. La famiglia Freud fu, a suo dire “una normale famiglia disfunzionale con tutti i conflitti ed i dispiaceri che ha avuto la maggior parte delle persone” specialmente durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale.

Francofonte: ucciso in lager nazista, figli lo cercano per 67 anni. Tornate al paese spoglie di Giuseppe Mineo, classe 1909


Sono tornate a Francofonte, dopo le lunghissime ricerche del figlio Luciano e del nipote che porta il suo nome, le spoglie di Giuseppe Mineo francofontese nato il 29 maggio del 1909, giovanissimo padre di due figli in tenera età - Luciano, appunto, e Salvatrice - che lasciò gli affetti e la sua città natale per combattere il secondo conflitto mondiale, durante il quale fu ucciso in un campo di concentramento per mano nazista.

Dalla lontana data della sua partenza solo notizie confuse, poi la conferma ufficiale della sua morte, avvenuta a Berlino l’11 marzo del 1944. A seguire la disperazione della giovane moglie, il desiderio dei due piccoli orfani di guerra di riportare almeno i resti mortali del proprio padre a casa, che solo oggi si è realizzato.

Ad accogliere la teca proveniente dal Cimitero Militare Italiano i commossi familiari, i due figli ormai anziani, di 73 e 76 anni, i tre nipoti , Giuseppe, un altro Giuseppe e Vincenza, i pronipoti e molte autorità civili e militari del territorio. A suffragare il momento del ritorno la messa officiata nella Chiesa Madre da padre Salvatore Musso.

“E’ stato un momento importantissimo e molto commovente per la nostra famiglia – spiega il nipote Giuseppe – mio padre aveva espresso la volontà di riportare a casa il suo papà scomparso prematuramente, io ho cercato di far avverare questo suo desiderio, avviando le ricerche che hanno poi portato alla restituzione delle spoglie. Ringrazio per il contributo offertoci l’Amministrazione Comunale nella persona del Sindaco Giuseppe Castania, l’Esercito Italiano, Il Ministero della Difesa, e per la disponibilità mostrata l’Ambasciata Italiana a Berlino”.

Svezia: la regina Silvia è figlia di un nazista, lo scandalo a corte


Lo scandalo investe la corte reale di Svezia: la regina Silvia è figlia di un nazista. Come tutti sanno, la regina è di origine tedesca. Meno noto invece il fatto che il padre fosse un membro attivo del partito nazista e che fece i soldi rubando una fabbrica di armi, appartenuta in origina agli ebrei. Lo ha rivelato Kalla Fakta, programma televisivo svedese. Ma lo scandalo non finisce qui. Già, perchè in precedenza la regina aveva fermamente negato il coinvolgimento del padre con il nazismo: secondo la sua versione la fabbrica avrebbe prodotto trenini giocattolo, asciugacapelli e anche mascherine anti-fumo. E non sarebbe mai appartenuta a degli ebrei.

La popolarità della famiglia reale svedese, salita alle stelle con il matrimonio di Victoria di Svezia e Daniel Westling, è drammaticamente in calo. La pubblicazione dei documenti che rivelano che Walther Sommerlath, padre della regina, fosse un nazista si è riflettutto negativamente sull’immagine pubblica dell’intera famiglia reale.

Pare proprio che il padre della regina Silvia di Svezia fosse entrato fra le fila dei nazisti già nel 1934, solo un anno dopo l’ascesa di Hitler al potere. Nello stesso documento viene anche rivelato come Sommerlath rientrò in Germania un anno prima dello scoppio della guerra, appropriandosi di una fabbrica di proprietari ebrei che produceva carri armati e armi.


La regina Silvia di Svezia non rimane che scusarsi pubblicamente del fatto che: “il padre sia stato un membro del partito nazista, notizia che ha appreso solo nell’età adulta”.

La Chiesa ortodossa russa canonizza martire dei nazisti


Alexander Schmorell faceva parte del gruppo della "Rosa bianca" che si era opposto in maniera non violenta a Hitler


Un'altra vittima dei nazisti agli onori degli altari. Ma questa volta non si tratta di un martire cattolico, ma di un ortodosso: Alexander Schmorell, uno dei cinque studenti cristiani appartenenti al famoso gruppo della «Rosa bianca» condannati a morte per la loro opposizione - non violenta – a Hitler. Ma quella celebrata lo scorso fine settimana nella cattedrale russa di Monaco di Baviera ha rappresentato un evento significativo anche perché è stata la prima canonizzazione celebrata congiuntamente dalla Chiesa ortodossa russa fuori frontiera e dal Patriarcato di Mosca da quando, il 17 maggio 2007, è stata ristabilita la comunione eucaristica. Erano infatti presenti, oltre all’arcivescovo di Berlino, Germania e Gran Bretagna, Mark (Arndt), e al metropolita di Orenburg e Saraktash, Valentin (Mishchuk), anche l’arcivescovo di San Francisco e America Occidentale, Kirill (Dmitrieff), e altri vescovi russi e ucraini.

Per ora si tratta di una canonizzazione locale, per la diocesi della Germania, ma in futuro non è esclusa la canonizzazione universale. «Nella nostra Chiesa la canonizzazione dei santi, in linea di principio, comincia dalla base, vale a dire dal popolo. Il popolo onora un santo. Nella mia diocesi — sottolinea Mark — tale questione è stata sollevata dalla gioventù, dagli studenti. Si sono appassionati al destino di Alexander, già da lungo tempo». Il responsabile ortodosso ha allora proposto il caso al concilio della Chiesa russa fuori frontiera la quale, nel 2007, ha stabilito che la diocesi di Germania poteva glorificare Schmorell tra i santi a livello locale. L’anno successivo anche il Patriarcato di Mosca ha annunciato la sua adesione al rito.


Alexander Schmorell nacque a Orenburg, in Russia, il 16 settembre 1917 da padre di origine tedesca, un medico, e madre russa, figlia di un prete ortodosso. Nel 1921 la sua famiglia si trasferì a Monaco di Baviera per sfuggire ai bolscevichi. Tuttavia Alexander non recise mai il suo legame spirituale con la Russia e in Germania continuò a frequentare la comunità ortodossa. Studente di medicina, venne arruolato e prestò servizio militare in Francia, Austria e sul fronte orientale. Ed è in quel periodo che maturò il suo rifiuto della guerra e dei folli progetti del Führer. Nell’estate del 1942, assieme ad Hans Scholl, giovane studente protestante, compose quattro opuscoli, sotto il nome “La rosa bianca”, che invitavano la popolazione tedesca ad aprire gli occhi dinanzi a quanto stava accadendo, a resistere con ogni mezzo possibile senza tuttavia ricorrere alla violenza, ribellandosi a ribellarsi a Hitler. Nei mesi successivi l’attività della «Rosa bianca» si intensificò e coinvolse altri tre studenti -la sorella di Hans Scholl, Sophie, Christoph Probst e Willi Graf, un fervente cattolico - e un docente, Kurt Huber, autore degli ultimi due volantini.

Pur con il suo carattere non violento, tale clamorosa protesta infastidì non poco il regime nazista. Il movimento venne scoperto e i loro aderenti furono arrestati, processati e condannati a morte. Alexander Schmorell venne giustiziato il 13 luglio 1943 nel carcere di Stadelheim, a Monaco. Il suo corpo riposa nel cimitero cittadino di Perlacher Forst, dove ogni anno, in ricordo, viene celebrata una panikhída.

