sabato 18 agosto 2012

La testimonianza di Matìe di Bordan


Un contributo significativo, nel giorno della "Giornata della Memoria", può venire, per esempio, dal racconto della esperienza di Mattia Picco di Bordano, classe 1920 (Matìe da Menone per i suoi compaesani).

Soldato del XXXIII Corpo di Fanteria, sul fronte jugoslavo, venne catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre e mandato prima nel Campo IV B nei pressi di Berlino poi, nelle vicinanze, a lavorare nella fabbrica dell'Arado, dove si costruivano aerei da guerra. Durante l'estate del '44 venne trasferito in un campo vicino a Lubecca, per ritornare poi presso Berlino, sino alla Liberazione. Ecco uno stralcio del suo racconto sugli ultimi giorni passati nel Lager e sulle peripezie vissute per ritornare a casa:

A questo punto i tedeschi cominciarono a distruggere tutti i macchinari della fabbrica. Restammo tre giorni in balia degli eventi, però il cibo ci veniva distribuito regolarmente. Il terzo giorno ci radunarono in mezzo al cortile della fabbrica dove ci divisero in due gruppi: uno lo mandarono nella baracca e l'altro lo mandarono a cercare un superiore tedesco morto nel bombardamento. Io ero fra questi ultimi ma l'ufficiale tedesco non lo trovammo. (...)

Il giorno seguente il mio amico milanese venne a cercarmi perchè dovevano radunarci e poi scortarci in marcia fino all'autobahnn (autostrada). Ci fecero prendere però una strada secondaria perchè sull'autostrada si stavano ritirando le truppe tedesche in fuga dal nemico. Noi eravamo in mezzo a due fuochi: da una parte i russi, dall'altra gli americani. Ci fecero attraversammo il fiume Elba su un battello e poi ci abbandonarono al nostro destino. Camminammo per tre giorni nel bosco, allo sbando, finchè ci imbattemmo in un soldato delle SS che parlava bene l'italiano perchè aveva combattuto in Abruzzo e che ci regalò un po' di biscotti . Continuammo a camminare ancora per tutta la notte e incontrammo un gruppo di neri (americani) fatti prigionieri dai tedeschi. Proseguimmo e, giunti in un campo, vedemmo tante bandiere bianche. Pensavamo di trovarci in un ospedale, invece era un campo di soldati americani. Lì ci alloggiarono in una specie di teatro e ci diedero da mangiare. Restammo in questo luogo un paio di giorni. Poi ci fecero riattraversare il fiume Elba e ci portarono ad Allen Sud Salen in una caserma diroccata in seguito ad un bombardamento. Lì incontrai persone di ogni razza.

Ci fermammo in questo campo fino agli ultimi giorni di giugno. Ci davano da mangiare regolarmente, e il cibo era sicuramente migliore di quello che ci distribuivano i tedeschi. Ricordo ancora il sapore di una zuppa, una specie di “panade”. Nel frattempo noi avevamo preso nella cantina della caserma tedesca dei piselli, della farina, della margarina e anche un po' di cioccolata. (...) In luglio da qui, ci trasferirono nella fortezza di Ulm: lì c'erano diversi friulani fra i quali alcuni di Gemona. Il campo era comandato dai francesi che non ce l'avevano “molto buona” con noi italiani, perchè ci accusavano di averli “pugnalati alla schiena”.

Ci perquisivano tutti e se ci trovavano addosso roba di valore ce la prendevano e se la tenevano loro. Passati quindici giorni circa, ci accompagnarono in stazione e ci inviarono verso l'Austria. Mentre aspettavamo il nostro convoglio, c'era un treno americano fermo sui binari: noi italiani salimmo e raccattammo tutto ciò che poteva esserci utile, soprattutto cioccolata, biscotti e gallette. Avevamo paura ma tutti andammo ugualmente a rubare qualcosa. Giunti in Austria, in una caserma, ci fecero lavare e in seguito visitare. Poi ci mandarono al Brennero dove militari italiani ci diedero dei panini e qualcosa da bere. Ripartimmo in treno e nei pressi di Verona a Pescantinas, ci fermarono in un binario morto. Qui incontrai alcuni conoscenti di Braulins i quali mi informarono che lo Stato aveva messo a disposizione alcune corriere per raggiungere le varie regioni d'Italia. Quella diretta in Friuli era ormai al completo così restammo a piedi. Per fortuna passò un camion diretto in Friuli, per la precisione a Nimis, che trasportava scarti di sedie. Ci diede una passaggio fino a Tricesimo dove arrivammo a mezzanotte passata. Sulla strada viaggiavano tanti camion inglesi che riconobbi perchè trascinavano dietro al mezzo la solita catena di circa cinquanta centimetri ( di cui però ignoravo e ignoro tutt'ora l'utilizzo). Nessuno di loro ci caricò. Per fortuna più tardi si fermò un camioncino, con a bordo i fratelli Tono e Bono di Venzone, i quali gestivano una macelleria. Per prima cosa si assicurarono che non avessimo pidocchi e al nostro diniego ci fecero salire. Facevano anche i contrabbandieri e avevano il furgone carico di mais. Ci chiesero di dove eravamo e noi rispondemmo che uno era di Braulins, che uno era di Bordano e che il terzo, che si era unito a noi, abitava ad Osoppo. Quest'ultimo scese all'altezza del bivio che dall'attuale ristorante “Il Fungo” porta ad Osoppo, mentre io e Antonio Feragotto (suocero di Pieri Pacheti) scendemmo in Campagnola all'incrocio dove attualmente c'è il semaforo. Siccome il ponte di Braulins era stato distrutto attraversammo il Tagliamento a nuoto, perchè a causa del buio, non avevamo visto che poco più a valle avevano costruito un ponte provvisorio. Antonio mi chiese se volevo passare la notte a casa sua, ma io desideravo arrivare a Bordano, così mi incamminai verso il mio paese. La prima persona che incontrai fu Tonine, la sorella di Letizia , la quale, quando mi riconobbe, cominciò a gridare ad alta voce il mio nome. Chiamò i miei genitori che, da quando la nostra casa era stata bruciata, dormivano sul fienile. Era il 29 luglio e ricordo che era domenica...

Benes (Stani Belsky) – GUFO NERO

Benes (Stani Belsky) – Gufo Nero – Mitragliere polacco originario di Varsavia, classe 1923, fa parte della squadra speciale del “Gufo Nero”.  In precedenza faceva parte della 26 brigata Garibaldi Distaccamento Beucci. Già operativo con una imboscata contro auto tedesche lungo la Via Emilia ed in altri due scontri a fuoco contro le truppe nazifasciste.

Modena (Viktor Pirogov) – Battaglione Russi

Modena (capitano Viktor Pirogov) – Battaglione Russi –  Originario di Rostov, è riuscito a fuggire da un campo di prigionia tedesco nel 1943. Prima si è rifugiato nel casolare dei fratelli Cervi a Gattatico in seguito sempre  nella bassa reggiana a Villa Seta di Cadelbosco Sopra in localita Gorna dove ha conosciuto Nalfa Bonini, diventata staffetta e sua fidanzata. Salito in montagna ora guida il Battaglione Russi del Battaglione Alleato creato da Roy Farran.