«Sebbene la Rosa bianca non sia stato un gruppo religioso di per sé, è innegabile — si sottolinea in occasione della canonizzazione — che la fede in Dio di questi giovani è stata uno dei motivi principali che li ha portati ad agire con un tale coraggio. Alexander Schmorell era l’unico del gruppo a essere ortodosso, ma la fede che tutti loro hanno mostrato in ciò che hanno fatto è esemplare. Per quanto il rapporto di Alexander con l’ortodossia sia stato interpretato da alcuni come semplicemente un modo, per lui, di rimanere collegato al suo patrimonio russo, o un fascino rituale piuttosto che una vera fede, occorre dire invece che egli frequentava le liturgie ortodosse regolarmente e, come ha detto il suo amico Lilo Ramdohr, Alexander era uno che aveva sempre una bibbia con sé e per tutta la vita ha dimostrato amore per l’ortodossia. Nelle lettere dal carcere alla famiglia scrive, riguardo l’approfondimento della sua fede, che, sebbene sia condannato a morire, lui è in pace, sapendo che ha servito la verità». Così si conclude la sua ultima lettera, composta poche ore prima dell’esecuzione: «Vorrei lasciare questo nei vostri cuori: mai dimenticare Dio!».

Eredità di sangue: i figli dei gerarchi nazisti


La colpa ereditata può essere collettiva. Nella Germania del dopoguerra una generazione di bambini è cresciuta sapendo che i loro padri erano stati nazisti.

Per scrivere il suo libro Nato Colpevole, Peter Sichrovsky ha intervistato 40 discendenti di nazisti. La maggior parte di loro ha confessato che una cosa è condannare gli assassini, le torture, gli abusi commessi dai nazisti; un’altra renderti conto che tuo padre fu uno di loro. In molti casi lo vennero a sapere tardi e grazie a terzi: nelle loro famiglie si era instaurato un patto di silenzi.

Le reazioni dei figli dei nazisti oscillavano dall’odio e il rifiuto alla vergogna silente, al disgusto o alla lealtà. Nessuno parlava di amore riferendosi ai loro padri. Sichrovsky era impegnato a far sì che questi figli osassero chiedere ai loro genitori «Perché l’hai fatto?» e questa è, forse, la domanda che non avrebbero voluto o potuto fare, per paura della risposta: «Perché per me era giusto, non mi pento di nulla; continuerei a farlo».

Non mi pento di nulla è precisamente il titolo di una biografia di Rudolph Hess pubblicata da suo figlio, Wolf-Rüdiger Hess, negazionista dell’Olocausto, il quale sostenne che il padre non morì di morte naturale in carcere, ma fu assassinato.


Niklas Frank, uno dei due figli di Hans Frank, il governatore nazista della Polonia, racconto alla rivista tedesca Stern che il giorno in cui impiccarono suo padre dopo la sentenza di Norimberga, si masturbò con una foto di quell’uomo che riteneva un codardo, corrotto, assetato di potere, credule e assassino, «l’uomo che rese possibile Auschwitz».

Niklas Frank dedicò gran parte della sua vita alla pubblicazione di libri e articoli contro il padre. Suo fratello Norman dichiarò nel 1959 che suo padre era colpevole senza remore. «Ha commesso crimini terribili e ha pagato questo prezzo con la sua vita». Norman non ha voluto avere figli proprio per non spargere il seme maledetto, per far estinguere quel cognome infame.

Martin Bormann, il figlio del luogotenente di Hitler, si impegnò nella missione di investigare sulla vita di suo padre, con un obbiettivo: assicurarsi se fosse a conoscenza dell’olocausto e dei crimini perpetrati dal regime che servì o se fosse innocente. Arrivò alla conclusione di capire che suo padre sapeva tutto; la sua firma era infondo a troppi documenti e ordini importanti. Tuttavia, porta sempre nella sua borsa una vecchia cartolina che suo padre gli mandò nel 1943 nella quale lo chiamava «figlio del mio cuore». Si giustifica dicendo: «Pensi che questa è l’immagine che ho come figlio e non me la possono togliere».

All’interno della gerarchia dei crimini nazisti, dopo Hitler, forse quello che più provocò orrore e terrore è Heinrich Himmler, il capo delle temibili SS che diresse, come ministro dell’Interno, la polizia segreta della Gestapo e fu il promotore, l’organizzatore e il responsabile del programma dello sterminio degli ebrei, che odiava.

Himmler era orgoglioso delle sue SS, nelle sue parole «una Organizzazione Nazionale Socialista composta da uomini scelti per le loro caratteristiche nordiche e uniti da un giuramento di sangue [...] Con il coraggio di essere impopolari [...] Con il valore di essere duri ed insensibili».

In una sua arringa dell’ottobre del 1943, Himmler spiegò alle sue SS che «il popolo ebraico sta per essere sterminato [...] Molti di voi sapranno quello che è contemplare una montagna di 100, 500 o 1000 cadaveri [...] Questa è una pagina gloriosa della nostra storia». Gli ebrei, secondo Himmler, anche se fisicamente e biologicamente identici alla maggior parte degli esseri umani, erano mentalmente e spiritualmente inferiori: subumani.


Himmler era un fanatico, un tipo grigio, freddo, metodico, tremendamente efficace, ossessionato dal crescere e compiacere il Führer, ma era anche un padre affettuoso che venerava la sua unica figlia, Gudrun, una bambina bionda dall’aspetto angelico, che veniva chiamata Puppi (bambola). In una fotografia molto diffusa si vede Heinrich Himmler con indosso l’uniforme nera delle SS, nella manica sinistra una fascia con la svastica, tenendo sulle sue ginocchia la piccola Gudrun, e si nota un enorme contrasto tra quest’uomo col profilo da roditore, con naso affilato, occhiali rotondi, baffi alla fascista, guance cadenti e mento sfuggente e questa bambina bellissima, con trecce bionde, pelle bianca e tratti delicati, la perfetta ariana.

Gudrun adorava suo padre; era solita divertirsi a ritagliare le foto di Himmler che venivano pubblicate sui giornali e incollarle in un album.

Alla fine della guerra, Himmler fu catturato dagli inglesi e si suicidò prima di essere giustiziato, come il suo venerato Hitler. Gudrun e sua madre furono detenute in Italia dagli americani, che le rinchiusero in un campo di prigionieri, dove Gudrun diede mostra della sua ostinazione e del suo carattere.

Nel libro My Father’s Keeper (in italiano, I figli dei gerarchi nazisti) di Stephan y Norberto Lebert, sulla vita di sei figli di gerarchi nazisti, è raccolto un aneddoto molto esplicativo: a Gudrun non piaceva il rancio che le davano gli americani e iniziò uno sciopero della fame. Si ammalò, perse peso in maniera grave, ma continuò la sua protesta: dopo alcune settimane, lei e sua madre furono le uniche prigioniere che avevano il privilegio di mangiare la stesso pasto dei nordamericani. Gudrun e sua madre passarono due anni in altri campi di concentramento; le portarono a Norimberga, in qualità di testimoni.

A Gudrun chiesero se qualche volta era andata in un campo di concentramento.

- Una volta andai a Dachau – rispose.

– Con tuo padre?

– Sì

– E cosa hai visto lì?

– Mio padre mi fece vedere i giardini di erbe e mi insegno a differenziarli uno dall’altro – disse Gudrun.

– Vedo che…vuole farmi capire che non vide nessun prigioniero?

– Vidi qualche prigioniero… – ammise Gudrun

– Cosa ti spiegò tuo padre a proposito?

– Disse che quelli che portavano un triangolo rosso erano prigionieri politici, e gli altri dei criminali.

Non poterono chiederle altro. Gudrun venne a sapere della morte di suo padre per puro caso, i suoi carcerieri glielo avevano tenuto nascosto, ma un giorno un giornalista americano andò ad intervistare la moglie di Himmler nella sua cella e Gudrun osò fare quella domanda a cui nessuno aveva dato risposta:

- Dov’è mio padre?

– E’ morto – rispose il giornalista – Si è avvelenato con del cianuro qualche tempo fa.

Gudrun, che aveva già compiuto 15 anni, fu colpita da un collasso fisico e mentale.

Era una ragazzina pallida, malaticcia, molto magra, soggetta a svenimenti e poco sviluppata; a 16 anni la prendevano per una bambina di 12. Ha sempre negato il suicidio di suo padre e sostiene che venne assassinato.

Gli americani non sapevano come sbarazzarsi della vedova e della figlia del falco nazista. Confessarono di non avere famiglia o conoscenti, o chiunque altro a cui rivolgersi. Erano sole al mondo e aveva un nome maledetto. Gli americani le consigliarono di cambiarlo, ma Gudrun non volle, mantenne il cognome Himmler e, quando le veniva chiesta l’occupazione del padre, rispondeva: «Era il capo delle SS».

Gudrun ebbe vari problemi per essere ammessa a scuola e all’università e perse vari lavori a causa del suo cognome, ma si oppose categoricamente a modificarlo; per sua volontà si convertì in una specie di martire del nazismo. Con il tempo si sposò e si fece chiamare Gudrun Burwitz. Ebbe vari figli e fu una tipica madre di famiglia tedesca, con un hobby molto speciale: Gudrun Burwitz è a capo di una organizzazione di aiuto per gli ex membri del regime nazista chiamata Stille Hilfe (aiuto tranquillo), che offre loro aiuti finanziari, medici e legali, tanto in Germania come in altri paesi dove cercarono rifugio i nazisti profughi.

Stille Hilfe naque nel 1951 come organizzazione umanitaria promossa dall’aristocrazia nazista, dalla Chiesa cattolica e da quella protestante, che ebbe la benedizione di papa Pio XII, del vescovo e del sacerdote responsabile della Caritas tedesca. L’associazione dispone di ampi mezzi e più di un migliaio di benefattori.

Gudrun Burwitz è assidua frequentatrice dei meeting neonazisti e ha consacrato la sua vita alla riabilitazione della figura di suo padre e alla glorificazione della sua memoria. E’ una nazista convinta; per lei, suo padre non fu colpevole, ma vittima. A quanto pare ha un cattivo carattere, è una donna severa, scontrosa e testarda, che ha fatto della sua vita una crociata: Gudrun Himmler contro il mondo.

La biblioteca di Hitler


Timothy W. Ryback ha pubblicato il libro La biblioteca di Hitler che è un originale saggio sulle letture che hanno formato il dittatore tedesco. Sulle vicende biografiche di Hitler si è scritto fino all’inverosimile, ma mancava ancora uno studio specifico dedicato alla vasta biblioteca messa insieme dal Führer (circa 16.300 volumi).

L’indagine comincia dal periodo della prima guerra mondiale, quando Hitler combatte sul fronte francese; non è possibile, infatti, avere notizie certe sulle letture precedenti a questo periodo, sebbene coloro che conobbero Hitler da ragazzo affermano che era sempre stato un lettore vorace e onnivoro. Il primo volume al quale è possibile risalire è una guida artistica di Berlino scritta da Max Osborn (particolare interessante è che Osborn era un critico d’arte di origine ebraica e i suoi libri saranno vietati sotto il III° Reich). Il caporale austriaco ha letto questa guida turistica durante la sua permanenza al fronte: evidentemente nel fango delle trincee era difficile leggere cose più impegnative. Nel periodo del dopoguerra si hanno notizie più precise sulle letture di Hitler; un personaggio che ha molto influito sul futuro Führer è stato Dietrich Eckart, autore teatrale di grande successo. Eckart era un fervente patriota antisemita che si circondava di giovani militanti di movimenti nazionalisti e che poteva permettersi di fare da mecenate ai suoi accoliti, infatti fu lui a insegnare a Hitler i rudimenti della redazione di un libro e a presentarlo alle prime riunioni politiche affermando: «quest’uomo è il futuro della Germania. Un giorno tutto il mondo parlerà di lui».

In questo periodo Hitler leggeva numerosi libelli nazionalisti e antisemiti che fiorivano negli ambienti patriottici, e nel periodo che trascorse in carcere dopo il fallito Putsch di Monaco ebbe modo di approfondire questi argomenti, leggendo Paul de Lagarde, Houston Stewart Chamberlain e Hans F.K. Günther, nonché L’ebreo internazionale di Henry Ford. Hitler definirà il periodo trascorso in carcere come un corso di istruzione superiore a spese dello stato. Sempre in questo periodo Hitler scrive il Mein Kampf, nella cui prefazione precisa di non avere pretese intellettuali, ma di essere innanzi tutto un uomo politico.

Dei classici della letteratura tedesca Hitler aveva una conoscenza piuttosto lacunosa, sicuramente apprezzava più di tutti Schopenhauer. Visitò l’Archivio Nietzsche a Weimar dove la sorella del filosofo, Elisabeth, gli regalò il bastone da passeggio di Nietzsche. Fra gli autori a lui contemporanei Hitler leggeva con passione Ernst Jünger e della letteratura straniera sappiamo che leggeva Shakespeare. Un certo spazio avevano anche letture di evasione: racconti d’azione e d’avventura.

Il saggio di Ryback si sofferma anche su un episodio importante che riguarda la politica culturale del Reich. Quando il movimento nazionalsocialista si insedia al potere, diviene libro di testo nelle scuole Il mito del XX° secolo di Alfred Rosenberg, un saggio prolisso e piuttosto eccentrico in cui il gerarca nazista sosteneva tesi che urtavano particolarmente la sensibilità della Chiesa Cattolica. Il vescovo austriaco Alois Hudal scrisse Die Grundlagen des Nationalsozialismus, un libro che avrebbe dovuto sostituire quello di Rosenberg, smorzando gli accenti antisemiti del regime e orientando l’opinione pubblica verso sentimenti vagamente anticomunisti. L’operazione però non ebbe successo: il governo nazista ritenne che questa intromissione delle gerarchie ecclesiastiche nella vita politica dello stato fosse inaccettabile, tanto più perché metà dei tedeschi era protestante e anche perché il regime era tendenzialmente ispirato al paganesimo nordico.

Fra le letture di Hitler c’erano anche numerosi libri di argomento militare: cataloghi di carri armati, di sommergibili, di aerei… Durante gli anni della guerra Hitler consultò spesso questi testi, anche per informarsi sulle capacità belliche degli avversari. I volumi di argomento militare sono circa 7000!

Naturalmente il Führer leggeva volentieri le biografie degli eroi della storia tedesca, soprattutto di Federico il Grande: il leggendario re di Prussia era un vero e proprio idolo per Hitler.

Hitler non perse mai il gusto per la lettura, anche negli anni più impegnativi del governo e della guerra riusciva sempre a trovare qualche ora per leggere; e i libri della sua biblioteca personale presentano spesso segni di matita, appunti e rilegature rovinate, indici di letture non superficiali.

In conclusione si può constatare come Hitler, essenzialmente uomo d’azione, avesse una cultura umanistica piuttosto frammentaria e non sempre supportata da un’adeguata percezione della prospettiva storica.

ADOLF HITLER DICHIARA GUERRA AGLI STATI UNITI L’11 DICEMBRE 1941


Berlino 1942, Adolf Hitler ad una mostra di pittura; a sin. la direttrice della mostra


Hitler spiega dettagliatamente perché il Reich Tedesco non poteva più ignorare la politica degli Stati Uniti.