Colonello Eugen Dollmann – SS

Colonello Eugen Dollmann – SS – Il colonello delle SS Eugen Dollmann è da sempre uno degli uomini di fiducia di Adolf Hitler in Italia e ne è il traduttore ufficiale in tutti gli incontri nella penisola italiana tra lui e Benito Mussolini e gli alti vertici del fascismo. Con l’avvento della Repubblica Sociale Italiana è stata dislocato in territorio reggiano dove risiede in una villa alle porte di Reggio Emilia. A lui spetta l’ultima parola su ogni tipo di rappresaglia sul territorio. Ma Dollmann, abile doppiogiochista, per cercare di salvare la pelle, sta già preparando il terreno per la resa verso gli Alleati…

Michael Lees – SOE

Michael Lees, SOE – Missione Envelope – Il capitano inglese Michael Lees, paracadutato sul Cusna ai primi di gennaio del 1945 guida la missione inglese Envelope del SOE (il servizio segreto di guerra britannico) che  a Secchio di Villa Minozzo ed opera nel territorio reggiano. Lees è una delle due menti di “Operazione Tombola” insieme al maggiore Roy Farran del 2nd SAS.  E’ stato lui il 4 gennaio 1945 a disporre la creazione della squadra speciale “Gufo Nero” al servizio della missione britannica. Prima di essere operativo sull’Appennino Reggiano con la missione Envelope Lees è stato chiamato in azione in Yugoslavia ed in Piemonte per altre missioni oltre le linee nemiche. Sposato durante la guerra con Gwendaline ,anche lei agente segreto del SOE.

Gino (Gino Beer) - GUFO NERO

Gino (Gino Beer) SOE- Gufo Nero - Diciannove anni originario di Genova è  di famiglia di origine ebraica da parte di madre. Nel 1943 è sfuggito con la sua famiglia alle deportazioni nei lager nazisti da parte delle SS e delle milizie fasciste, rifugiandosi sugli Appennini. Prima quello Ligure dove ha iniziato a collaborare con la Resistenza come staffetta poi quello Emiliano dove è stato in seguito assoldato dalle squadre partigiane e dalle missioni  inglesi operanti tra  Modena. Parma e Reggio Emilia.  Per lui combattere i nazifascisti è “vivere o morire” ed è pronto  a tutto.

L’Alta Corte australiana nega l’estradizione in Ungheria dell’ex nazista Karoly Zentai


L’Alta Corte di Giustizia australiana ha respinto definitivamente mercoledì scorso l’estradizione in Ungheria di Karoly Zentai (8 Ottobre 1921), un australiano di origini ungheresi che ha raggiunto ormai la veneranda età di 90 anni, accusato di crimini di guerra a Budapest durante la II guerra mondiale. Per diversi anni, infatti, ha stabilito la sua residenza a Perth, in Australia, dopo aver vissuto in Germania nelle zone occupate dagli americani e dai francesi dopo la seconda guerra mondiale.



Karoly Zentai è sospettato di aver partecipato con due soldati ungheresi alla tortura e all’omicidio, commesso l’8 novembre 1944, di un giovane ebreo diciottenne di Budapest, Péter Balázs semplicemente perché non aveva indossato la stella gialla mentre era sul treno. L’ufficiale ungherese lo avrebbe quindi tratto in arresto e condotto presso la sua caserma di Arena utca 51 dove, insieme insieme ad altri due soldati – Mader Bela e Lajos Nagy – sarebbe stato selvaggiamente torturato a morte e, alla fine, gettato nelle acque del Danubio. Alla fine della guerra, Mader fu condannato all’ergastolo e Nagy alla pena capitale per crimini di guerra e, proprio nel corso del processo celebrato nei confronti di quest’ultimo, venne alla luce il ruolo svolto da Zentai nell’omicidio del giovane ebreo ungherese.

Zentai all’epoca era arruolato nell’esercito ungherese che, com’è noto, all’epoca era alleato con la Germania nazista. È stato inserito nella lista dei dieci criminali di guerra più ricercati dal Centro “Simon Wiesenthal”, che ha come principale mission quella di scovare i nazisti in ogni parte del mondo e, a tal fine, ogni anno redige una relazione sullo stato delle ricerche in tutto il mondo dei criminali di guerra nazisti. Sulla base di queste informazioni, nel 1948, le autorità ungheresi intrapresero immediatamente un’azione legale contro Zentai per trarlo in arresto ma, a quel tempo, già aveva provveduto a far perdere le sue tracce lasciando l’Ungheria e riparando nella zona americana della Germania occupata. Gli ungheresi chiesero la sua estradizione in modo da poterlo processare a Budapest ma, per motivi non del tutto chiari, l’ex ufficiale non fu rispedito in patria per rispondere dei suoi crimini.


Karoly Zentai, nel 1950, giunse dunque in Australia senza preoccuparsi neanche di celare la sua vera identità, facendosi semplicemente Charles, la traduzione inglese del suo nome. Oggi è un cittadino australiano e, ovviamente, nega tutte le accuse che gli sono state addebitate.

A distanza di molti anni Zentai è stato scovato dal Centro “Simon Wiesenthal”, grazie all’Operazione “Last Chance” lanciata ufficialmente in Ungheria il 13 luglio 2004, in seguito ai numerosi documenti presentati dal fratello della vittima, Adam Balázs, un anziano sopravvissuto all’Olocausto che vive a Budapest, allegando anche circa due dozzine di pagine contenenti le dichiarazioni dei testimoni a decorrere dal 1948, che provano che suo fratello Péter fu ucciso proprio da Karoly Zentai. Questo caso è stata seguito appassionatamente per lungo tempo proprio dal direttore del Centro “Simon Wiesenthal” Efraim Zuroff. Finché l’8 luglio 2005, Zentai è stato finalmente arrestato dalla polizia federale australiana e assicurato alla giustizia in attesa dell’estradizione in Ungheria richiesta dal Centro Wiesenthal per sottoporlo al giudizio di un tribunale militare ma, nel dicembre del 2009, l’ex ufficiale ungherese è stato rilasciato su cauzione. I familiari di Zentai hanno riferito che il loro congiunto ormai è un vecchio vedovo di 90 anni, affetto da una patologia cardiaca e una neuropatia periferica e, pertanto, non sarebbe sopravvissuto al viaggio in Ungheria.

Il governo australiano ha approvato la sua estradizione nel 2009, ma il provvedimento è stato rovesciato nel 2010, in prima istanza e poi definitivamente in appello nel 2011. L’Alta Corte, le cui decisioni sono definitive, ha concluso che Zentai non può essere estradato perché all’epoca in cui si sono svolti i fatti non esisteva in Ungheria il reato di “crimine di guerra”.

Ernie Steiner, figlio dell’imputato, ha più volte dichiarato che suo padre è disposto a collaborare con la giustizia australiano per far luce su questo episodio, ma non vuole assolutamente essere estradato in Ungheria. Le autorità giudiziarie magiare hanno reiterato la richiesta di estradizione dopo che il Centro “Simon Wiesenthal” ha accusato Zentai di essere fuggito dall’Ungheria, rifugiandosi in Germania al termine del secondo conflitto mondiale. Poche settimane or sono un magistrato di Perth ha stabilito che Zentai potesse essere estradato in Ungheria per affrontare le accuse di crimini di guerra che gli sono state addebitate, ma i suoi legali hanno presentato un ricorso contro questa sentenza emessa dalla corte federale di Perth, sostenendo che il reato di cui è accusato all’epoca dei fatti non costituiva reato secondo il diritto ungherese che è stato confermato dall’Alta Corte di Giustizia australiana.

A questo punto si attende fiduciosi che chi di competenza riesca a ripristinare il normale corso della giustizia – che, si badi bene, non significa affatto vendetta – ma il modo più efficace per rendere il doveroso omaggio alla memoria di chi ha pagato con la propria giovane vita la “colpa” di non indossare un ignominioso distintivo.