Va fatto notare che quando fu rilasciata la dichiarazione di guerra di Hitler, sul New York Times apparve una traduzione inesatta e fuorviante di alcune parti della dichiarazione.

Sebbene questo discorso storico dovrebbe interessare particolarmente gli americani, ma anche i popoli europei, pare che il testo completo non sia mai stato tradotto in inglese.

TESTO DEL DISCORSO

Il Presidente Americano ha usato sempre maggiormente la sua influenza per creare conflitti, intensificare quelli esistenti e, soprattutto, fare in modo che tali conflitti non venissero mai risolti pacificamente.

Per anni quest’uomo cercò provocazioni ovunque nel mondo, ma in particolare in Europa, da poter usare per creare un coinvolgimento politico con gli impegni dell’economia americana verso una delle parti contendenti, che poi avrebbe costantemente coinvolto l’America nel conflitto, deviando così l’attenzione dalle caotiche politiche economiche nazionali.

Le sue mosse contro il Reich Tedesco al riguardo, sono state particolarmente brusche.

Fin dal 1937 egli iniziò una serie di discorsi, di cui uno particolarmente spregevole, a Chicago il 5 Ottobre 1937, durante il quale, quest’uomo, incitava sistematicamente il pubblico americano contro la Germania.

Minacciò di creare una specie di quarantena nei confronti delle cosi dette nazioni autoritarie.

Come parte di questa costante e crescente campagna di odio e di incitamento, il Presidente Roosevelt fece un’altra affermazione offensiva (il 15 Novembre 1938) e poi richiamò a Washington per consultazioni l’ambasciatore americano a Berlino.

Da allora i due paesi sono stati rappresentati solamente da incaricati d’affari.

Dal Novembre 1938, iniziò sistematicamente e consapevolmente a sabotare ogni possibilità di una politica di pace europea.

Pubblicamente affermava ipocritamente di essere interessato alla pace mentre, nel contempo, minacciava qualsiasi nazione, disposta a perseguire una politica di intesa pacifica, di bloccargli i crediti, di rappresaglie economiche, di ritirare prestiti e via dicendo.

Al riguardo i rapporti degli ambasciatori polacchi a Washington, Londra, Parigi e Bruzelles ne forniscono un quadro scioccante.

Quest’uomo aumentò la sua campagna di provocazione nel Gennaio 1939.

In un messaggio indirizzato al Congresso Americano il 4 Gennaio 1939, minacciò di prendere qualsiasi misura, senza escludere la guerra, nei confronti delle nazioni autoritarie.

Egli sosteneva di continuo che altre nazioni stavano tentando di interferire negli affari americani e parlò molto della possibilità di sostenere la Dottrina Monroe.

Nel Marzo 1939, iniziò a fare delle prediche sugli affari interni europei che non competevano al Presidente degli Stati Uniti. Per prima cosa non capisce questi problemi e come seconda cosa, anche se li capisse e riconoscesse le circostanze storiche, non avrebbe più diritti di immischiarsi negli affari dell’Europa Centrale di quanto ne avrebbe il capo di stato tedesco di prendere posizione e di dare giudizi sulla situazione degli Stati Uniti.

Il Sig. Roosevelt andò ben oltre. In violazione del diritto internazionale, si è rifiutato di riconoscere governi che non gli piacevano, non ne ha accettati altri, si è rifiutato di rimuovere ambasciatori di paesi non esistenti e li ha addirittura riconosciuti come governi legittimi.

Arrivò persino al punto di firmare trattati con questi ambasciatori che gli davano semplicemente il diritto di occupare territori stranieri (Groenlandia e Islanda).

Il 15 Aprile 1939 Roosevelt lanciò il suo famoso appello rivolto a me e al Duce Mussolini, che era un misto di ignoranza politica e geografica, combinato con l’arroganza di un membro del ceto milionario.

Fummo invitati a rilasciare dichiarazioni e a concludere degli accordi di non aggressione con un certo numero di nazioni, molte delle quali non erano nemmeno indipendenti in quanto, o erano nazioni annesse oppure diventate protettorati subordinati a stati alleati del Sig. Roosevelt (Gran Bretagna e Francia).

Voi, miei Delegati, ricorderete che all’epoca (28 Aprile 1939) diedi una risposta franca e gentile a questo invadente gentiluomo. Una risposta che riuscì a fermare, almeno per alcuni mesi, l’uragano di chiacchiere di questo rozzo guerrafondaio.

In quella parentesi però fu la gentile moglie di Roosevelt (Eleanor Roosevelt) a prendere il posto del marito. Disse che lei e i suoi figli si rifiutavano di vivere in un mondo come il nostro.

Questo è quantomeno comprensibile perché il nostro è un mondo di lavoro e non di disonestà e di malavita.

Dopo una breve pausa però, il marito si rifece vivo.

Il 4 Novembre 1939 il Decreto che sanciva la neutralità (Neutrality Act) fu rivisto e l’embargo sugli armamenti fu abrogato a favore solo di coloro che fornivano armi ai nemici della Germania.

Intanto premeva in Estremo oriente per un coinvolgimento economico con la Cina che avrebbe alla fine portato a veri interessi comuni.

In quello stesso mese egli riconobbe a un piccolo gruppo di emigrati polacchi la qualifica di governo in esilio, la cui unica base politica erano i milioni in lingotti d’oro polacchi che si erano portati via da Varsavia.

Il 9 Aprile 1940 congelò tutti i beni norvegesi e danesi negli Stati Uniti col falso pretesto di evitare che cadessero in mani tedesche e questo sebbene sapesse fin troppo bene che, ad esempio, la Germania non ha interferito, ne tantomeno preso il controllo, dell’amministrazione dello stato danese dei suoi affari finanziari.

Assieme agli altri governi in esilio, Roosevelt ne riconobbe uno per la Norvegia.

Il 15 Maggio 1940 i governi del Belgio e dell’Olanda in esilio, furono anch’essi riconosciuti e allo stesso tempo furono congelati i beni belgi e olandesi negli USA.

Quest’uomo rivelò il suo vero atteggiamento in un telegramma del 15 Giugno 1940 al premier francese Paul Reynaud. Roosevelt gli disse che il governo americano avrebbe raddoppiato gli aiuti alla Francia a condizione che la Francia continuasse la guerra contro la Germania.

Al fine di dare un risalto speciale al suo desiderio che la guerra continuasse, dichiarò che il governo americano non avrebbe riconosciuto acquisizioni avvenute con la forza, il che includeva, ad esempio, la riconquista dei territori che erano stati rubati alla Germania.

Non mi serve evidenziare che, ora e in futuro, il governo tedesco non si preoccuperà se il Presidente degli Stati Uniti riconoscerà o meno un confine in Europa.

Cito questo caso perché è tipico della provocazione sistematica di quest’uomo che parla in modo ipocrita di pace mente allo stesso tempo incita alla guerra.

E lui temeva che se la pace fosse arrivata in Europa, i miliardi che aveva dissipato in spese militari, sarebbero stati considerati come un lampante caso di frode, perché nessuno attaccherebbe l’America a meno che non fosse l’America stessa a provocarne l’attacco.

Il 7 Giugno 1940 il Presidente degli Stati Uniti congelò i beni francesi negli USA in modo, disse lui, da evitare che cadessero in mani tedesche, ma lo scopo vero era quello di impossessarsi dell’oro che era stato portato via da Casablanca su un incrociatore americano.

Nel Luglio 1940, Roosevelt iniziò a prendere nuove misure in direzione della guerra, come permettere a cittadini americani di prestare servizio nell’aviazione inglese e di addestrare personale dell’aviazione britannica negli Stati Uniti.

Nell’Agosto del 1940, venne concluso un patto di collaborazione militare fra Stati Uniti e Canada, in modo da creare un comitato di difesa congiunto americano-canadese, plausibile solo alle persone più ingenue e sciocche.

Roosevelt si inventava periodicamente delle crisi e agiva come se l’America fosse minacciata da un attacco immediato. Annullava improvvisamente i viaggi e ritornava rapidamente a Washington. Faceva cose del genere per evidenziare la serietà della situazione ai suoi sostenitori che veramente meritano compatimento.

Si mosse ancora di più in direzione della guerra nel Settembre del 1940 quando inviò 50 cacciatorpediniere alla flotta britannica e in cambio prese il controllo di basi militari di proprietà britannica nel Nord e Centro America.

Le future generazioni giudicheranno fino a che punto in tutto questo odio contro la Germania nazionalsocialista non abbia giocato un ruolo importante il desiderio di impossessarsi facilmente e a buon mercato dell’Impero Britannico nelle ore della sua disgregazione.

Dopo che l’Inghilterra non era più grado di pagare in contanti le forniture militari americane, Roosevelt impose il Lend-Lease Act (Legge Affitti e Prestiti) nel Marzo del 1941.

In qualità di Presidente, ottenne l’autorizzazione a fornire aiuti militari, sulla base di questa legge, a nazioni che lo stesso Roosevelt riteneva fosse negli interessi vitali degli USA difendere.

Quando fu evidente che la Germania non avrebbe mai risposto in alcun modo al suo ripetuto e rozzo comportamento, quest’uomo fece un'altra mossa nel Marzo del 1941.

Già in data 19 Dicembre 1939, un incrociatore americano (il Tuscaloosa), che si trovava all’interno della zona di sicurezza, fece dirottare la nave passeggeri tedesca Columbus consegnandola nelle mani della marina da guerra inglese. La conseguenza fu che la nave venne auto-affondata.

Lo stesso giorno, le forze armate americane collaborarono nel tentativo di catturare la nave mercantile Arauca.

Il 27 Gennaio 1940, in violazione del diritto internazionale, l’incrociatore americano Trenton diede le coordinate di navigazione delle navi mercantili tedesche Arauca, La Plata e Wangoni, a forze navali nemiche.

Il 27 Giugno 1940 annunciò una limitazione sulla libera navigazione di navi mercantili straniere nei porti americani, in completa violazione delle leggi internazionali.

Nel Novembre 1940 permise a navi da guerra americane di inseguire le navi mercantili tedesche Phrygia, Idarwald e Rhein fintanto che dovettero auto-affondarsi per evitare di cadere in mani nemiche.

Il 13 Aprile 1941 alle navi americane fu permesso di transitare liberamente attraverso il Mar Rosso per poter rifornire gli eserciti britannici in Medio oriente.

Nel frattempo, nel Marzo 1941, tutte le navi tedesche furono sequestrate dalle autorità americane.

Durante questi avvenimenti, i cittadini del Reich Tedesco furono trattati nel modo più degradante, obbligati ad essere relegati in luoghi in violazione delle norme internazionali, assoggettati a restrizioni di viaggio ecc.

Due ufficiali tedeschi che fuggirono negli Stati Uniti dalla prigionia in Canada, furono catturati, incatenati e restituiti alle autorità canadesi, probabilmente violando il diritto internazionale.

Il 27 Marzo 1941, lo stesso Presidente, che sarebbe stato contrario ad ogni aggressione, annunciò il suo appoggio al Generale Dusan Simovic e la sua cricca di usurpatori in Yugoslavia che avevano preso il potere a Belgrado dopo il rovesciamento del governo ufficiale in carica.

Diversi mesi prima, il Presidente Roosevelt aveva inviato il capo dell’OSS, Colonnello Donovan, un soggetto mediocre, nei Balcani con l’ordine di organizzare un sollevamento contro la Germania e l’Italia, a Sofia in Bulgaria e a Belgrado.

In Aprile, Roosevelt, promise aiuti sulla base della Legge Affitti e Prestiti, alla Yugoslavia e alla Grecia.

Alla fine di Aprile riconobbe emigranti yugoslavi e greci come governi in esilio e, sempre in violazione delle normative internazionali, congelò i beni yugoslavi e greci.

A partire dalla metà di Aprile del 1941, squadre navali americane iniziarono ad espandere le operazioni nell’Atlantico Occidentale, inoltrando ai britannici le loro osservazioni.

Il 26 Aprile, Roosevelt consegnò all’Inghilterra venti nuove vedette veloci. Intanto le navi inglesi venivano a turno riparate nei porti americani.

Il 12 Maggio navi norvegesi operanti per conto della Gran Bretagna, vennero armate e riparate (negli USA), violando il diritto internazionale.

Il 4 Giugno trasporti di truppe arrivarono in Groenlandia per costruire piste di volo ed il 9 Giugno arrivò il primo rapporto britannico che una nave da guerra americana, operante su ordine del Presidente Roosevelt, aveva attaccato un sottomarino tedesco vicino alla Groenlandia con cariche di profondità.

Il 14 Giugno, i beni tedeschi negli Stati Uniti furono nuovamente congelati, in violazione delle leggi internazionali.

Il 17 Giugno, sulla base di un falso pretesto, il Presidente Roosevelt chiese il richiamo dei consoli tedeschi e la chiusura dei consolati tedeschi.

Chiese anche la chiusura dell’agenzia di stampa tedesca Transocean, la Libreria Tedesca di New York e l’ufficio delle Ferrovie Nazionali del Reich.

Il 6 e 7 Luglio 1941, forze armate americane, che agivano su ordine del Presidente Roosevelt, occuparono l’Islanda che era nell’area delle operazioni militari tedesche.

Lui sperava che questa azione avrebbe per prima cosa costretto finalmente la Germania a entrare in guerra con gli Stati Uniti, e, per seconda cosa, neutralizzare l’efficacia dei sottomarini tedeschi, come nel 1915-1916.

Allo stesso tempo promise aiuti militari all’Unione Sovietica.

Il 10 Luglio, il Segretario Frank Knox annunciò improvvisamente che la marina americana aveva ricevuto l’ordine di sparare contro navi da guerra dell’Asse.

Il 4 Settembre il cacciatorpediniere americano Greer, sempre su ordine del Presidente, operò assieme agli aerei inglesi contro sottomarini tedeschi nell’Atlantico.

Cinque giorni dopo un sottomarino tedesco intercettò delle cacciatorpediniere americane che facevano da scorta ad un convoglio inglese.

In un discorso rilasciato l’11 Settembre 1941, Roosevelt finalmente confermò di aver dato l’ordine di sparare su tutte le navi dell’Asse e quest’ ordine venne ripetuto.

Il 29 Settembre, navi vedetta americane attaccarono un sottomarino tedesco ad Est della Groenlandia con cariche di profondità.

Il 17 Ottobre il cacciatorpediniere Kearny, operativa come scorta per gli inglesi, attaccò un sottomarino tedesco con cariche di profondità.

Il 6 Novembre forze armate americane si impossessarono della nave tedesca Odenwald, violando il diritto internazionale, portandola in un porto americano ed imprigionando il suo equipaggio.

Trascurerò, considerandoli senza senso, gli attacchi offensivi e le maleducate affermazioni di questo cosi detto Presidente contro la mia persona.

Che lui mi chiami gangster non ha alcuna importanza, poiché questo termine non ha avuto origine in Europa, dove questi tizi sono insoliti, ma in America.

Ma, a parte questo,non mi sento assolutamente insultato dal Sig. Roosevelt perché, come il suo predecessore Woodrow Wilson, lo considero mentalmente malato.