Nella struttura di Allach i detenuti erano utilizzati per costruire motori di aerei


Sono più di quel che si pensi i sardi finiti nei campi di concentramento nazisti: secondo uno studio di Aldo Borghesi, professore nell'istituto magistrale di Sassari e docente dell'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia, i deportati sarebbero 250. E furono nove a morire a Dachau: tra essi potrebbe esserci anche l'olbiese Salvatore Degortes. Pur risultando negli elenchi di Dachau, che fece scuola tra i lager tedeschi e come Auschwitz aveva la sconcertante scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi) sul cancello, venne rinchiuso nella struttura satellite di Allach. Campi minori come questi servivano spesso per avere a disposizione manodopera gratuita per le fabbriche. In particolare i prigionieri di quel campo venivano utilizzati nei laboratori di costruzione e riparazione di motori aerei della Bmw. Per uno strano gioco del destino il nipote Gavino ha fatto carriera come tecnico nel settore aeronautico.

VARIAN MACKEY FRY


Varian Fry nacque il 15 ottobre 1907 a New York, figlio di un agente di borsa e di una insegnante.

Dopo gli studi universitari ad Harvard si dedicò al giornalismo, specializzandosi negli affari esteri. Come giornalista per la "Foreign Policy Association" di New York fu mandato a Marsiglia nell'agosto 1940 dalla "Emergency Rescue Committee", un'organizzazione privata che aiutava i perseguitati nella Francia sotto occupazione nazista.

Lo scopo della missione, della durata prevista di tre settimane, era di aiutare duecento personalità del mondo culturale e scientifico, delle quali gli era stata fornita la lista, a fuggire dalla Francia occupata: per far ciò gli era stato assegnato un finanziamento di 3000 dollari.

La notizia si diffuse e Fry fu contattato da migliaia di perseguitati, gran parte dei quali ebrei, in cerca di una via di scampo.

Nel dicembre 1940 fu arrestato e detenuto per un certo periodo su una nave; rilasciato, riprese la sua attività malgrado l'ostilità della polizia francese e del consolato americano.

Per aiutare chi era in pericolo rimase a Marsiglia per oltre un anno. Agiva in piena illegalità, procurando tra l'altro documenti falsi per i perseguitati e organizzando il passaggio clandestino del confine.

Si stima che abbia assistito circa 4000 persone, tra le quali oltre 1000 lasciarono illegalmente il paese.

Tra i molti nomi illustri citiamo Hannah Arendt, Marc Chagall e Alma Mahler.

Un'attività di quelle dimensioni non poteva sfuggire all'attenzione della polizia di Vichy, né poteva contare sul sostegno delle autorità diplomatiche statunitensi, che rappresentavano un paese non ancora in guerra con la Germania.

Proseguì la sua azione come clandestino dopo che gli era scaduto il passaporto, finché nel settembre 1941 fu catturato ed espulso dalla Francia.

Dagli Stati Uniti continuò ad aiutare l'emigrazione clandestina dalla Francia occupata e si attivò per far conoscere quanto stava succedendo in Europa e per promuovere una partecipazione attiva delle democrazie, e degli Usa in particolare, alle operazioni di salvataggio.

Negli Stati Uniti, però, la sua attività era considerata sospetta; il "Federal Bureau of Investigation" lo tenne sotto sorveglianza, impedendogli l'accesso a qualsiasi impiego governativo.

Continuò con difficoltà la sua attività di pubblicista, e infine si dedicò all'insegnamento in scuole secondarie.

Morì all'età di 59 anni, nel Connecticut, dove insegnava a tempo parziale.

Nel 1967 fu insignito del titolo di Cavaliere della Legion d'onore, la massima onorificenza francese.

Nel 1994 è stato riconosciuto Giusto delle Nazioni da Yad Vashem.

GIOVANNI e REGINA BETTIN


Giovanni Bettin nacque a Mellaredo di Pianiga (Venezia) il 30 giugno 1898.

Si sposò nel 1923 con Regina Gentilin, nata a Cazzago di Pianiga il 12 luglio 1903.

Nel settembre 1943 Regina gestiva una trattoria a Padova in Borgo S. Croce, mentre Giovanni lavorava come operaio alle officine La Stanga. Avevano due figli, Egidio e Dalmina, di diciotto e undici anni.

Regina era stata la balia di Lia Sacerdoti ed era rimasta affezionata a tutta la famiglia, composta da papà Edmondo e mamma Gabriella Oreffice, e dai figli Lia, all'epoca undicenne, e dal piccolo Michele di otto anni.

I Sacerdoti, dopo il 10 settembre, erano nella loro casa veneziana al Lido, quando i tedeschi intimarono al prof. Giuseppe Jona, Presidente della comunità israelitica, di consegnare l'elenco degli ebrei residenti, ma questi si suicidò per non accondiscendere alla richiesta.

In quei frangenti terribili, Regina assistette casualmente alla sosta in stazione a Padova, il 19 ottobre, del convoglio diretto ad Auschwitz-Birkenau, su cui, in diciotto carri bestiame, erano stipati in condizioni inimmaginabili gli ebrei romani catturati a Roma tre giorni prima.

Regina si mise in contatto con i Sacerdoti e si offrì di tenere con sé Lia e Michele. I bambini furono ospitati dai Bettin, che li facevano passare per loro nipoti, prima a Padova e poi, per sfuggire ai bombardamenti, a Mellaredo.

Dopo varie traversie, Edmondo e Gabriella Sacerdoti riuscirono a procurarsi documenti d'identità falsi grazie a Torquato Frasson, esponente del CLN vicentino (poi deportato con il figlio diciottenne Franco a Mauthausen, dove entrambi morirono nel maggio del 1945) e successivamente trovarono un rifugio sicuro a Schio grazie all'avv. Dal Savio.

Il 16 giugno 1944 Lia e Michele, dopo otto mesi passati in casa Bettin, si ricongiunsero con i loro genitori che da una settimana erano anch'essi ospiti dei Bettin a Padova.

Il 4 ottobre 1994 Giovanni e Regina furono riconosciuti Giusti delle Nazioni da Yad Vashem. Regina non era presente: era mancata il 7 luglio 1986.

Giovanni ricevette l'onorificenza da un rappresentante del Governo israeliano, nella sua città, davanti ai suoi figli e nipoti. Si spense pochi mesi dopo, a novantasette anni, il 15 settembre 1995.

GERTRUD LUCKNER


Gertrud Luckner nacque a Liverpool il 26 settembre 1900.

Il suo nome era Jane Hartmann, ma subito dopo la nascita fu data in affidamento ai coniugi Luckner di Friburgo in Bresgovia.

Fin dagli anni universitari si impegnò nel mondo del volontariato e dell'assistenza. Pacifista convinta, aderì alla Lega della Pace dei cattolici tedeschi, confessione che abbracciò poi nel 1934.

I piani criminali di Adolf Hitler le furono ben chiari fin dalla lettura, nel 1931, del Mein Kampf.

La sua esplicita avversione al nazismo la fece finire nell'elenco dei sospetti della Gestapo, che fin dal 1933, l'anno dell'avvento al potere di Hitler, ne intercettava regolarmente la corrispondenza. Quando il regime emanò i primi provvedimenti antisemiti, Gertrud si attivò consigliando agli ebrei di lasciare il paese.

Dal 1936, sotto la copertura di impiegata della Caritas tedesca, fornì aiuto e assistenza agli ebrei che volevano espatriare.

A coprire le sue attività provvedeva il presidente dell'organizzazione, Benedikt Kreutz. Il vescovo di Friburgo, Conrad Gröber, le rilasciò nel dicembre 1941, con la Germania in piena guerra e i campi di sterminio in piena attività, un salvacondotto volutamente vago e lacunoso, nel quale si specificava che Gertrud Luckner era incaricata di svolgere non meglio precisati compiti nell'ambito del servizio pastorale straordinario. Gertrud in realtà offriva agli ebrei il sostegno economico necessario a procurarsi falsi documenti per sfuggire alla polizia.

Nel 1943 fu arrestata con l'accusa di svolgere attività eversive.

Subì otto mesi di interrogatori in diverse carceri, finché fu destinata al lager di Ravensbrück, dove indossò il triangolo rosso degli oppositori politici. Il 3 maggio 1945 il campo fu liberato dall'Armata Rossa.

Anche dopo la guerra, Gertrud Luckner si adoperò, dall'interno della Caritas tedesca, per garantire assistenza ai reduci delle persecuzioni naziste. Nel 1966 fu onorata come Giusto delle Nazioni a Yad Vashem.

Morì a 95 anni a Friburgo, la città dove le sue spoglie riposano. Dal 1987 la scuola professionale della città porta il suo nome.

PIETRO e GIULIANA LESTINI

Pietro Lestini nacque a Roma il 23 novembre 1892.

Subito dopo l'occupazione tedesca di Roma (10 settembre 1943) l'ing. Lestini costituì una rete clandestina per nascondere e proteggere dai nazifascisti uomini politici, militari, prigionieri alleati ed ebrei.

Il primo rifugio fu il teatrino messo a disposizione dal parroco della chiesa di san Gioacchino nel quartiere Prati, padre Antonio Dressino. Venivano forniti aiuti in denaro, viveri, vestiti borghesi.

Nel giro di poche settimane la situazione precipitò: il 16 ottobre avvenne la brutale razzia del ghetto e nei giorni successivi furono arrestati anche alcuni commercianti ebrei di via Fabio Massimo.

Si impose la necessità di trovare un ricovero più sicuro.

Lestini, che aveva come preziosa collaboratrice la figlia Giuliana, allora ventunenne studentessa universitaria (è nata l'11 gennaio 1922), se ne inventò uno incredibile: un nascondiglio aereo in uno spazio angusto tra le capriate e la volta a botte della cupola, che lui conosceva bene per aver diretto i lavori di manutenzione e di restauro della chiesa.

Sul ballatoio con ringhiera che corre tutt'intorno alla base della cupola, s'apre una porticina che immette in uno stanzone. Quella soffitta, dal 25 ottobre 1943, accolse a turno decine di rifugiati, assistiti in ogni necessità. Per ragioni di sicurezza la soffitta fu murata nei primi giorni di novembre, e l'unico contatto con l'esterno restò il passaggio attraverso il rosone.

Il cibo era preparato da suor Marguerite Bernes del Convento delle Piccole suore della Divina Provvidenza o Figlie della Carità, che si trova di fronte alla chiesa.

L'organizzazione fu denominata S.A.S.G. (acronimo che significa appunto Sezione aerea di san Gioacchino).

Riuscirono così a sfuggire ai persecutori gli ebrei Alberto e Leopoldo Moscati (padre e figlio quindicenne) e i fratelli Arrigo e Gilberto Finzi. Alberto Moscati, sofferente di claustrofobia, lasciò il rifugio prima del tempo. Le donne di queste due famiglie, Anita e Nora Finzi, e la signora Moscati, con altre italiane e straniere furono nascoste da suor Marguerite Bernes in locali dell'Istituto.

In caso di malattia, o di altre cause connesse alle difficoltà della loro condizione, i rifugiati erano temporaneamente accolti in casa Lestini.

La soffitta fu abbandonata a fine maggio 1944. Pochi giorni dopo, il 4 giugno, Roma veniva liberata dagli alleati.

L'ing. Lestini morì a Roma l'8 agosto 1960.

Nel 1995 Pietro e Giuliana Lestini sono stati riconosciuti Giusti delle Nazioni da Yad Vashem.

Giuliana, preside in pensione, vive tuttora a Roma.

sabato 4 agosto 2012

La prostituta eroina dimenticata da tutti

Hedwig Porschütz ha salvato gli ebrei durante il nazismo, ma nessuno la ricorda mai


Esistono eroi che purtroppo per pregiudizi non vengono celebrati. Una di queste personalità è Hedwig Porschütz, una prostituta di Berlino che ha salvato vari ebrei dalla morte nazista, ma a causa del suo lavoro non ha mai ottenuto riconoscenza per il suo comportamento.

PROSTITUTA PER CRISI - L’orrore hitleriano è stato opposto da molti tedeschi, che durante la fase più tragica del regime nazionalsocialista si sono opposti per le più svariate motivazioni alle persecuzioni contro gli ebrei. Molti di loro erano persone semplici e sono finite nel dimenticatoio, e il loro operato fu celebrato grazie all’iniziativa di un ministro cittadino della Spd, Joachim Lipsitz. Altre persone però non hanno ottenuto neppure questo riconoscimento postumo, ed una di questi eroi si chiama Hedwig Porschütz. Nata come Hedwig Völker nel 1900 nel quartiere di Schöneberg, la berlinese cambiò vari lavori in gioventù, ma diventò disoccupata agli inizi degli anni trenta. Quando arrivò la grande crisi che travolse la repubblica di Weimar, Hedwig Porschütz iniziò a vendere il suo corpo per potere sopravvivere insieme al marito, anch’egli senza lavoro. Le sue attività di prostituta si concentravano ad Alexanderplatz, la grande piazza della parte orientale di Berlino dove la Porschütz aveva un alloggio. La vita della prostituta è sconosciuta fino agli anni quaranta, quando inizia ad avere un rapporto molto stretto con Otto Weidt, uno degli eroi della Berlino anti nazista, anche se è conosciuta la condanna subita per la sua professione.

EBREI SALVATI - Nella fabbrica di Otto Weidt trovarono ospitalità molti ebrei perseguitati dal regime hitleriano. Un cerchio di amicizie permetteva a Weidt di aiutare coloro i quali erano finiti nel mirino nazista a causa della loro etnia. Tra questi c’era in un ruolo di primo piano, come illustra Die Zeit, Hedwig Porschütz, che conduceva per l’imprenditore berlinese i fondamentali affari sul mercato nero. Questi servivano sia per fornire di vivere gli ebrei nascosti nelle officine, sia per corrompere i funzionari della Gestapo al fine di non far deportare i rifugiati nei campi di sterminio. La prostituta lavorava formalmente nella fabbrica di Weidt, anche se i suoi veri compiti erano le missioni di supporto agli ebrei nascosti dall’imprenditore berlinese. La stessa Hedwig Porschütz ospitò alcune donne a casa sua. Tre di loro si salvarono dai nazisti, mentre una fu deportata ad Auschwitz.

CONDANNA A VITA - Il ruolo della prostituta però non fu mai riconosciuto, neanche dopo la guerra, a causa di una condanna subita nel 1944. La polizia la prese a far acquisti sul mercato nero, e la sua attività di meretrice aggravò la condanna a sei mesi di carcere. La donna aveva perso la casa durante i bombardamenti su Berlino, e insieme al marito si trasferì in un altro quartiere della capitale dopo che il suo compagnò torno, molto malato, dalla guerra. La condizione di estrema povertà accompagnò la Porschütz per il resto della sua vita, ma la donna non ebbe neppure la gratificazione della riconoscenza. Nel 1959 l’ufficio competente per i risarcimenti di Berlino stabilì che le sue azioni pro ebrei non costituissero atti di resistenza al regime nazista tali da meritare una ricompensa. La condanna per prostituzione fu uno dei motivi per i quali alla Porschütz fu negata anche questa soddisfazione. Nel 1997 la donna morì in un ricovero per anziani. Solo il 20 luglio del 2012 è stata dedicata una targa alle sue azioni, a memoria delle prostituta che aveva salvato gli ebrei.

Olocausto e best seller: poco attendibile la testimonianza di Denis Avey

Denis Avey ai tempi dell’internamento nel lager

Auschwitz. Ero il numero 200543, l’opera di Denis Avey (con Bob Bromby) è da alcune settimane al vertice della classifica delle vendite (settore saggistica) in Italia, dopo aver ottenuto ottimi riscontri sul mercato britannico.