Noi sappiamo che quest’uomo, con i suoi sostenitori ebrei, ha agito contro il Giappone allo stesso modo. Di questo non devo parlarne ora.

Anche in quel caso furono usati gli stessi metodi.

Quest’uomo, prima incita alla guerra, poi mente sulle sue cause e lancia accuse infondate.

Infine, da buon vecchio massone, si rivolge a Dio che sia testimone dell’onestà delle sue azioni.

Il suo vergognoso travisamento della verità e le violazioni commesse, sono senza precedenti nella storia.

Sono certo che tutti Voi abbiate considerato un atto di liberazione il fatto che il Giappone abbia alla fine reagito per protestare contro tutto questo, cioè nel modo in cui quest’uomo aveva sperato e del quale non dovrebbe stupirsi (l’attacco a Pearl Harbor del 7 Dicembre 1941).

Dopo anni di trattative con questo imbroglione, il governo giapponese ne aveva finalmente le tasche piene di essere trattato in un modo così umiliante.

Tutti noi, il popolo tedesco e, credo, tutti i popoli rispettabili di questo mondo, consideriamo ciò con profondo apprezzamento.

Noi conosciamo il potere che sta dietro a Roosevelt.

E’ lo stesso eterno ebreo che crede sia venuto il momento di imporre lo stesso destino che tutti abbiamo visto e testimoniato nella Russia Sovietica.

Abbiamo conosciuto di prima mano il paradiso ebraico sulla terra.

Milioni di soldati tedeschi hanno visto in prima persona la terra dove questo ebraismo internazionale ha distrutto e annientato il popolo e la proprietà.

Forse il Presidente degli Stati Uniti non lo capisce. Se è così, allora la sua ristrettezza intellettuale di idee parla da sola.

Noi sappiamo che questo enorme sforzo mira a questo scopo.

Anche se non fossimo alleati col Giappone, ci renderemmo sempre conto chegli ebrei ed il loro Franklin Roosevelt intendono distruggere una nazione dopo l’altra.

Il Reich Tedesco di oggi non ha niente in comune con la Germania del passato.

Da parte nostra faremo ora ciò che questo provocatore ha cercato di realizzare per anni. E non soltanto perché siamo alleati del Giappone, ma piuttosto perché la Germania e l’Italia, con la loro attuale dirigenza politica, hanno la perspicacia e la forza di rendersi conto che in questo periodo storico sta per essere determinata, e forse per sempre, l’esistenza o la non esistenza delle nazioni.

Ciò che questo altro mondo ha in serbo per noi, è chiaro. Riuscirono a portare alla fame la Germania democratica del passato (1919-1933) e ora tentano di distruggere la Germania nazionalsocialista di oggi.

Quando il Sig. Churchill ed il Sig. Roosevelt dichiarano di voler costruire un giorno un nuovo ordine sociale, è come se un barbiere calvo consigliasse una lozione che garantisce la crescita dei capelli.

Anziché incitare alla guerra, questi gentiluomini, che vivono nei paesi più arretrati socialmente, avrebbero dovuto preoccuparsi dei loro popoli senza lavoro.

LA NOTTE


Il libro letto è stato scritto da Elie Wiesel che è anche il protagonista di questa crudele storia. Wiesel nacque nel 1928 a Sighet, in Transilvania e faceva parte di una famiglia composta da sei persone: la madre, il padre e quattro bambini, Hilda era la maggiore, poi c'era Bea, poi Elie che era l'unico figlio maschio e la più piccola si chiamava Judit. I genitori di Elie erano commercianti e Hilda e Bea li aiutavano in questo lavoro, mentre Elie era uno studioso e voleva diventare un cabalista. Elie e tutta la sua famiglia erano ebrei, e lui credeva in Dio.

Ora esaminiamo quello che accadde a Elie e a tutta la sua famiglia.

Elie e tutta la sua famiglia vivevano a Sighet, avevano molto da lavorare, ma egli voleva diventare un cabalista, ma suo padre continuava a ripetergli che solo a trenta anni poteva diventarlo. In questa città viveva un uomo di nome Moshè lo Shammàsh che era il factotum di una sinagoga chassidica e aiutava Elie a diventare cabalista. Un giorno gli Ebrei stranieri vennero espulsi dalla città e Moshè era straniero. Li caricarono su un treno e dopo poche settimane gli abitanti di Sighet si dimenticarono di loro. Quando Moshè riuscì a fuggire, tornò a Sighet per raccontare tutto quello che gli era successo, ma nessuno gli credeva e tutti pensavano che fosse matto. Nella primavera del 1944, i tedeschi arrivarono a Sighet e formarono due ghetti, uno più grande, e uno più piccolo. Una sera arrivò la brutta notizia: la deportazione .Tutti dovettero preparare il cibo e i vestiti per partire l'indomani verso una destinazione sconosciuta. Arrivarono a piedi fino alla stazione e vennero tutti caricati sul treno che era talmente pieno che per sedersi dovevano fare a turno. Una donna nella notte continuava a gridare: "il fuoco! il fuoco!", ma nessuno vedeva niente, perché in realtà non c'era. Arrivati a destinazione, qualcuno lesse il cartello che indicava "Auschwitz". La signora continuava a gridare, ma questa il fuoco c'era davvero e tutti lo videro, li fecero scendere. Li divisero in due gruppi: donne a sinistra, uomini a destra, gli tagliarono i capelli e li sistemarono in una baracca per la notte. Per colazione ricevevano del caffè nero, a pranzo e cena il pane e la zuppa. Molto spesso li sottoponevano a selezioni; i più deboli venivano uccisi e i più robusti continuavano a lavorare. Per riconoscerli vennero stampati a ognuno dei numeri sul braccio sinistro. Elie trovò alcuni amici che aveva a Sighet e altri se ne fece nei campi. A chi possedeva oro nei denti gli veniva tolto, Elie aveva una corona che le venne tolta. Vennero trasferiti a Buma e dopo qualche mese che si erano sistemati venne bombardata. Arrivò l'anno 1945 e le S.S. gli fecero un bel regalo: la selezione. A questa venne registrato il padre di Elie che pensava di morire, ma per fortuna scampò alla seconda selezione. Lì nevicava molto e a forza di stare con i piedi nella neve, il piede destro di Elie si era gonfiato, così si dovette operare. Pochi giorni dopo l'operazione si dovevano trasferire in un altro campo. Questa volta ci dovevano arrivare a piedi, anzi correndo. Il cammino fu molto lungo e le persone che cadevano a terra, perché sfinite, venivano fucilate. Elie aveva ritrovato il suo amico Julick che morì nella notte. L'indomani li caricarono su un vagone aperto, dove la neve entrava, il padre di Elie sembrava morto tanto freddo aveva preso. In quel vagone salirono in cento e scesero in dodici, il posto dove erano arrivati si chiamava Buchenvald. In questo campo, appena arrivarono, fecero una selezione, dopodichè li mandarono a lavorare. Il padre di Elie era sfinito, di questa vita non ne poteva più e proprio quando erano arrivati alla fine della loro vita nel campo, morì e Elie rimase solo, però per lui forse era nu peso in meno, senza di lui poteva pensare di più a se stesso, a mangiare senza pensare anche a suo padre. Elie dovette rimanere a Buchenvald fino all'11 aprile. L'ultimo giorno ci fu una battaglia in cui tutte le S.S. fuggirono, così un carro armato americano entrò nel campo e liberò tutti. Tutti ne furono contenti e lo era anche Elie, ma dopo soli tre giorni si ammalò. Un giorno raccolse tutte le sue forze e andò a guardarsi allo specchio e vide soltanto un cadavere che lo contemplava.

Questo libro venne scritto nel febbraio del 1984 a Firenze. Questa storia avviene nel periodo che va dal 1942 al 1945. Si svolse in diversi campi di concentramento tra cui Auschwitz, Buna e Buchenwald. Questo è un libro di tipo storico, perché parla dei campi di concentramento e di quando le famiglie venivano deportate da un campo all'altro, insomma parla della seconda guerra mondiale. Secondo me è stato scritto per fare capire alla gente quello che accadeva realmente, quanto poteva essere brutto e doloroso per le persone che vi erano coinvolte, ma può anche essere stato scritto per fare conoscere il passato, nel presente, insomma una fonte storica.

Questo libro potrebbe appparire noioso, ma in realtà per me è stato bellissimo, perchè ho capito veramente cosa si provava a stare lì. Ogni volta che a Elie accadeva qualcosa era come se accadesse anche a me, diciamo che è stato un libro perfetto, a me è piaciuto molto e l'ho letto molto volentieri.

MAUTHAUSEN BIVACCO DELLA MORTE


Bruno Vasari si volta verso il passato e vede scene di distruzione e di morte. Non tocca a tutti questo privilegio terribile. Gli altri sentono la morte come uno sconosciuto che aspetta in qualche punto ignoto più avanti. Bruno Vasari l'ha vista, l'ha frequentata, abitata ancora uno spazio della sua memoria. Bruno Vasari è l'autore di questo libro, venne rapito per la strada il 6 novembre 1944 dalle S.S. tedesche. Con lui c'erano i suoi amici: Manlio Magini, Bruno Montagna e Aldo Vespa vennero portati a: San Vittore. Bruno Vasari venne rinchiuso per 17 giorni in una cella del 5° raggio in cui attraverso i vetri rotti penetrava il freddo. Il cibo consisteva in caffè e un filone di pane al mattino in una zuppa di verdura e pasta e un altro filone a mezzogiorno e di sera mezzo filone di pane. Il 23 novembre in autobus fu trasferito a Bolzano dove giunsero il mattino del 24. A Bolzano certi lavoratori lavoravano, altri no. A chi lavorava si aumentava il cibo fino a 10 grammi di pane al giorno. Fu a Bolzano che in occasione degli appelli del mattino e della sera udirono per la prima volta gli strani comandi "cappelli giù !" "cappelli su !" con cui ci veniva ordinato il saluto ai loro sgherri. Il 4 dicembre furono avviati alla stazione per essere deportati in Germania. Nonostante l'accurata perquisizione a cui furono sottoposti, riuscirono a portare con loro seghe e scalpelli per servirsene nei tentativi di fuga. Il treno li portava a Mauthausen, erano in 66 in un vagone merci dove sono rimasti per cinque giorni e dal quale, durante il viaggio furono fatti uscire soltanto due volte. Giunti alla stazione di Mauthausen la sera del 19 dicembre furono incolonnati ed avviati verso il lager distante 6 chilometri, situato sulla vetta di una collina da cui si domina parte del corso del Danubio e la piana di Linz. Il campo numero 3,al quale loro furono destinati, era circondato da mura sorvegliate da torrette e illuminate da potenti riflettori. Il vitto consisteva in caffè senza zucchero alla mattina, verso le 9,10, dopo l'appello un litro di zuppa di rape, alla sera verso le 16-17 dopo l'appello 250 grammi di pane tedesco, una fetta di salame o un po' di formaggi e caffè. Vennero estratte le schede e partirono per il campo di lavoro. Si trovavano ad Arbeits-kommando. Erano accantonati in una scuola al centro del paese mentre il campo di lavoro era a 2 chilometri di distanza in un bosco di conifere. Il loro compito era quello di costruire 20 baracche per depositi militari lunghe 100 metri ciascuno. All'arrivo a Arbetis-Kommando Bruno non si sentiva bene, per alcuni giorni fu abituato ai lavori interni Il 15 gennaio, Bruno fu portato all'ospedale di Il Revier Mauthausen e appena arrivato fu rasato e gli fecero fare la doccia. Tutti coloro che avevano un incarico erano vestiti. Gli ammalati possedevano soltanto mutande e camicia e stavano scalzi. Tra i lavoratori coloro che avevano le cariche più importanti formavano la cosiddetta "prominentia". All'arrivo furono smistati al blocco corrispondenti alla malattia, Bruno fu messo nel blocco numero 6. La fame si accrebbe quando il 1 febbraio furono aboliti tutti i supplementi ed agli ammalati non fu più somministrato nè il latte nè il burro. Le medicine vennero consumate in pochissimo tempo e le scorte non furono rinnovate. La biancheria personale veniva cambiata raramente : una volta al mese. Alcuni compagni restavano anche dei giorni e a Bruno capitò per 15 giorni. Bruno con il tempo migliorava, finalmente il 5 maggio verso le ore 12.00 comparve su per l'erta della collina di Mauthausen una staffetta americana protetta da un carro armato e sul pennone del lager fu innalzata bandiera bianca. Da Mauthausen attraverso Salisburgo e Monaco furono trasportati a Hochst sulla frontiera svizzera, nei pressi del lago di Costanza. Camminarono per 5 Km per raggiungere le baracche per ripararsi, questa era senza tetto e piena di cimici. L'indomani mattina un camion americano li trasportò attraverso il Tirolo e l'Alto Adige a Bolzano dove lì vennero accolti da molte persone.

La trama di questo libro si svolge da quando è stato rapito al 21 agosto 1945 a Milano. Bruno si è spostato in 5 posti diversi: San Vittore, Bolzano, Mathausen, Arbaits-Kommando, Il Revier di Mauthausen e poi ci fu la liberazione.

L’ERBA NON CRESCEVA AD AUSCHWITZ


Autrice: Mimma Paulesu Quercioli


Mimma Paulesu Qurcioli è nata a Ghilerza (Oristano) e vive a Milano, dove ha insegnato per quasi trent’anni.

L’autrice giustamente non interviene con un proprio commento, lasciando che le storie parlino da sole. Non è necessario infatti esprimere delle proprie emozioni, perché soltanto sentendo la parola Auschwitz si capisce molto.

Ha preferito che siano stati a scrivere la presentazione e la prefazione due persone le quali hanno contribuito a trovare fotografie che testimoniano episodi sconcertanti di donne e bambini.

La presentazione è stata scritta da Gianfranco Maris (Presidente Nazionale dell’ ANED, una Associazione Nazionale degli ex Deportati ).

Ha spiegato in un primo momento senza ombra di dubbio che la deportazione femminile nei campi di sterminio ebbe peculiarità che la resero più disumanizzante e tragica . Peculiarità che contrassegnarono anche il tempo del ritorno, il reinserimento nella famiglia e nella società, più doloroso, più circonfuso di diffidenza e di incomprensione rispetto a quello dell’uomo. Egli ci vuol far capire anche che, purtroppo, questa brutta guerra è stata vissuta e anche se passano gli anni, tutte le ingiustizie e il dolore che ha subito la povera gente, non devono essere dimenticate. Gianfranco Maris ha voluto anche fare un esempio di ragazzi che alla proiezione del film " Schindler’ s List" a Genova hanno riso quando non era proprio il caso. In conclusione evidenzia che la pietà per tutti coloro che sono morti su un campo di battaglia, nel corso di una guerra è un sentimento antico e difficile da interpretare oggi, ma noi e le future generazioni dovremo sempre saper distinguere il male dal bene e il giusto dallo sbagliato, perchè nessuno deve essere uno "strumento cieco" di qualsiasi, cioè deve essere al corrente di tutto quello che è successo in passato, per fare sì che non si ripetano degli sbagli.