Il testimone, oggi novantaduenne, racconta di essersi arruolato nel 1939 nell’esercito britannico e di avere combattuto in Africa, nell’area compresa tra l’Egitto e la Libia, contro i nazifascisti. Catturato, venne trasferito in Italia e successivamente in un campo di prigionia nei pressi di Auschwitz.

Si tratta del campo E 715, dove furono internati prigionieri di guerra inglesi, utilizzati nella costruzione di una fabbrica, la Buna, che doveva servire alla produzione di gomma sintetica. Nel cantiere lavoravano anche prigionieri ebrei, provenienti da un vicino campo di concentramento, quello di Buna-Monowitz (Auschwitz III).

Il trattamento riservato a questi ultimi dalle SS e dai kapò era assai peggiore rispetto a quello concernente i prigionieri inglesi, sottoposti alla sorveglianza di soldati della Wehrmacht. «Noi non eravamo destinati allo sterminio, loro sì», scrive Avey. (pag. 140).

La testimonianza del prigioniero inglese non riguarda solo le difficili condizioni di lavoro nel cantiere di Buna, ma si estende anche alle condizioni di vita all’interno del campo di detenzione degli ebrei (Auschwitz III).

Avey dichiara, infatti, di avere attuato uno scambio di identità con l’ebreo olandese Hans e di essere disceso per due volte nell’inferno di Auschwitz III al fine di poter documentare «dall’interno» il processo della soluzione finale («Nella mia mente prese forma l’idea di prendere il suo posto. Solo così avrei potuto rendermi conto di persona di quanto stava accadendo», pp. 166-167).

Il successo commerciale del libro è in gran parte legato a questa testimonianza dal luogo infero, come ben evidenziato anche dalla copertina dell’edizione di lingua italiana: «Era il 1944. Sono entrato ad Auschwitz di mia volontà».

Denis Avey oggi, a 92 anni.


Analizziamo il valore di questa testimonianza. Nella prefazione al libro lo storico Martin Gilbert afferma che il gesto di Avey «ci permette di gettare una luce inedita su uno degli angoli più oscuri del regno delle SS» (pag. 8).

In realtà, i dati informativi forniti dal prigioniero inglese sono già noti da tempo e tutti reperibili nel libro, che Avey sembra conoscere, di Primo Levi «Se questo è un uomo»: il rientro degli ebrei dal cantiere di Buna, la scritta sopra il cancello «Arbeit macht frei», l’impiccato, l’appello, l’orchestra dei prigionieri, il Krankenbau, la Frauenhaus, la zuppa serale a base di cavolo, il fetido dormitorio, la colazione a base di pane nero, la marcia mattutina verso il cantiere.

Non c’è nulla di nuovo, nulla di inedito in ciò che Avey scrive. Si consideri, poi, che la duplice rischiosissima incursione ha richiesto la complicità di due prigionieri inglesi (Bill Hedges, Jimmy Fleet), dell’ebreo olandese Hans (il soggetto dello scambio), di un ebreo tedesco, di un ebreo polacco e del kapò del kommando di appartenenza di questi ultimi.

Sei persone in tutto: quattro rimaste anonime e i due inglesi che, essendo, a quanto pare, deceduti, non hanno potuto fornire alcuna conferma al racconto di Avey.

L’unica voce narrante è quella del militare inglese, che si offre nel segno del «prendere o lasciare». Confrontata con quella autorevolissima di Primo Levi, tale voce appare per di più assai flebile: nessun dato circostanziato, nessun nome identificativo di aguzzino o di vittima («Non sono nemmeno sicuro che Hans fosse il suo vero nome, ma io lo chiamerò così», pag. 157; «Non chiesi mai ai miei complici il loro nome», pag. 183 ; «Cercai di memorizzare i nomi dei kapò e delle SS, senza riuscirci», pag. 185).

A questo punto, tenendo conto sia dei corposi impedimenti alla realizzazione della duplice incursione sia del contenuto scontato e generico del racconto, risulta difficile, per non dire impossibile, dare credito a tale testimonianza.

Del resto, l’autore appare inaffidabile anche in relazione ad un altro passaggio drammatico della sua esperienza militare: quello dell’inabissamento nel 1941 della nave Sebastiano Venier che trasportò da Bengasi verso l’Italia Avey e altri prigionieri: colpita da un siluro, la nave «colò a picco con tutto il suo carico di uomini intrappolati dentro» (pag. 114).

In realtà, come accertato anche dal coautore Bob Bromby, la nave raggiunse la costa greca e tutti i prigionieri si salvarono (pp. 301-304).

La vicenda della Shoah con i suoi milioni di morti è una cosa terribilmente seria, che è stata documentata con circostanziati racconti da aguzzini e da vittime superstiti.

I confusi (inverosimili) ricordi di un ex-militare novantaduenne, ancorché ricevuto con tutti gli onori il 10 gennaio 2010 dal premier Gordon Brown al n. 10 di Downing Street e inserito nell’elenco dei ventisette inglesi «eroi dell’Olocausto», non servono alla causa (nobilissima) dell’accertamento della verità storica.





GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI (I.M.I) NEI LAGER NAZISTI (1943-1945)


C’è una pagina importante della nostra storia, affossata da più di mezzo secolo, che riguarda la schiavitù nei Lager nazisti dopo l’8 Settembre 1943 di 716.000 militari italiani, 33.000 deportati politici (militari e civili) e 9.000 zingari ed ebrei d’Italia e dell’Egeo. La deportazione in Italia gettò nell’angoscia sette milioni di familiari e amici, come ammise anche Mussolini.

Ma in Patria i reduci si ammutolirono e gli altri non vollero sapere! E’ perciò importante ripercorrere quelle vicende.

Gli italiani furono travolti dall’Armistizio segreto dell’8 settembre con gli Alleati, dopo una guerra di aggressione impreparata, non sentita, male armata e guidata (ma combattuta con indiscusso valore dai soldati italiani), dopo le batoste d’Africa, l’infelice campagna di Grecia, la tragica ritirata di Russia dell’A.R.M.I.R. (Armata Militare Italiana in Russia), lo sbarco alleato in Sicilia, i 600.000 prigionieri degli Alleati e il crollo del fascismo il 25 luglio 1943, seguito dai quarantacinque giorni di Badoglio senza che si instaurasse una democrazia.

L’Esercito Italiano, colto di sorpresa e allo sbando, si trovò alla mercé della rabbia tedesca. Hitler si aspettava il nostro voltafaccia e, fin dal 26 luglio, aveva calato in Italia altre 17 divisioni per occuparla, disarmare e sostituire le nostre truppe e attuare il piano, studiato dalla primavera, di deportare nel Reich, alla prima occasione, i nostri soldati come braccia da lavoro.

L’Esercito italiano, con 2.000.000 di combattenti e territoriali presenti, si dissolse nell’illusione del tutti a casa!, senza piani, ordini e mezzi, lasciato allo sbaraglio dal re, da Badoglio, da duecento generali in fuga e nell’indifferenza degli Alleati. Sopraffatte alcune nostre eroiche resistenze a Roma, nelle isole greche (Cefalonia, Corfù, Lero ...) e nei Balcani, la Wehrmacht (forze armate tedesche) disarmò con l’inganno 1.007.000 nostri militari, ne catturò 810.000 e ne transitò, in 284 Lager d’Europa, i 716.000 (l’88%, con 27.000 ufficiali) che si rifiutarono di collaborare per coscienza, onore, lealtà, dignità, stanchezza della guerra e convinzione del la va’ a pochi!, rinunciando a un ritorno a casa disonorevole.


Derisi dagli stranieri come spaghettari, mandolinisti e via dicendo, e usi ad autodenigrarci, dobbiamo essere fieri della nostra italianità, dalle qualità nascoste che emergono da questo "NO!" di ciascuno e di tutti, coraggioso e spontaneo, non condizionato da partiti e colonnelli, reiterato nei Lager per venti mesi di violenze e morti, e opposto ai tedeschi perfino da analfabeti della Barbagia, delle Madonne e dell’Aspromonte, usi da secoli al sissignore.

E se questa marea di renitenti avesse dato il sostegno politico e militare a Hitler e Mussolini? Quanti sarebbero stati i partigiani e con quali armi e prospettive? Certamente si sarebbe scritta una storia diversa e una ritardata vittoria alleata, come riconobbero autorevoli capi partigiani come Arrigo Boldrini e Paolo Emilio Taviani.

I militari italiani, catturati con l’inganno e senza quasi resistenza, vennero subito defraudati dai tedeschi del loro status naturale di prigionieri di guerra (KGF) e delle conseguenti tutele, e vennero marcati come internati militari (I.M.I., una qualifica arbitraria non prevista dalle convenzioni internazionali) e considerati falsamente come disertori badogliani e potenziali soldati del duce in attesa di ravvedimento e impiego

Nel corso di venti mesi si ebbe lo stillicidio di 103.000 (14%) collaboratori dei tedeschi arruolati per fame nelle Waffen-SS [SS combattenti] (23.000 nell’autunno del 1943), nelle divisioni fasciste di Graziani (19.000 a tutto il giugno del 1944) e negli ausiliari lavoratori della Wehrmacht e della Luftwaffe [forza aerea della Germania nazista] (61.000 fino al gennaio del 1945). I 613.000 I.M.I. irriducibili vennero sfruttati come schiavi, anzi come esseri subumani o pezzi numerati di magazzino (come li definivano i nazisti), in miniere, fabbriche e campi o a scavare macerie e trincee, sempre sotto minaccia delle armi, tra violenze, degrado, fame, malattie non curate e dei bombardamenti alleati. Le loro speranze di vita erano di pochi mesi poiché lavoravano da settanta a cento ore alla settimana con un consumo giornaliero di 2300/3300 calorie, non compensato dalla dieta di 900-1700 calorie. La sopravvivenza degli I.M.I. si deve a qualche pacco da casa, un po’ di riso e gallette del SAI fascista e soprattutto a furti di patate, svendite del poco non rapinato nelle perquisizioni e anche bruciando decine di chili di risorse corporee.

I soldati (e poi gli ufficiali) costretti a lavorare, dopo l’accordo Mussolini-Hitler del 20 luglio 1944, vennero arbitrariamente civilizzati in finti lavoratori liberi, mentre gli irriducibili finirono coatti come nemici dell’Europa nei Campi di punizione per detenuti ribelli (Straflager), nei Campi di lavoro rieducativi (AEL, Arbeitserziehungslager) della Gestapo dipendenti dai campi di sterminio (KZ, Konzentrationslager).


La resistenza degli I.M.I., nota come l’altra resistenza (o senz’armi, silenziosa, bianca) si attuò a rischio di morte con il sabotaggio, la non collaborazione e il lavoro rallentato fino anche a metà o un terzo della norma dell’operaio tedesco e, indirettamente, consumando risorse e distogliendo per venti mesi dai fronti, per custodia, più di 60.000 soldati tedeschi. La resistenza degli I.M.I. non fu inerme, né moralmente meno eroica di quella armata.

Dal 1943 al 1945, gli schiavi di Hitler di 28 paesi, deportati in oltre 30.000 Lager, dipendenze e comandi di lavoro (AK), furono in tutto 24 milioni, con 16 milioni di morti. I prigionieri di guerra (KGF) dovevano lavorare; gli alleati venivano trattati secondo le convenzioni, nutriti, curati, pagati, tutelati da uno stato neutrale e assistiti dalla Croce Rossa; i russi erano sfruttati senza tutele, affamati e malati; i deportati politici, razziali, asociali o tarati erano trattati anche peggio, destinati all’eliminazione con le armi, il gas, le malattie non curate e il lavoro duro accompagnato dalla fame. Gli I.M.I. erano trattati come i russi, ma - caso unico - potevano scegliere in ogni istante tra la libertà con disonore e il Lager con dolore: scelsero la schiavitù, coerenti coi valori e la coscienza in una scelta continua ossessionante più della stessa fame e reiterata per 600 giorni, come dire 50 milioni di secondi, cifre presto scritte ma eterne a viverle.

Gli I.M.I. pagarono la loro scelta con 51.000 caduti (l’8%, di cui 23.000 per fame e gli altri per malattie, violenze e fatti di guerra) che venivano a sommarsi ai 29.000 della prima resistenza armata (come a Cefalonia), ai 31.000 deportati politici militari e civili e agli 8.000 ebrei e zingari che non fecero ritorno dai campi di sterminio (KZ). I morti furono in tutto 120.000 e coi 60.000 partigiani e civili caduti in Italia e nei Balcani, le vittime italiane dei nazisti furono 180.000.

A guerra finita i 560.000 I.M.I. superstiti (il 91%), civilizzati e militari, (compresi 11.000 prigionieri dei tedeschi e poi dei russi), testimoni imbarazzati dell’8 Settembre, furono accolti con diffidenza o indifferenza dagli italiani freschi della propaganda fascista che camuffava gli I.M.I. come cooperatori. "Ma chi sono" - si chiedeva il governo - "fascisti o comunisti da rieducare, repubblicani? E come voteranno?" - in una monarchia traballante che aveva abbandonato gli I.M.I. allo sbaraglio - "E che cosa mai rivendicheranno? Ma, insomma, chi glielo ha fatto fare a non lavorare, se firmavano mangiavano!" Pregiudizi avvilenti per gli I.M.I. e ispirati dal ricordo dei reduci della grande guerra che presero parte attiva alla marcia su Roma e all’impresa di Fiume.

Tutto questo avveniva nell’incomprensione, ingratitudine e disinteresse degli italiani: gli I.M.I. erano troppi, si sommavano ad altrettanti prigionieri degli Alleati e non facevano notizia come i partigiani, l’olocausto e l’A.R.M.I.R. Così il rimpatrio degli I.M.I. non venne sollecitato nel 1945 e si svolse in parte per iniziative del Vaticano o individuali.

Poi ci fu la guerra fredda e per decenni i nostri governi imbavagliarono la storia perché non riaffiorassero le colpe dei tedeschi, ora nostri partner nella N.A.T.O. (North Atlantic Treaty Organization) e in Europa e, nel primo dopoguerra, meta di nostri emigranti.

Così dal 1946, traumatizzati, delusi e offesi, gli I.M.I. si rinchiusero in se stessi anche in famiglia e nove su dieci rimossero la memoria dei Lager e della loro scelta, forse inutile o sbagliata. Più di 5000 diari clandestini, per lo più annotati a futura memoria da ufficiali e rischiosamente salvati, ingiallirono nei cassetti dei ricordi rifiutati dalla editoria commerciale. Se si prescinde dai bestseller autobiografici di Giovannino Guareschi e Primo Levi e antologici di Giulio Bedeschi, venduti in libreria a un vasto pubblico, dal 1945 sono state pubblicate solo 400 memorie e antologie di testimonianze di reduci, per lo più edite in proprio e fuori commercio, con tirature modeste (300 - 2000 copie per titolo) e oggi di difficile reperimento. Coi 300 saggi storici, per lo più tardivi e anche questi a tiratura limitata e considerando gli invenduti e gli acquisti di terzi, i libri sull’internamento in mano ai reduci non raggiungono il loro numero: meno di un libro a testa, che poi non è detto che fosse letto! Sempre per via della "rimozione", solo 65.000 reduci (il 9%) si iscrissero nelle associazioni in quasi 60 anni.