La prefazione invece è stata scritta da Silvia Vegetti Finzi. In questa introduzione non ha voluto spiegare in modo dettagliato la storia, ma come Maris ci vuole fare riflettere facendoci domande, per esempio chiedendo se veramente tutti noi sappiamo che cosa è accaduto.

Prima di tutto si deve ricordare che quel cumulo di dolore innocente, non può essere posto fuori dal tempo e dallo spazio della storia, perché nulla ci garantisce che l’orrore non ritorni, magari sotto una maschera differente. Per aiutare noi stessi possiamo recuperare i frammenti di memoria che si celano sotto il silenzio che da tanti anni cerca di soffocarli.

Bisogna avere anche quella forza di volontà "di saper cogliere i fatti ", cioè oggi ci sono ancora testimoni di questa tragica guerra, che hanno voglia di sfogarsi raccontando (come Nuto Revelli ); perchè allora non potremmo aiutarli?.

Questo libro è diviso in quattro autobiografie di donne segnate dalla terribile esperienza della deportazione e vengono esposti i fatti nella loro nuda drammaticità.

Arianna, Loredana, Teresa e Zita in quel tempo erano giovani e pronte ad avere una propria gioventù; ma questo fatto sconvolgente ha turbato la loro vita, il dolore è sempre bruciante e Auschwitz ritorna a rovinare i loro sogni.

Tutte e quattro avevano un carattere diverso tra loro e diversi anche i loro ideali.

Arianna era una bambina cattolica , ma suo padre era un ebreo.Era molto ingenua e molto candida. A parte questo era molto dolce con sua madre e non riusciva mai a tenere un segreto.

Loredana invece, non stava molto bene come condizione economica e così già fin da piccola diventò una brava lavoratrice. L’unico suo problema forse era l’amore che non aveva mai avuto da sua madre e perfino da suo marito (pag. 70 ) e oggi quello che ancora più la rattrista è il disinteressamento dei suoi figli e dei suoi nipoti nei suoi confronti ( pag. 72 ).L’unico posto in cui si trova a suo agio è l’Associazione Deportati , ma i suoi ricordi le pesano sempre sul cuore, le amarezze di ieri e di oggi.

Zita ha un carattere ribelle alle ingiustizie, non le era congeniale una sofferenza silenziosa e passiva, infatti dopo qualche tempo decise di vendicarsi per i disagi subiti e fece causa a governi e stati, soprattutto a quello tedesco ottenendo una vera giustizia. Da quel giorno Zita fu molto contenta e iniziò a scrivere poesie. I suoi genitori erano ebrei ungheresi. Per i problemi che si riscontravano nella Repubblica dell’Ungheria si trasferirono a Milano ma per questioni finanziarie causate dalla morte di suo padre ritornarono in Ungheria; qui decise di essere battezzata cattolica, ma questo non cambiò le cose, perchè fu presa e portata in Germania nel lager di Auschwitz, così per lei iniziò il periodo inaspettato della guerra. I suoi spostamenti non furono molti, perchè arrivata in questo terribile posto fu deportata per questioni di lavoro a Lippstadt. Nei lager era riuscita a fare molte amicizie, tra qui una ragazza sedicenne francese di nome Marcelle, che incontrò perché come Zita le piaceva cantare e faceva parte dei musicisti del lager. Questa amicizia però non durò molto, perché Marcelle fu portata via...(pag. 123). Zita credeva molto in Dio e fino alla fine pregò, per fare sì che presto venisse salvata; infatti dopo un po’ di tempo gli americani liberarono tutti i prigionieri. Nei suoi pensieri non c’era la speranza di rivedere sua madre, sua sorella e suo nipote(anche loro deportati), perché era sicura che non li avrebbe più rivisti.

Il libro è formato, come s’è detto, da quattro autobiografie, le quali hanno un po’ una trama simile; l’autobiografia è un modo completo che fa capire direttamente i sentimenti, il dolore; la drammaticità insomma.

Penso che la curatrice abbia voluto riportare queste autobiografie, perché è molto importante ricordare oggi che la guerra c’è stata e che molta gente ha sofferto e come dice Gianfranco Maris nella presentazione dobbiamo sapere tutto quello che è successo in passato per far sì che non ci siano altri disastri.

VOCI DELLA SHOAH


Il libro è una raccolta di testimonianze di individui che hanno vissuto nei campi di sterminio tedeschi.

Nella prima parte del libro si trovano le testimonianze di tre persone : Goti Bauer, Liliana Segre e Nedo Fiano, che raccontano le loro esperienze di vita vissuta nei lager.

Nella seconda parte un altro ebreo di nome Oliver Lusting ci illustra un piccolo dizionario di parole e espressioni tedesche usate nei lager.

Fra la metà di maggio e l’inizio di giugno del 1992 furono organizzati degli incontri, dove questi tre ebrei hanno raccontato nelle scuole di Milano delle loro esperienze nei lager di Aushwitz - Birkenau per far capire ai giovani le crudeltà che sono riusciti a compiere i tedeschi e bisogna evitare che errori simili si ripetano.

Goti Bauer narra in poche pagine la sua storia.

Racconta che quando era stata proclamata a favore dello sterminio degli ebrei la sua famiglia e lei avevano cercato di proteggersi con documenti falsi ma, quando aveva diciannove anni, fu catturata con l’inganno con la sua famiglia e furono portati nei campi di sterminio.

Durante il viaggio nei carri di bestiame per arrivare a Birkenau furono trattati in modi a dir poco disumani.

Quando arrivarono gli uomini furono divisi dalle donne e ci fu la selezione che divideva i più forti dai più deboli che venivano mandati nelle camere a gas e successivamente nei forni crematori.

Ai sopravvissuti al posto del nome al quale non avevano più diritto fu tatuato un numero sul braccio, successivamente furono spogliati, lavati, rasati e furono loro distribuiti a casaccio gli indumenti.

Dopo sei mesi all’arrivo a Birkenau furono liberati dagli Americani.

Liliana Segre dopo la morte dei nonni che erano stati condotti con l’inganno ad Auschwitz ; suo padre e lei partirono quando aveva undici anni per la Svizzera ma durante il viaggio furono catturati e li portarono prima in una prigione e poi ad Auschwitz dove fu separata per sempre da suo padre.

Quando arrivarono i Russi, i Tedeschi fecero scoppiare il campo di sterminio e i prigionieri in buona condizione furono portati in altri campi più a nord.

Alla fine di aprile i Tedeschi fecero evacuare il campo ove si trovavano.

I Tedeschi fuggirono all’arrivo degli Americani e gli ebrei furono portati a casa.

Infine Nedo Fiano approfondisce l’argomento delle camere a gas e dei crematori.

Egli spiega come era brutto e disgustoso l’odore della carne bruciata e il fumo che si innalzava dal lager.

In fine Oliver Lusting nella seconda parte del libro illustra un "DIZIONARIO DEL LAGER".

In Questo dizionario ci sono molte parole come "haftling" che significa uomo privato di ogni diritto ma il cui unico futuro è arrivare nelle camere a gas e negli inceneritori.

Le storie sono ambientate tra il 38 e il 45 nel periodo in cui dominava Hitler e fu proclamata la legge sull’antisemitismo.

Queste storie sono per lo più ambientate in Germania più precisamente ad Auschwitz - Birkenau.

Goti, Liliana e Nedo raccontano queste esperienze per cercare di convincere i ragazzi a evitare che errori simili si ripetano.

Questo libro mi è piaciuto molto specialmente la storia di Nedo Fiano forse perché scrive in modo molto particolare la vita nel lager e mi ha fatto riflettere molto sulla guerra e su tutte le brutte cose che succedono e che sono successe nel mondo.