Questa, in breve, è la storia misconosciuta degli I.M.I., schiavi di Hitler, "traditi, disprezzati, dimenticati" come li definì lo storico tedesco Gerhard Schreiber e oggi nuovamente beffati dal governo tedesco che, dopo averli illusi in questi ultimi anni, nega pretestuosamente il simbolico riconoscimento della loro schiavitù. Sono pure trascurati dallo Stato italiano, salvo tardivi attestati di patrioti, combattenti per la libertà, ecc. ai sempre meno numerosi viventi. Ma les jeux sont faits, rien ne va plus! e la storia verrà approfondita col poco che è stato archiviato. La storia vera la conosce Dio, l’altra la scrivono i vincitori, la revisionano i perdenti, la rimuovono i protagonisti, la costruiscono gli storici e la ignora la gente e la scuola. Soltanto da vent’anni i nostri istituti di storia contemporanea, universitari o del Movimento di Liberazione hanno scoperto questo filone di ricerche e solo loro possono salvare, chiosare e tramandare alle future generazioni le testimonianze sempre più scarse e vacillanti dei reduci superstiti, oggi ottuagenari, ridotti a un quinto, e in rapido esaurimento.

Ma i giovani devono sapere perché, come e a quale prezzo i nonni, volontari nei Lager, si siano battuti per dare anche a loro la libertà e perché alla famiglia privilegiarono la Patria, famiglia delle famiglie, ma sfrondata dalla retorica fascista. L’ 8 Settembre non segnò, tanto più per gli I.M.I. e i patrioti, la morte della Patria ma solo quella dello Stato autoritario che si polverizzò in una repubblica fantoccio sotto il tallone nazista, due governatorati nord-orientali del Reich, un regno del sud sotto controllo alleato e poi un mosaico saltuario di 17 repubbliche autonome partigiane. Ma l’identità della Patria era sempre quella dei secoli passati, anche se non più intesa come una patria imperialista.

La Costituzione Repubblicana, dei cui principi discutevano già nei Lager il bianco Giuseppe Lazzati, il rosso Alessandro Natta, verdi repubblicani e azzurri monarchici, sancì lo stato democratico e riaffermò l’unità d’Italia da difendere. Anche l’europeismo nacque nei Lager dall’incontro dei prigionieri di tutte le Nazioni.

Benché se ne discuta, la Resistenza fu solo marginalmente una guerra civile tra italiani: nel settembre del 1943 a Cefalonia, nelle montagne d’Italia e dei Balcani e nei Lager, gli italiani non si contrapposero a italiani ma all’invasore tedesco e solo dopo, di riflesso, anche al vassallo fascista. La Resistenza fu soprattutto una lotta di Liberazione che rinsaldava la continuità rinnovata della Patria.


E dobbiamo riflettere anche sul perdono, di cui oggi ancora si discute non senza retorica. Il perdono è più che una doverosa rinuncia all’odio e alla vendetta, né può ridursi a un colpo di spugna o all’oblio, ma è un atto sublime e individuale che non si può esercitare senza deleghe e in nome dei morti. Per la pietas latina e cristiana i morti sono uguali, ma erano diversi da vivi!

Per i cattolici la remissione della colpa presuppone il ricordo, senza il quale non si saprebbe cosa e chi perdonare, un pentimento, dei buoni propositi e un’espiazione, condizioni sempre meno attuali non essendoci quasi più vittime e colpevoli in vita. Di pentiti la storia ne ha incontrati pochi, né possiamo perdonare figli e nipoti dei criminali, perché estranei ai misfatti, né possiamo perdonare Hitler e i suoi due milioni e passa di attivi collaboratori fanatici od opportunisti, per i genocidi commessi, reati che non cadono mai in prescrizione!

I capi di stato però, in nome dei propri popoli e della pace, possono chiedere perdono o perdonare - ed è bene lo facciano - altri popoli già conniventi coi dittatori.

Ricordare? Dimenticare? Certo dimenticare è più comodo ma non è lecito perché apre la porta al revisionismo di parte e impedisce la ricostruzione storica obiettiva. Il futuro è già scritto nel passato, per questo dobbiamo ricordare anche se l’insegnamento della storia sembra quello di non insegnare. Ciò che è stato si ripete, sia pure con differenze, da più di mezzo secolo, in ogni parte del mondo e sotto i nostri occhi che non vogliono vedere: 250 conflitti in 115 paesi, migliaia di campi minati, migliaia di campi di concentramento, ben oltre 27 milioni di morti, 20 tra feriti e prigionieri, 50 tra profughi, rifugiati e sfollati,  27 di schiavi, un miliardo di affamati e sottoalimentati, sempre più poveri e ammalati, con altri milioni di morti e sempre milioni di bambini che pagano le colpe dei grandi.

Ora più che mai, il retaggio dei reduci alle nuove generazioni è il loro motto: "mai più guerre, mai più reticolati!"

Ragazzi, datevi da fare oggi, come allora i vostri nonni, per voi e i vostri figli, anche se la pace a volte può sembrare un miraggio o un’utopia!

Anche alcuni cittadini di Cinisello Balsamo furono internati militari, alcuni di loro non fecero più ritorno: Mario Arabelli, Andrea Betti, Riccardo Bozzolan, Carlo Casati, Pietro Cotto, Giuseppe Fugazza, Giuseppe Robotti, Roberto Villa e Mario Zaghi.

Renzo Tremolada fu liberato dalla prigionia ma morì pochi anni dopo per malattia contratta in guerra, mentre Francesco Verganti morì nel naufragio del piroscafo che trasportava i prigionieri verso i campi di detenzione.

Altri militari furono internati ma riuscirono a ritornare a casa alla fine del conflitto, ne citiamo alcuni: Angelo Cappelletti, Pietro Dallan e Ugo Ghezzi.

Partigiane, la Resistenza taciuta

"Le donne nella Resistenza sono ovunque. Ricoprono tutti i ruoli. Sono staffette, portaordini, infermiere, medichesse, vivandiere, sarte. Diffondono la stampa clandestina. Trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa. Sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche. Hanno cura dei morti. Compongono i loro poveri corpi e li preparano alla sepoltura. Un certo numero di donne imbraccia le armi. [...] Tuttavia le donne non hanno ottenuto quei riconoscimenti che meritavano".
Angelo del Boca, partigiano, scrittore e storico

"Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza".
Arrigo Boldrini (Bulow), medaglia d’oro della Resistenza

Estratti dal volume*

PARTIGIANE – DONNE DELLA RESISTENZA


Già è stata notata la riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei di liberazione: essa non è che il preludio del silenzio che da allora coprirà centinaia di storie vissute da queste donne; silenzio delle istituzioni, anzitutto, ma silenzio delle donne stesse che si sono volontariamente emarginate dalle cerimonie e dalle manifestazioni celebrative, non meno che dai riconoscimenti e dalle onorificenze, per naturale riserbo, riacquistato col ritorno alla normalità. [...] La storiografia ha continuato perciò a considerare e valutare l’operato femminile in base al grado di avvicinamento ai valori, alle dinamiche delle azioni maschili. Individuare ciò che di nuovo emerge da questi nuovi soggetti storici che agiscono in condizioni loro proprie, del proprio sesso, e secondo propri criteri, significa allargare il raggio di visione della storia, vederne la complessità e la contraddizione e soprattutto non trascurarne mai il legame inscindibile con la vita di tutti.


PRIGIONIERE


Le donne che scelgono di lottare per la liberazione affrontano il carcere durante la Resistenza.[...] Suore e parenti si uniscono nel cercare di insinuare i sensi di colpa nelle politiche, donne anormali, che hanno trascurato i figli per la militanza, problema quest’ultimo che, nell’opinione comune anche alle donne, riguarda, nella coppia, soltanto la madre. Le politiche resistono e, operaie e intellettuali, ottengono qualche modesto diritto, si riuniscono a leggere e a studiare, a discutere tutte insieme e lo studio sembra loro quasi un momento privilegiato di quiete che nel ricordo ci tramandano, nella vita troppo affollata di faccende e di responsabilità che riprendono appena uscite di prigione. Le donne ostaggio, vivendo il carcere come sopruso violento, sono portate ad accogliere il messaggio delle politiche e, dalla riflessione sulla loro sorte privata, arrivano spesso alla consapevolezza antifascista, e assumono quindi sul campo le ragioni della loro resistenza.


Il carcere effettivamente è privazione di libertà, è privazione di cibo, di aria, di luce, di spazio, di rapporti umani , ma i motivi che hanno spinto donne e uomini all’antifascismo, nell’isolamento del carcere divengono più lucidi e saldi, la comprensione umana si allarga a tutti quelli che lottano per andare avanti. Così anche il carcere, in tutte le situazioni, contribuiva a rendere più illuminata, più forte, più alta la Resistenza.

Ada Buffulini "Maria", aderente al partito socialista, con la divisa del campo di prigionia. Sul petto sono cuciti il triangolo rosso e la matricola 3795. Arrestata a Milano nel '44 e deportata a Bolzano, nel lager fu rappresentante clandestina del suo partito.


In Italia avveniva anche la deportazione civile verso campi che erano di transito per i prigionieri diretti a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück e Auschwitz, come quello di Bolzano-Gries. Qui furono internati soprattutto prigionieri politici, partigiani, ebrei, zingari e prigionieri alleati. Tra le donne molte le militanti antifasciste, le ebree, le zingare, le slave e le mogli, le sorelle, le figlie di perseguitati antifascisti. Infine i bambini, provenienti da famiglie ebree, zingare e slave già deportate per motivi razziali. Nel campo fu attivissima una organizzazione di resistenza, in stretto contatto con una struttura di appoggio esterna.

materiali da ANPI Bolzano

RESISTENZA QUOTIDIANA


Le donne costituirono nel quotidiano per la Resistenza, non un appoggio assistenziale, ma la sua spina dorsale, la sua insostituibile rete di supporto. [...] Così in un primo momento ciascuna, anche se giovanissima, spinta da una profonda emozione, offre aiuto alla fuga, poi si organizza creando immediatamente una vasta rete di assistenza, che serve non soltanto a salvare i singoli smarriti soldati, ma offre agli sbandati la possibilità concreta di organizzarsi in bande di resistenza. Continua così l’attività delle donne: cominciano la raccolta di armi, di cibo, di vestiario, indirizzano i singoli sperduti. Le donne cercano, trovano, indicano luoghi adatti al raduno clandestino.


RESISTENZA ORGANIZZATA


Nel novembre del ’43 a Milano si trovano alcune dirigenti dei partiti del CLN, Giovanna Barcellona, Giulietta Fibbi e Rina Piccolato, comuniste; Laura Conti e Lina Merlin, socialiste; Elena Dreher e Ada Gobetti, azioniste, e gettano le basi di un’organizzazione femminile di massa che si chiamerà Gruppi di Difesa della Donna e di assistenza ai combattenti. Poiché le donne fanno già parte dei SAP e dei GAP, l’intento è di dare massima diffusione a quella che oggi si chiama Resistenza civile anche tra le donne comuni che ancora non hanno una chiara coscienza politica, più che logico dopo anni di esclusione dalla vita pubblica e dopo vent’anni di dittatura. [...] Sappiamo anche della denominazione venuta dall’alto: «Noi abbiamo avuto dal partito delle circolari in cui si diceva di costituire i Gruppi di Difesa della Donna e abbiamo accettato questo nome senza tanto discutere». Abbiamo dunque la prova dell’iniziativa del partito comunista che detta la denominazione ma sappiamo anche di vivaci discussioni tra le donne.
Milano, il 10.4.1945. Da sinistra: Virginia Scalarini e Mira Baldi casualmente ritratte da un fotografo di strada. Nella borsa Virginia Scalarini stava trasportando un milione di lire da recapitare al CLN milanese

INFERMIERE


Un ruolo tipicamente femminile, quello dell’assistenza sanitaria, negli anni della lotta alla liberazione è stato scelto liberamente ed esercitato in modo spesso rocambolesco dalle donne partigiane: infermiere, mediche, assistenti fuori da ogni norma, le donne assistono i feriti e i malati individualmente o negli ospedali pubblici o addirittura organizzano veri centri di pronto soccorso e assistenza medica, costituendo una sorta di esercito della salvezza clandestino.

L'infermiera Maria Peron, unitasi alla 85 brigata Garibaldi Valgrande Martire


STAFFETTE

La staffetta è una nuova risorsa nata dalla necessità della guerra civile, il suo compito è quello di trasportare ogni sorta di beni necessari, dalle armi alle munizioni, dal cibo alle vesti, dalle medicine alla stampa. [...] Le staffette sono donne che hanno deciso di partecipare in prima linea, di essere individuabili ed esposte, di correre tutti i rischi. Oltre alla consapevolezza della lotta al nazifascismo esse uniscono un desiderio di libertà, di autonomia personale.


FATTORINE


Sui giornali “maschili” le donne non scrivono, qualunque sia la coloritura politica, né su quelli comunisti, né su quelli azionisti, tranne due o tre eccezioni. [...] Le ragazze raccolgono i testi dai nascondigli di più o meno difficile accesso, li battono a macchina, li correggono, li portano in tipografia, di qui ritirano poi i giornali, fogli, manifesti e soprattutto li distribuiscono in mille modi diversi.


RESISTENZA ARMATA


Impossibile spiegare i motivi di tutte le scelte individuali, nel complesso delle testimonianze emerge, sia in quelle femminili che in quelle maschili, che l’uso delle armi viene inteso come desiderio di partecipazione totale. [...] Nelle testimonianze femminili si racconta che spesso i partigiani in brigata tendono a voler considerare e a usare le donne nel loro ruolo tradizionale di cura, spetta perciò alla donna, alla ragazza, insegnare che non è venuta a cucinare, né a fare l’amore, è lei che deve pretendere la parità dei compiti e il rispetto deve guadagnarselo sul campo, cioè nella vita in comune e nella lotta armata.


Si forma nella vita in comune un’etica partigiana molto rigida e austera e, nonostante la loro educazione fascista, questi giovani, che non avevano mai vissuto in cameratismo con delle ragazze, perché ai tempi del regime era considerato promiscuità, imparano un modo nuovo di rapportarsi alle donne della loro formazione, le trattano con rispetto, con amicizia, con tenerezza; né gli uni né gli altri dimenticano l’appartenenza di sesso, ma gli uomini cercano nelle partigiane un abbandono che è necessariamente soltanto sentimentale.

Di fronte alle ragazze partigiane, il sesso è rimosso severamente, resta uno di quei problemi “maschili” che a quel tempo le ragazze serie ignoravano, o meglio, fingevano di ignorare anche nella vita partigiana. Ovviamente nascono nella lotta simpatie e amori che di norma si concludono con le nozze.

[...] Finiti i tempi eccezionali, fu poi difficile persuadere gli altri di tanto rigore, e intorno alle partigiane che hanno vissuto in mezzo agli uomini aleggerà sempre un’atmosfera di sospetto. [...] La scelta di vivere in formazione comportava da parte della donna un carattere straordinariamente deciso e spesso la rottura con la famiglia.

Po di Ficarolo (Rovigo). Ritrovamento nel fiume del cadavere di una partigiana seviziata e uccisa dai nazisti.